La banalità dell’hashtag

La superficialità e la semplificazione delle battaglie etiche nei casi di Indro Montanelli e Silvia Romano

Quando un imperatore romano veniva condannato alla damnatio memoriae, il suo nome e il suo volto sparivano con sistematica maniacalità in ogni angolo dell’impero. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il monumento rimaneva: il vero sfregio era infatti rappresentato da quelle scalpellate che dovevano ricordare a tutti chi non doveva essere ricordato. Di qui il paradosso: la «condanna della memoria» diventava in realtà una «memoria della condanna».
L’Italia repubblicana ha scelto una strada simile: i fasci littori sono spariti da tutti i monumenti, il nome di Mussolini è stato abraso quasi ovunque (è però rimasto sull’obelisco del Foro Italico a Roma, accompagnato da un eloquente «DVX»), ma gli edifici sono sopravvissuti. E per fortuna, visto che l’architettura fascista ha sfornato capolavori supremi: bastino i nomi di Enrico Del Debbio, Marcello Piacentini e Giuseppe Terragni per capire di quale livello stiamo parlando. Lo aveva capito perfettamente Pier Paolo Pasolini (che certo fascista non era) quando filmava gli edifici di Sabaudia nel magnifico documentario La forma della città:
 

Quanto abbiamo riso noi intellettuali sull’architettura del regime, sulle città come Sabaudia. Eppure adesso osservando questa città proviamo una sensazione assolutamente inaspettata: la sua architettura non ha niente di irreale e di ridicolo. Il passare degli anni ha fatto sì che questa architettura di carattere littorio assumesse un carattere […] tra metafisico e realistico. Metafisico in un senso veramente europeo della parola, cioè ricorda [...] certa pittura metafisica di De Chirico; e realistico perché, anche viste da lontano, si sente che le città sono fatte, come si dice un po’ retoricamente, ‘a misura d’uomo’. […] Come ci spieghiamo un fatto simile, che ha del miracoloso? […] Io penso questo: che il regime fascista non è stato altro, in conclusione, che un gruppo di criminali al potere. E questo gruppo di criminali al potere non ha potuto in realtà fare niente, non è riuscito a incidere e nemmeno a scalfire lontanamente la realtà dell’Italia. Sicché Sabaudia, benché ordinata dal regime secondo certi criteri di carattere razionalistico, estetizzante e accademico, non trova le sue radici nel regime che l’ha ordinata, ma trova le sue radici in quella realtà che il fascismo ha dominato tirannicamente, ma che non è riuscito a scalfire. È la realtà dell’Italia provinciale, rustica, paleoindustriale che ha prodotto Sabaudia, non il fascismo.


Le parole di Pasolini, al solito, sono come le poesie di Leopardi: definitive. E tuttavia, nei giorni in cui le manifestazioni targate Black Lives Matter infiammano gli USA e prendono a picconate i monumenti ai generali sudisti (quelli che, per intenderci, combatterono la Guerra civile sul fronte schiavista), il dibattito su questi temi si è riacceso anche in Italia. Nulla di nuovo, a dire il vero, se già nel 2017 la storica Ruth Ben-Ghiat scriveva (dalle colonne del New Yorker e, in italiano, su Internazionale):
 

Perché, mentre gli Stati Uniti hanno avviato un controverso processo di smantellamento dei monumenti del loro passato confederale, e la Francia si è liberata delle strade che portavano il nome del maresciallo collaborazionista Pétain, l’Italia ha lasciato i suoi monumenti fascisti lì dove sono senza discuterne?


Che questi accostamenti siano fatti da una storica è oltremodo imbarazzante. Non esiste, nell’Italia repubblicana, nessuna ‘piazza Mussolini’, sicché il parallelo con il maresciallo Pétain non ha alcun senso; ci sono invece ‘via Stalingrado’, ‘via Che Guevara’, ‘via maresciallo Tito’, ‘via Rivoluzione d’Ottobre’ e ‘Piazza Lenin’ con tanto di busto a Cavriago (Reggio Emilia). Elementi di una ingenua antropologia politico-culturale che vedeva nel socialismo reale ‘il paradiso dei lavoratori’, ma allo stesso tempo echi di un’Italia che sotto le bandiere rosse ha comunque contribuito allo sviluppo democratico del Paese (anche perché, fortunatamente, nessun comunismo vi è mai stato instaurato).

