Melodie dimenticate sui palchi di Vienna

La città orfana di Mozart nella voce del librettista de Il flauto magico. Sul romanzo Schikaneder e il labirinto

Se tutti conosciamo a grandi linee la storia de Il flauto magico, il Singspiel musicato da Mozart e andato in scena per la prima volta al teatro Freihaus di Vienna nel 1791, è probabile invece che l’esistenza del suo seguito – Il labirinto – sia ignota ai non appassionati: l’opera debuttò sette anni dopo Il flauto magico e fu dimenticata verso la metà dell’Ottocento dopo alcuni decenni di successo. Altrettanto oscuro potrebbe risultare il nome del librettista di entrambe le opere, Emanuel Schikaneder, capocomico del Freihaus e amico di Mozart: nel corso dei secoli la critica ha avuto la tendenza a separare la sublime musica de Il flauto magico dal suo libretto, ritenuto raffazzonato e infantile.

 

Schikaneder racconta ai suoi spettatori la nascita de Il labirinto a partire dall’ingaggio di Winter, ripercorrendo le peripezie che hanno messo in discussione la possibilità stessa di rappresentare l’opera come previsto

 

Schikaneder e il labirinto, opera d’esordio di Benedetta Galli, salva dall’oblio il personaggio di Schikaneder e racconta ai lettori la sua personale versione della genesi de Il labirinto. Il romanzo, pubblicato da Del Vecchio Editore, ha ottenuto la Menzione Speciale della giuria alla XXXIII edizione del Premio Calvino, è stato finalista al Premio Neri Pozza nel 2019 ed è, da pochi giorni, entrato nella decina del Premio POP – Opera Prima 2022. La specificità del soggetto non deve trarre in inganno: Schikaneder e il labirinto è un romanzo godibile anche per chi non sa nulla di opera e non ha mai visto una rappresentazione de Il flauto magico. Anzi: la voce narrante di Schikaneder, ammaliatore di folle e imbonitore di spettatori, è così convincente che bisogna mettere in conto la possibilità di correre a comprare un biglietto per lo spettacolo appena conclusa la lettura.

 

Il capocomico, infatti, si rivolge direttamente al suo pubblico nei momenti che precedono l’apertura del sipario alla prima de Il labirinto, il 12 giugno 1798. È un pubblico di periferia, affezionato alle scenografie maestose e alle trame piene di magia e colpi di scena del Freihaus, lontanissimo dalla compostezza dei frequentatori del prestigioso Nationaltheater. Un pubblico composto di «egregi sellai», «stimati panettieri», «pregiate pollivendole», secondo le frequenti apostrofi di Schikaneder; e, soprattutto, un pubblico con aspettative altissime dopo il travolgente successo de Il flauto magico. Accontentare questo pubblico non è un’impresa facile: Mozart, la «gallina dalle uova d’oro» del Freihaus, è morto pochi mesi dopo la prima de Il flauto magico e dunque il seguito è stato musicato da un altro compositore, Peter Winter. Schikaneder racconta ai suoi spettatori la nascita de Il labirinto a partire dall’ingaggio di Winter, ripercorrendo le peripezie che hanno messo in discussione la possibilità stessa di rappresentare l’opera come previsto. La trama ha una struttura semplice, quasi fiabesca: Winter ottiene l’incarico di compositore ricattando Schikaneder per un vecchio debito, ma è un uomo difficile e arrogante che non apprezza l’opera popolare e, secondo la compagnia, non riesce a catturare nella sua musica le sfumature dell’animo umano come invece faceva Mozart. Gli attori – gli stessi che sette anni prima hanno interpretato Il flauto magico, ora invecchiati e stanchi – insorgono: Schikaneder dovrebbe mediare ma è incapace di gestire Winter e la situazione precipita sempre più. Winter è evidentemente l’antagonista da sconfiggere per raggiungere un sospirato lieto fine, ossia la felice armonia umana e artistica che aveva animato la prima de Il flauto magico. Questa apparente semplicità, tuttavia, è insidiata dall’inaffidabilità di Schikaneder, un narratore che omette, ritratta, modifica la storia e i personaggi a suo piacimento e lascia ben presto spettatori e lettori a domandarsi quanto ci sia di vero in quello che stanno ascoltando e leggendo.

 

Non sono mai fuggito dalla realtà, io. La realtà mi piace. Mi piace ficcarci dentro le mani e riplasmarla. Mi ci piazzo davanti e le dico: “Bene, cara realtà, sono proprio curioso di vedere cosa diventerai una volta passata attraverso il mio cervello e la mia bocca”.

