L’estetica dell’Antropocene

Antropologia del turchese di Ellen Meloy e la risposta sensoriale all'impatto umano sul pianeta

Leggo la raccolta di saggi Antropologia del turchese (Black Coffee, 2020), nella traduzione di Sara Reggiani, mentre sono stesa sull’erba del parco vicino casa, solitaria bolla verde incastonata tra grumi di palazzine color grigio topo. Il mio orizzonte cromatico è diviso in due parti: in basso lo smeraldo ingiallito di pioppi e frassini; in alto l’azzurro brillante del cielo inondato di luce, macchiato qua e là da qualche timida pennellata bianca. Sento nelle narici il sapore terrigno delle prime foglie cadute, mentre una misteriosa calma mista a eccitazione, sospinta dal vento capriccioso, pian piano mi pervade. Leggo e mi accorgo che ciò che sto leggendo lo sto nello stesso momento percependo con i miei sensi:

 

I neurobiologi sostengono che l’umana sensibilità al colore si sviluppi sin dalla nascita. Il senso estetico, il legame intuitivo tra bande cromatiche ed emozioni, diventa allora un tratto identitario netto come un’impronta digitale, un fenomeno inspiegabile che invita all’abbandono completo tipico della relazione amorosa. L’inebriamento da colore, talvolta sublime, spesso violento, può trovare espressione nel profondo attaccamento a un paesaggio. A buon diritto è stato detto che il colore è il fondamento primario del Luogo.

 

L’autrice statunitense Ellen Meloy, candidata al Pulitzer nel 2003 e scomparsa nel 2004, si occupava di letteratura naturalistica, da lei definita come «antidoto alla disperazione», come scrittura che, nel ricordare il profondo legame vitale che intratteniamo col pianeta, si propone di onorarlo. Antropologia del turchese è prima di tutto la mappatura geografica dei luoghi più cari all’autrice; l’area comprende i grandi spazi aperti del sudovest degli Stati Uniti (con qualche puntata in Messico), in cui Ellen ha vissuto, che ha esplorato nelle sue peregrinazioni solitarie o in compagnia del marito, e di cui parla – come spesso accade nella non-fiction di scuola anglosassone – a partire da suggestioni e ricordi personali in modo da legare il particolare dell’esperienza intima a una dimensione collettiva di più ampio respiro.

Come si evince dalla citazione sopra riportata, la chiave di lettura della raccolta è da rintracciarsi nell’approccio sensoriale al paesaggio. Usando La teoria dei colori (1810) di Goethe come spunto, Ellen Meloy spiega come la vista, «tiranna dei sensi», sia irrimediabilmente attratta tanto dalla luce quanto dal colore, e si chiede in che modo questa ci attiri verso uno specifico territorio: «cosa vedono gli occhi – scollegati dalla ragione, ma non dal cuore – che ci fa percepire un determinato luogo come casa?». È una cospirazione sensoriale, fondata sulla percezione, che ci permette di entrare in contatto emozionale con un paesaggio naturale cogliendone, per quanto questo ci possa essere estraneo, tutti gli elementi a noi familiari, vicini al nostro sentire. Naturale conseguenza di questa connessione è il senso di appartenenza che si instaura con un luogo, e i comportamenti che mettiamo in atto una volta che in esso siamo immersi.

Nel delineare questa particolare antropologia del colore, e nell’esplorare il rapporto con la nostra intelligenza sensoriale – sempre più anestetizzata dall’abuso tecnologico – che lega il nostro io a un territorio in modo totalmente inconscio, con Ellen Meloy ci ritroviamo a scoprire luoghi di straziante bellezza, a tratti aggressivi, che accolgono solo quando si è disposti ad abbracciarne l’indole selvaggia. Rimaniamo abbagliati dal verde rigoglioso dello Yucatán; ci lasciamo avvolgere dalle movenze sinuose del fiume Colorado, ai capricci di luce che lo screziano di colori freddi; ci sentiamo indifesi di fronte all’estensione del deserto del Mojave e dai suoi toni caldi, iridescenti; rispondiamo con meraviglia al rosso vermiglio, argilloso dei Canyon in netto contrasto col turchese del cielo – colore principe per l’autrice, di pulsione vitale, che indica anche la tonalità della pietra del deserto, la quale «abita esclusivamente la geografia dell’ascetismo, fra rocce spaccate dal sole e sporadica flora. In una palette di desolazione, un frammento di turchese è un foro aperto verso il cielo».