Ancora più sconcertante, però, è il parallelo con le statue dei generali confederati negli USA, dal momento che queste ultime furono innalzate dopo la guerra civile, come attacco diretto alla politica ‘ufficiale’ di un Paese che stava cercando di imporre, su tutto il territorio dell’Unione, la fine della schiavitù dei neri. E del resto Abraham Lincoln (repubblicano) fu assassinato, Nathan Bedford Forrest (democratico) contribuì a fondare il Ku Klux Klan e gli Stati del Sud continuarono a praticare politiche razziste fino agli anni di Rosa Parks e Martin Luther King: i monumenti ai generali confederati rientrano in questo contesto e dunque il paragone con l’Italia repubblicana, che ha ereditato e trasformato dall’interno i simboli del regime, è del tutto fuori luogo, tanto più che non esiste nessun monumento al fascismo innalzato dopo il Ventennio. Il caso di Predappio è l’eccezione che conferma la regola: la cripta di Benito Mussolini nel cimitero monumentale, inaugurata nel 1957, fu voluta da due antifascisti di ferro come Adone Zoli (partigiano cattolico, poi ministro e infine presidente del consiglio nelle file della DC) e soprattutto Pietro Nenni (che non ha bisogno di presentazioni), interessato a traslare le ossa di quello che in gioventù era stato suo amico, prima che Mussolini diventasse Mussolini. Motivazioni di pietas che superavano qualunque ostacolo politico e che oggi, naturalmente, non capiamo più, schifati dalla fiumana nera che continua ad andare in pellegrinaggio nei luoghi del duce e a tornare a casa con quegli orribili gadget, la cui vendita – è bene sottolinearlo – fu avallata nella metà degli anni Novanta da una giunta di sinistra (sinistra che ha sempre amministrato Predappio dal dopoguerra fino a pochi anni fa), con la ridicola motivazione di legalizzare e quindi controllare un traffico di oggetti fino a quel momento sotterraneo.

I riferimenti all’Italia indicati da Ruth Ben-Ghiat, dunque, vanno rigettati in toto; semmai occorre domandarsi se sia giusto o meno imbrattare, distruggere e rimuovere le statue dei generali confederati negli USA. La domanda non è affatto oziosa, perché c’è addirittura chi ha paragonato questi abbattimenti alla distruzione dei Buddha di Bamyan ad opera dei Talebani (correva l’anno 2001): al di della totale mancanza di senso delle proporzioni (e forse pure del ridicolo), queste analogie difettano di analisi storica (che invece abbonda nell’ottimo articolo di Beatrice Falcucci Anche le statue muoiono, pubblicato su queste pagine e al quale rimando per un inquadramento generale sul tema). Il talebano che abbatte il Buddha per imporre il proprio credo liberticida è un fanatico, esattamente come il cristiano che all’inizio del V secolo incendia il Serapeo di Alessandria; al contrario, il manifestante indignato che prende a picconate un monumento che rappresenta volutamente la schiavitù dei neri potrà essere lontano dalla nostra pettinata sensibilità, ma non ha affatto torto. Si chiama ‘relativismo’ e non è una brutta parola: è la capacità di contestualizzare gli eventi per interpretare la realtà senza preconcetti.
 

Il manifestante indignato che prende a picconate un monumento che rappresenta volutamente la schiavitù dei neri potrà essere lontano dalla nostra pettinata sensibilità, ma non ha affatto torto


Lo stesso relativismo che mi fa bollare come idiota la proposta di rimuovere la statua di Cristoforo Colombo a Philadelphia, vergognoso l’assalto al monumento in memoria di Winston Churchill a Londra e aberrante il tentativo di eliminare la statua di Gandhi a Leicester: tre personaggi che non possono essere appiattiti nell’unica categoria del razzismo (ed è sconfortante doverlo ribadire), a differenza dei generali confederati USA che tale razzismo orgogliosamente incarnavano. Nel loro caso – e solo nel loro – adotterei la romanissima «condanna della memoria» per giungere alla «memoria della condanna», cancellando i nomi e scalpellando i volti, ma lasciando intatto il ‘corpo’ del monumento. Lo sfregio di una statua senza volto e senza nome ha infatti un doppio valore educativo: da una parte ricorda a tutti che una fetta dell’America ha continuato (e continua) a essere razzista, dall’altra afferma il primato della democrazia sulle forze oscurantiste che vorrebbero riportare il paese all’Ottocento.