 

Le divagazioni e le ritrattazioni di Schikaneder sono tra gli elementi più interessanti del romanzo e contribuiscono a creare un ritratto colorito e vivace del mondo dell’opera popolare viennese alla fine del Settecento. Lo sguardo incantatore del capocomico trasforma ognuno dei suoi attori in uno stereotipo, pur nello sforzo affettuoso di attribuir loro pregi e difetti unici. L’effetto che se ne ricava da lettori è di star assistendo a nostra volta ad una opulenta messa in scena: siamo il pubblico di Schikaneder e accettiamo la sua versione della storia perché non siamo in cerca della verità, ma di un raffinato intrattenimento. Tra i personaggi che il racconto di Schikaneder ci restituisce spicca Mozart, più spesso chiamato Wolfi, già morto all’inizio della storia ma onnipresente nei ricordi del narratore e degli attori. La figura di Mozart viene idealizzata dall’intera compagnia dal punto di vista artistico e umano, e anche quando qualcuno riporta a galla i suoi difetti – tra tutti, l’incapacità di gestire il denaro e le incombenze pratiche della vita – questi si venano di poetica malinconia. Il ritratto che ne consegue è quello di un uomo schiacciato dalle aspettative che gravano su di lui, incapace di incanalare il suo talento in qualcosa di utile e di accogliere e rielaborare la sofferenza che invece ne ricava.

 

“Perché non posso essere ancora un ragazzino promettente di dodici anni? Quand’è che è diventato necessario guadagnarmi da vivere, col mio talento?”
Allora intuii che per Wolfi camminare nel buio e diventare uomo era una faccenda maledettamente cruciale, e sofferta, e difficile.

 

Il rimpianto per Wolfi, nell’intera compagnia, è così intenso da diventare paralizzante: è anche il rimpianto della gioventù, del successo, di un passato dorato così speciale da sembrare irripetibile e perduto per sempre. Rappresentare il seguito de Il flauto magico vuol dire aggrapparsi a quel passato e tentare di raschiare dal suo fondo ogni residua possibilità di felicità: la sfida di Schikaneder è riuscire a lasciare andare il ricordo di Mozart e di un tempo felice e tramontato, abbandonandosi al presente. Il futuro, d’altra parte, è un territorio incerto: come ci ricordano di tanto in tanto gli incisi di Schikaneder, il Settecento volge al termine e porta via con sé ogni aria residua di libertà e rivoluzione. Non è più il tempo per le storie di formazione in cui i personaggi imparano a stare al mondo da soli: l’Austria è in procinto di diventare un impero e l’Arciduca Francesco II è pronto a fare da padre al suo popolo; dunque, l’autonomia di giudizio non è più una dote così richiesta.


Nonostante il filtro dell’immaginazione di Schikaneder ci restituisca dei personaggi opportunamente distorti secondo le sue esigenze narrative (e di autoassoluzione), alcune figure riescono a districarsi dal suo racconto e ad assumere una propria identità. In questi casi, i lettori sono quindi in grado di vedere la scollatura tra le parole del capocomico e la realtà dei fatti. Questo succede soprattutto con i personaggi femminili: Schikaneder, grande amante delle donne, sembra essere tanto affascinato da loro quanto totalmente incapace di comprenderle. E così la soprano Anna Gottlieb, dipinta come una diva capricciosa, si ribella a questa narrazione e rivendica i sacrifici fatti per diventare una cantante e Josepha Hofer, cognata di Mozart, apre gli occhi alla compagnia sull’inadeguatezza di Wolfi come marito e padre. Su tutte spicca Leonore, moglie di Schikaneder e vera proprietaria del Freihaus: dopo una giovinezza burrascosa, infatti, la donna aveva lasciato il capocomico per un altro artista, con cui aveva comprato il teatro. Alla morte del nuovo compagno, Leonore sapeva bene che non avrebbe potuto continuare a gestire il Freihaus da donna sola: così chiamò di nuovo con sé Schikaneder e, senza lasciare al capocomico la possibilità di decidere su alcun punto, Leonore gli fa firmare i termini di un nuovo accordo di coppia su cui Schikaneder spesso sorvola e ritratta per probabile imbarazzo. Leonore cerca di guadagnarsi un posto al di fuori delle storie di Schikaneder, un angolo in cui essere padrona del suo destino: in questo si afferma come un personaggio moderno, autonomo e interessante.

 

Schikaneder, grande amante delle donne, sembra essere tanto affascinato da loro quanto totalmente incapace di comprenderle

 

L’ambiguità del racconto di Schikaneder, infatti, lascia spazio all’autrice per dare alla sua opera un respiro più ampio di quello del romanzo storico, con frequenti strizzate d’occhio al lettore contemporaneo e elementi di modernità che completano l’affresco dell’epoca. Chi dovesse chiedersi quale valore ha la riscrittura di questa storia nel nostro secolo, infatti, troverà risposta proprio nel protagonista e nel suo sconfinato amore per l’arte del raccontare: nell’epilogo, Schikaneder afferma che ha ancora fiducia nelle storie, nonostante tutto. La fiducia nelle storie è quello che ci spinge a leggerle e a scriverle, e che in questo romanzo viene celebrata con irresistibile gioia.

 

In copertina la Regina della notte ne Il flauto magico di Mozart rappresentato in Amadeus (1984) di Miloš Forman


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