Madre e figlio

Aleksandr Sokurov e la dialettica della separazione

L’immensa distesa verde e un giovane uomo che piccolo quasi si smarrisce al potere dello sguardo. Il fischio d’un treno, lo stridere lontano sulle rotaie e il fumo bianco che si perde su di un cielo pastellato e grigio. Irrompe violento tagliando senza remore il quadro e ciò che lo compone; lo percorre da margine a margine, desiderio di fuga, desiderio di scelta e di comprensione. Impotente, il giovane rimane attonito e fermo. Soffocato l’istinto di rincorrerlo follemente, lo guarda sconfitto. Ed è come uno squarcio nel mistero più grande. «Il cuore, che male! Strappalo via! Strappalo via! Chi c’è, chi c’è lassù nel cielo?» – «Non c’è nessuno lassù» – «Eppure qualcuno mi ha ferito».

Un figlio accudisce la madre morente. Si prende cura di lei con tenera devozione. Flebile è la voce che col respiro sottile chiede d’uscire a fare una passeggiata per la fredda campagna. Inizia il viaggio con la donna portata in braccio nel luogo fuori dallo spazio e dal tempo che sospeso li sovrasta. Silenzi e rumori cullano le paure e i ricordi dei due personaggi, così schiudendo l’intimo candore della pietas e con ciò la semantica della visceralità del rapporto di una madre col figlio. Tutt’intorno, la natura sublime che li domina, terrorizza e rasserena. «È bello vivere qui, non è vero?» – «Sì, è vero. No, non è male vivere qui, non è male. Però c’è qualcosa che mi opprime sempre». «Creato sei bellissimo».
Poi tutto torna a posto, come prima. La madre riposa serena. Gli occhi di ghiaccio, il fuoco acceso. Il giovane vaga di nuovo, lasciandosi andare al pianto, preghiera silente e solitaria nello spazio sconfinato che la accoglie. Al suo ritorno, la madre s’è spenta in segreto, in compagnia d’una farfalla. I due corpi ora s’incontrano nel focolare, si carezzano pur accingendosi all’ultima separazione.

Sokurov eleva lo spettatore alla vertigine dell’immenso e così facendo lo tiene tanto a debita distanza, separato dalla materia sfumata posta all’attenzione del suo sguardo, quanto irrimediabilmente invischiato. È la distanza col divino, tradotta in immagini mediante la perfezione di un rigore formale imperante e la brutale fisicità con cui ancor di più l’occhio della macchina da presa si allontana da lui (come dai personaggi che attenta spia) imperscrutabile, sporcandosi di filtri, specchi e lenti deformanti che del quadro cinematografico fanno ora come una pittura di Friedrich, dichiarata fonte d’ispirazione del regista russo.
L’obiettivo cinematografico, che per sua intima essenza è responsabile del limite invalicabile che separa lo spettatore dall’opera filmica e con ciò dalla realtà rappresentata, è esasperato da Sokurov, deformato e tirato fin all’estremo; un muro erto per distanziare fino allo svilimento il soggetto (respinto) dall’oggetto-visto, che paradossalmente però lo risucchia subito dentro, così come in origine accade tra madre e figlio nel cordone reciso, separati e distanti ma uniti in eterno. Lo spettatore è dunque tirato dentro quella stessa visceralità che pulsa e che ora vive sconfinata assieme a lui, ospite inatteso di ciò che poco prima era chiamato solo a osservare e che adesso pericolosamente può dominarlo. In questo senso gli è allora lasciata ancor di più la responsabilità di soggetto, qui interpellato all’indagine sul mistero del creato.

«Un incubo mi tormenta la notte e mi sveglio sudato dal terrore. Il Dio che abita nel mio petto agita solo la mia coscienza. Il mondo esterno non interferisce con il corso degli eventi. Mi struggo per questa mancanza».
Carezza e sfrega la mano decisa del giovane su quella gracile e fredda mano materna; quella mano che un tempo, tenera, custodiva le paure del figlio e che, severa, tracciava il sentiero del proprio insegnamento. Una farfalla vi riposa. E poi, libera, vola via. Il treno è già passato col suo fumo bianco che nell’aria si perdeva su di un cielo pastellato e grigio; il suo fischio, un richiamo stridente e dolce al contempo, quasi a suggerir una fuga lasciata al visto impotente di un’immagine che fugace si destina alla morte e con ciò al non-ritorno, perdendosi fuori del quadro.
Passeggero ne è stato lo spettatore, complice irrazionale di quello “squarcio” e dell’esperienza estetica ed etica che lo ha prima respinto, tirato dentro e poi lentamente riportato fuori in una condizione di superamento, come un treno che deborda altrove maturo, mantenendo così eterna la sua più segreta e intrinseca distanza dall’opera.
«Mamma, so che tu mi senti. Lo so. Ascolta, ascolta quello che voglio dirti. Noi ci troveremo dove sai, dove avevamo detto. Ricordi? Aspettami, aspettami con pazienza. Mamma, aspettami». I due protagonisti diversamente silenti, prigionieri devoti e impauriti; avvolti ancora nel mistero della natura, come una madre tra le braccia del figlio nella calda coperta.


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