Più Ellen Meloy esplora il rapporto spirituale, biologico, culturale ed emozionale che l’uomo intrattiene attraverso la percezione visiva con gli ambienti naturali, impreziosendo i suoi racconti con storie di tradizioni indigene e saperi popolari, e più purtroppo ci rendiamo conto che i territori presi in esame sono anche vulnerabili e indifesi nei confronti dell’azione umana. Caso emblematico che si può rintracciare nel saggio Il walkabout degli Ahamakav è quello del Mystic Maze o Topock Maze, sito archeologico nell’area del Mojave che ospita un geoglifo di origini preistoriche. Luogo di culto per gli indigeni, il dedalo di sentieri ottenuto con lo spostamento di frammenti di rocce e ghiaia del pediment desertico è stato tagliato a metà nella parte superiore dalla costruzione di binari e asfalto, e contaminato dall’attività estrattiva della Pacific Gas & Electric, che sul margine orientale del geoglifo ha piazzato un impianto di compressione di gas e sul margine occidentale delle vasche di smaltimento di cromo esavalente, destabilizzando in modo permanente la composizione chimica del terreno, la natura spirituale del sito, il cromatismo del paesaggio.



 

Da qui, l’idea di applicare la stessa chiave interpretativa usata dall’autrice per relazionarsi con l’ambiente soggetto ad attività antropogenica pare allettante: se il colore rappresenta la «quintessenza di un Luogo», e se questo luogo è stato sottoposto all’azione umana tanto da renderlo in parte o interamente artificiale, c’è spazio per un possibile «inebriamento» sensoriale alla sua vista? E, sapendo che l’origine dei colori di quel luogo potrebbe non essere naturale, quale forma di stupore e attaccamento percettivo è in grado di provocare?

 

L’occhio si muove tra elementi familiari e altri sconosciuti, in un gioco di effetti straniante e conturbante che mischia allo stesso tempo l’attrazione visiva alla repulsione per le implicazioni ambientali di ciò che stiamo osservando



È stato evidenziato da molti studiosi quanto la nostra esperienza dell’impatto umano sul pianeta sia stata fino a oggi soprattutto visiva e sensoriale. Per dirla con le parole di Nicholas Mirzoeff nel suo saggio Visualizing the Anthropocene (2014), gli uomini non possono più percepire l’estendersi dell’Antropocene attraverso i secoli e lo spazio, ma possono solo visualizzarlo per quello che è adesso: «un’enorme macchina creata dall’uomo inconsapevolmente rivolta verso la sua stessa distruzione». La migliore prospettiva per poter visualizzarne gli effetti è quella dall’alto. Nel tempo la cartografia e le immagini fotografiche di vedute aeree hanno documentato l’espansione della tecnosfera, questo nuovo ‘sistema’ collegato alla biosfera naturale che comprende gli esseri umani con tutte le sue strutture sociali, gli artefatti tecnologici e i conseguenti prodotti di scarto.

Il potere persuasivo di questo tipo di immagini è evidente: basti pensare alle vedute aeree che documentano il cosiddetto «urban sprawl», l’urbanizzazione incontrollata di megalopoli come Las Vegas – città di cui parla anche Ellen Meloy nel saggio Attraversare il Mojave a nuoto – con le sue griglie di case tutte uguali, spersonalizzanti, tagliate qua e là da qualche stradone senza fine color petrolio, e dove tutto è immerso nel grigiore di una desolazione umana che, perdendosi oltre la linea dell’orizzonte, sembra trascendere ogni confine. Oppure si pensi alle foto che mostrano l’uso dell’acqua fossile – acqua bloccata in una falda acquifera antica anche di miliardi di anni e il cui sfruttamento equivale a una industria mineraria, poiché si tratta di un’energia non rinnovabile – nelle zone agricole del deserto libico, dove il verde scuro delle coltivazioni circolari, distribuite in file diligenti, buca il terreno sabbioso creando un pattern a pois che all’occhio non può che risultare innaturale, oltre che terribilmente misterioso, quasi affascinante, come se fosse opera di qualche entità aliena.