Fra le molte e sacrosante proteste che anche in Italia hanno fatto seguito alla morte di George Floyd, ha fatto parlare di sé soprattutto il tragicomico raid contro la statua di Indro Montanelli a Milano. La vicenda è nota: Montanelli, in gioventù, fu fascista e durante la Guerra d’Abissinia acquistò una ragazzina (ancora non è chiaro se dodicenne o quattordicenne) per averla come «moglie», disse lui, o come «schiava sessuale», dice parte del femminismo contemporaneo. La storia fu raccontata dallo stesso giornalista in una tramissione RAI del 1969, mentre dall’altro lato dello studio una decisa e autorevole Elvira Banotti, storica attivista per i diritti delle donne e nata peraltro nell’Eritrea colonia italiana, rinfacciava a Montanelli la sua cultura maschilista e reazionaria. Impossibile non dare ragione alla Banotti, ma un evento riprovevole nella vita di un uomo è sufficiente per giudicare una vita e una intera carriera giornalistica? Proviamo ad applicare il medesimo criterio alla stessa Banotti. L’attivista – in tempi molto più recenti – ha attaccato l’ex ministra Kyenge «e i suoi alleati maschi» sul tema della ius soli (respinto dalla Banotti in nome della «estetica dello ius sanguinis») e ha scritto parole inequivocabili sull’omosessualità, per giunta in difesa di Berlusconi sulla vicenda Ruby:
 

È il clima sbrindellato delle ideologie che consente a Gay e Lesbiche di investirci tutti con l’accusa di “omofobia” mentre sono attentissimi a oscurare le proprie pregiudizievoli cicatrici emotive con le quali aggiornano il sedimentato, morboso allontanamento tra uomini e donne: cioè l’erotismo e la preziosità dell’Accoppiamento. Sono depositaria di alcune loro narrazioni (autentiche). Raccontano sofferenze causate da un immaginario atrofizzato, evidenziano “scissioni” emotive derivate da rapporti alterati dalla misoginia, disastri che Gay e Lesbiche (più corretto definirli Ginofobi e Omofobe) riescono abilmente a oscurare. Traumi che per la loro intensità dovrebbero al contrario preoccuparci notevolmente! Più di quanto lo richiedano gli atteggiamenti deludenti di un uomo (forse) eccessivamente… espansivo. (Il Foglio, 28 maggio 2013)


Quindi, ricapitolando: Montanelli che nell’Abissinia del 1936 acquista una minorenne è un razzista stupratore; Berlusconi che nell’Italia del 2010 paga una minorenne marocchina e la fa passare, complice il voto di tre quarti del Parlamento, come «nipote di Mubarak» è «un uomo (forse) eccessivamente… espansivo».

Ma allora cosa facciamo? Cancelliamo la memoria di una donna straordinaria come Elvira Banotti? Bruciamo le copie del Foglio su cui scriveva in tarda età? Oppure cerchiamo di essere razionali, una volta per tutte, e valutiamo le persone sulla base di ciò che hanno detto e fatto nell’arco di tutta la loro vita? Perché nessuno ricorda che il Montanelli fascista del 1936 è lo stesso Montanelli che, divenuto antifascista proprio quando il regime era all’apice della sua popolarità, venne incarcerato dai tedeschi nel 1944 (dopo aver aderito al gruppo clandestino Giustizia e Libertà)? Combattere il nazifascismo da giornalista libero non è abbastanza per redimersi?

In un mondo divorato dalla comunicazione veloce rischiamo di perdere tutta la complessità che argomenti del genere sollevano (e richiedono). È successo lo stesso per il rientro in Italia di Silvia Romano, quando il putiferio mediatico ha schiacciato la profondità dell’evento, limitandolo a due sole posizioni che escludevano infinite sfumature. Personalmente, credo che l’emancipazione della donna non passi né attraverso la ‘gioia del velo’ né attraverso il mercimonio della pubblicità occidentale, dove il corpo femminile è quasi sempre trattato come soprammobile sessuale, ma chi usa questo argomento per difendere sempre e comunque il mondo musulmano dimentica che un male più un altro male fanno due mali, non zero mali. Così, quando ho visto Silvia Romano scendere dall’areo avvolta dallo jilbāb, devo ammettere che ho provato grande disagio. