Mezzi pensieri

Su ciò che si può o non si può pensare - Il solito linguaggio

La più sentita tra le definizioni di uomo è ‘animale razionale’. La meno ovvia tra le definizioni di uomo è ‘animale razionale’. Quel che di più evidente contraddistingue l’animale umano dagli altri animali è il linguaggio e, insieme, la razionalità. Ma ciò che di meno evidente contraddistingue l’animale umano dagli altri animali sono proprio il linguaggio e la razionalità. Aristotele fu il primo a formulare l’(in-)felice espressione nella sua Politica, cioè che l’uomo è ‘Zoon logistikon’ (Ζῷον λογιστικόν). Forse trita e ritrita alle nostre orecchie, essa ha sempre provocato, in secula seculorum, un marasma di reazioni e controreazioni di notevole portata.  
Sarebbe un errore dalle conseguenze letali credere che ragione e parola, razionalità e linguaggio, siano piani distinti e separati. Se anche è possibile che lo psicologo tratti la mente ed i suoi labirinti in maniera differente da come il filosofo tratta il linguaggio[1], va considerato un centro di gravità necessario, per ogni riflessione sull’uomo e le sue capacità, il nesso originario tra l’abilità nel parlare e quella nel pensare. Anzi, si potrebbe addirittura dire il nesso organico tra le due capacità.
Infatti, chi potrebbe contraddire il fatto che imparare a definire il mondo è la nostra possibilità di conoscerlo? E cos’è la definizione se non un prodotto linguistico?

Nel non troppo lontano 1892, Frege pose a se stesso e alla comunità scientifica le seguenti considerazioni: se il pensiero del mondo è determinato dal nostro linguaggio, e se il linguaggio possiede delle strutture sintattiche necessariamente distinte, come il soggetto ed il predicato, siamo sicuri che un pensiero sia in se stesso unitario? Se io dico “Il gatto è rosso”, sarà davvero unitaria la visione intellettiva del “gatto rosso” che tale proposizione genererà? Così Frege si esprimeva: «[…] non tutte le parti del pensiero possono essere in sé conchiuse, ma una almeno deve essere in qualche luogo insatura o predicativa, altrimenti le parti non potrebbero aderire l’una all’altra[2]».
Gottlob Frege era un matematico, logico-matematico, filosofo della matematica, matematico della filosofia. Sì, insomma: uno scienziato le cui indagini sono difficili da definire (giusto per restare in tema), quindi da collocare in uno scaffale preciso delle nostre biblioteche. Oggi è decisamente gradito ai filosofi tutti, e in particolar modo agli studiosi del linguaggio, che nella sua opera individuano un orizzonte capace di strutturare, integrare insieme, quelle stesse regioni umane di cui ora stiamo trattando: linguaggio e pensiero, conoscenza e parole.

La sua formazione matematica gli permise di interpretare le proposizioni del linguaggio ordinario, come “Il gatto è rosso”, allo stesso modo delle proposizioni matematiche, ad esempio “2꞊√4” (“2 è uguale a radice quadrata di 4”). Non importa affatto se la prima proposizione tratta di fenomeni reali, come il “gatto” ed il suo “essere rosso”, mentre la seconda tratta numeri ed operazioni numeriche: quel che c’è di identico tra le due è la loro forma logica. Entrambe infatti prevedono: un soggetto (il “gatto”, il numero “2”) ed un predicato (“rosso”, “√4”). I predicati non fanno altro che dire qualcosa a proposito del soggetto, sia esso un’entità reale o una logica come il numero. E poiché, secondo Frege, il significato delle proposizioni è il risultato delle loro operazioni interne, capire il significato di “2꞊√4” equivale a capire il pensiero espresso dalla operazione. Stessa cosa vale per “Il gatto è rosso”: il significato è il pensiero contemplato dalla proposizione stessa, cioè il risultato intellettuale che siamo in grado di cogliere. Significato equivale a pensiero[3].
Per quanto questa implicazione di linguaggio e pensiero possa sembrare non del tutto problematica, in realtà essa nasconde dei presupposti critici di non poco conto. Secondo Frege, le parole “gatto” o “2” hanno un significato che si può afferrare pure senza il supporto dei predicati “rosso” o “√4”. Analogamente, i risultati delle proposizioni, cioè “gatto rosso” e “2꞊√4”,   saranno pensabili in modo determinato. Ma possiamo dire lo stesso dei soli predicati? È possibile pensare il “rosso” senza l’oggetto di cui il “rosso” è predicato? È possibile pensare “√4” senza il “2”?  Per Frege la risposta è negativa. Pensare “…=√4” è impossibile perché, senza il “2” che le fa da soggetto, essa non significa alcunché.

