Marco Bellocchio

Bobbio, 9 novembre 1939

Dagli angusti spazi familiari della borghesia emiliana che lascia per Milano e Roma, dov’è allo Sperimentale (1959), Marco Bellocchio farà l’oggetto e l’ambiente d’un lungo d’esordio, I pugni in tasca (1965), che sconvolge il cinema italiano per l’anticonformismo dei contenuti e d’uno stile tanto coerenti da condizionare vent’anni di lavoro: la famiglia nell’ombra morbosa d’una casa sprangata, il tempo astratto e avviluppato, lo stagliarsi dei corpi – quello dell’indimenticabile Castel – sono costanti d’un cinema sempre più politico (La Cina è vicina, 1967) che alla contestazione esplosa nel Sessantotto contribuirà documentando la militanza studentesca e proletaria nonché indagando, eversivo, i meccanismi del potere: se con l’autobiografia Nel nome del padre (1972) restituisce l’intero Paese nei cadenti dogmatismi d’un collegio cattolico, Matti da slegare (1976) fonda sull’interesse duraturo per la psicanalisi un’aspra denuncia degli ospedali psichiatrici. Un Salto nel vuoto (1980) nella follia sbocciata nei gangli familiari avvierà l’emancipazione che Bellocchio opera dal sé del 1965 con Gli occhi, la bocca (1982) finché Diavolo in corpo (1986), orientando su piani ravvicinati l’estrema sperimentazione dell’emozione, ne rinnova la scrittura filmica e conferma, come L’ora di religione (2002), i caratteri d’una regia pronta ad affrontare la realtà con una ricerca inesausta e libera da compromessi.   

 


Parte della serie Attori e Registi

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