Virginia Woolf

Londra, 25 gennaio 1882 – Rodmell, 28 marzo 1941

Nella vita familiare Adeline Virginia Stephen trova un covo di tensioni e l’occasione di un crollo nervoso, quando perde il padre dopo la madre e la sorellastra (1904) avvisaglia del disturbo maniaco-depressivo che terribili dubbi su sé e il proprio ruolo le infliggono, e che Virginia saprà assoggettare con uno slancio di personalità durante la Grande Guerra e col suicidio quando l’incombente vittoria nazista sembra ammutolire ogni scritto e scrittore. È infatti alla critica letteraria e alla narrativa che Virginia si è dedicata per decenni, intrecciando all’impegno civile di femminista e pacifista entro il Bloomsbury Group, alla vita sentimentale – il matrimonio col Fabian Leonard Woolf, l’affaire con Vita Sackville-West – il proprio progetto artistico: riformare il romanzo. Attingendo proprio al difficile patrimonio delle sue esperienze familiari, Virginia Woolf mira nella sua opera – ove spicca To the Lighthouse (1937) – a ricreare «some kind of whole made of shivering fragments» in cui l’individuo e la vita si riconoscano, a cogliere «the flight of mind» in modo talora simile a quanto tentato da Faulkner e Joyce. Frutto di sperimentazioni continue, le forme non lineari, i punti di vista multipli e mobili che fluidificano le percezioni fanno del frammentario stile di Woolf un monumento del modernismo, ma per l’indeterminatezza che diffondono anticipano la consapevolezza, ormai post-moderna, dell’evanescenza di confini e categorie.


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