È per questo che almeno una delle parti del pensiero, dice Frege, deve essere satura ed un’altra insatura. Quelli che noi chiamiamo “soggetti” delle proposizioni sono parole che devono corrispondere a degli oggetti, cioè ad entità piene, sature, cariche di un significato autonomo. Pertanto i segni linguistici come “gatto” o  “2”, o le espressioni complesse “Il gatto è rosso” e “2꞊√4”, sono tutti latori di un pensiero determinato. Ma quelli che invece diciamo “predicati”, nient’altro sono se non parole, o combinazioni di parole, che non corrispondono a nessun pensiero determinato: essi stanno per dei concetti, entità prive di un significato conchiuso, che non significano se pensati isolatamente.
Volendo usare una semplice metafora, forse persino banale, il predicato-concetto è come una ciambella col buco al centro. Solo se il vuoto centrale è colmato dall’oggetto la ciambella assume un significato saturo, proprio perché, ovviamente, smette di essere ciambella e diventa, potremmo dire, krapfen. La krapfen è la proposizione intera, ed il suo pensiero-significato è conchiuso, cioè corrisponde ad un oggetto saturo; le due parti distinte, il soggetto e il predicato, non possono più comprendersi come disgiunte.
Per riassumere: l’oggetto ha un significato completo, mentre il concetto uno incompleto. Dall’aderenza tra concetto e oggetto, cioè soggetto e predicato, deriva un nuovo significato, cioè quello proprio della proposizione intera; questo nuovo significato sarà anch’esso completo, poiché è il risultato unitario della parte insatura e di quella satura.

Ora, questa struttura predicativa-intellettuale, se compresa in modo approfondito, ci porta ad una considerazione interessante: quell’ingenua credenza che appartiene un po’ a tutti, secondo la quale ogni parola che impariamo ad usare ha un suo significato, cioè una corrispondenza a qualcosa che esiste e può pensarsi di per sé, si sbriciola miseramente davanti alle definizioni di saturo e insaturo, oggetto e concetto. E già: perché il nostro pensiero si rivela un composto, l’unione di due metà, di cui una (il concetto) è addirittura impensabile senza l’altra. Ciò vuol dire che il mondo della significazione ha dei suoi limiti intrinseci, che non vengono scoperti se non attraverso un’analisi logica tagliente come quella di Frege.   
Ma se invece di lasciarci disorientare dalla caduta delle nostre ingenue certezze, cogliessimo le riflessioni fregeane con un nuovo spirito critico e consapevole, avremmo la possibilità di considerare il linguaggio come un sistema tutt’altro che limitato, ma anzi interattivo. Un sistema capace di creare e ricreare pensieri in modo autentico, disponibile alla generazione di sensi nuovi in virtù delle connessioni nascoste tra le sue parti costitutive. In fin dei conti, l’esistenza di entità dal significato non concluso come i concetti, è la vera ragione per cui è possibile pensare, o meglio, costruire pensieri. È così procede la nostra conoscenza del mondo, tramite l’aderenza di significati completi e incompleti.
Come ogni teoria forte e dettagliata, quella di Frege non è certo esente da critiche, ma fuor di dubbio è la persuasività delle sue conclusioni: l’ “animale razionale”, quasi duemilacinquecento anni dopo Aristotele, rinnova con Frege la sua profonda identità.  

 

 

 

[1] In verità, quel che tratta lo psicologo non ha nulla a che vedere con la ragione ‘filosofica’, ma ci serviamo qui di questo confronto solo in maniera metaforica.

[2] G. Frege, Concetto e oggetto (1892), in Penco-Picardi, Senso, funzione e concetto, Laterza 2001, p. 73. Corsivo mio.

[3] Per chi possedesse già una conoscenza del pensiero fregeano, specifichiamo qui che stiamo deliberatamente tralasciando la distinzione tra “senso” e “significato” (Sinn e Bedeutung),  ed utilizziamo il termine “significato” nella maniera più ampia e comune possibile.


Parte della serie Il solito linguaggio - Considerazioni classiche e moderne sulla facoltà linguistica

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