Maps to the Stars di David Cronenberg

con Julianne Moore, Mia Wasikowska, John Cusack, Robert Pattinson

Agatha (M. Wasikowska) torna ad Hollywood per fare ammenda, Havana (J. Moore) vuole recitare in un remake di un film interpretato da sua madre, Stafford Weiss è impegnato a manovrare la propria carriera mentre la moglie si occupa con cura maniacale dell'ascesa di Benjie, il loro figlio prodigio, star preadolescenziale di una lucrosa serie televisiva. L'ossessione è ancora il fulcro della ricerca di Cronenberg, materia vischiosa che intrappola il pensiero, così Robert Pattinson è ancora ingabbiato nella sua limo, ma questa volta, a differenza di Cosmopolis, è cosciente della direzione, facendosi guidare dall'interesse perturbante per il corpo ustionato di Agatha esplora il sentiero delle stelle del cinema, cedendo alle lusinghe sessuali di Havana, le cui inquietudini si annidano come ragni nei recessi della psiche e si nascondo ben più insondabili sotto i riflettori dell'assolata Los Angeles.

In cerca di nuovi percorsi, portandosi dietro i bagagli della scoperte pregresse, Cronenberg anela ad un nuovo inizio, ad una nuova fase della propria sperimentazione, muovendo i primi passi in territori inesplorati procede con l'ortodossia del metodo scientifico, per prove ed errori spinge il suo sguardo sempre un po' più in là, allargando l'orizzonte tematico della propria ricerca. Marchiato dalla somatizzazione delle proprie intuizioni sembra quasi vergognarsi degli exploit giovanili, delle orgiastiche ibridazioni di animato e inanimato, condanna la propria incestuosa debolezza nei confronti di Burroughs e come un individuo che cerca di liberarsi da una dipendenza passa in rassegna le proprie scuse; così Agatha tornerà per chiedere venia al fratello, narcotizzato e lasciato in balia delle fiamme scaturite dalle proprie visioni, e tornerà altresì per compatire i suoi genitori, John Cusack e Olivia Williams, a loro volta figli incestuosi ma amanti inconsapevoli. Dall'altro lato c'è il Jerome di Pattinson che alla guida della sua auto non è ancora ben consapevole se conti più il viaggio o la meta, diretto dal lato istintivo del suo Io cede alle pulsioni sessuali sollecitate da Havana senza però raggiungere un risultato.

Allo sbando come i suoi personaggi, il regista canadese non ha ancora raggiunto la desiderata metamorfosi artistica, rinchiuso nel museo delle cere dei suoi precedenti lavori cerca una chiave per aprirsi a nuove intuizioni. Non lo aiuta la scelta stilistica di ambientare un dramma visionario sotto la luce di un mezzogiorno californiano, né lo aiuta la fotografia di uno storico collaboratore quale Peter Suschitzky che, anche a non voler pensar male, sembra averci messo la firma con la mano sbagliata. Di contro, lo aiutano gli attori, che ben diretti raggiungono il fulcro della narrazione. Una Julianne Moore che interpreta il ruolo che più le si addice, un Cusack sempre a suo agio in un thriller visionario e una Wasikowska ancora permeata da turbe stockeriane. Bene anche l'esordiente Evan Bird, fisico amorfo di un adolescente in sviluppo che solo basta ad esprimere la natura genetica delle elucubrazioni cronenberghiane.

Un film di ricerca come solito aspettarsi dal regista di Toronto, che prosegue l'analisi sull'identità e le sue diverse matrici d'autopoiesi, una fisica e l'altra intellettuale, fuse nella migliore tradizione di una fenomenologia esistenzialista. Sebbene ancora annebbiato dalla foschia che copre l'essenza più veritiera di ciò che sta cercando, Cronenberg si conferma un regista d'idee ben saldo alla guida della sua vettura nonostante le ruote consumate aderiscano poco al terreno e la carrozzeria inizi a tremolare rumorosamente. Piuttosto che auguragli una sosta dal meccanico, speriamo che come James Spader in Crash acceleri consciamente alla ricerca di un incidente capace di suscitare quella passione erotica e mortale che fornisce nuova linfa per illuminanti intuizioni.
 

 

«In fondo tutto è ricerca, non trova?»

CAN-FRA-GER 2014 – Dramm. 95' **


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