 

 

Tutte queste immagini ci colpiscono con l’efferatezza di uno schiaffo. Il loro impatto estetico e quindi, come diceva Ellen Meloy, il «legame intuitivo tra bande cromatiche ed emozioni», ci suscita sensazioni contrastanti tutt’altro che scontate. L’occhio si muove tra elementi familiari e altri sconosciuti, in un gioco di effetti straniante e conturbante che mischia allo stesso tempo l’attrazione visiva alla repulsione per le implicazioni ambientali di ciò che stiamo osservando – come se l’Antropocene possedesse un suo personale senso estetico, come se potesse diventare anche oggetto d’indagine dell’arte; e lo è stato, ad esempio, nel documentario Anthropocene: The Human Epoch, riflessione a metà tra arte e scienza sull’intervento umano nella riconfigurazione del pianeta, che mostra immagini terribili, eppure mozzafiato.

 

In questo cromatismo non c’è niente di naturale – è il cromatismo dell’Antropocene che ci attrae, che incuriosisce i nostri sensi inebriandoli.

 

Ma l’esempio più emblematico del rapporto sensoriale con gli ambienti antropogenici lo troviamo in Cile. A Salar de Atacama, nel bel mezzo del deserto non polare più arido del pianeta, la Sociedad Quimica y Minera gestisce una delle maggiori riserve mondiali di litio. Qui l’estrazione del litio avviene pompando l’acqua sotterranea in delle vasche artificiali che, man mano che il liquido evapora e la concentrazione di sali di litio aumenta, assumono varie colorazioni. Come Meloy metteva in contrasto il vermiglio dei canyon con il turchese della pietra del deserto, così ad Atacama sono le vasche artificiali di litio, contrapponendosi all’argilloso terreno desertico, a colorarsi di turchese, acquamarina, bianco; sembra che queste siano intente a rispecchiare la tonalità del cielo, trascinando il nostro occhio verso l’estasi visiva, la stessa che solo un colore così calmante e al tempo stesso palpitante di vita come il turchese riesce a provocare; invece la colorazione delle vasche è semplice conseguenza dell’attività estrattiva: in questo cromatismo non c’è niente di naturale – è il cromatismo dell’Antropocene che ci attrae, che incuriosisce i nostri sensi inebriandoli.

Alla luce di una risposta sensoriale così marcata, viene da chiedersi se arriverà il momento in cui la vasca di litio spodesterà il turchese come pietra del deserto, diventando così il nostro nuovo «foro aperto verso il cielo». Viene da chiedersi se il senso di appartenenza, che ci lega a un Luogo attraverso la nostra percezione, sarà infine sostituito totalmente dalla mera volontà di possessione di quello stesso Luogo da parte dell’essere umano. Viene da chiedersi se riusciremo ad agire nei confronti dei territori devastati dall’attività antropogenica, che stanno sempre più plasmando culture, persone, individualità, esistenze, o se saremo infine vittime della nostra stessa avidità, perdendo così ogni tipo di connessione sensoriale con noi stessi e col pianeta che abitiamo. Forse, come dice Ellen Meloy, «per conoscere meglio un posto che ci è familiare, prima dovremmo estraniarcene»; forse, per capire meglio cosa stiamo perdendo, è necessario fare un passo indietro, prendere un bel respiro, e godersi la placidità del cielo turchese, la calma dello smeraldo ingiallito degli alberi, il sapore terrigno delle prime foglie cadute.

 

 


Commenta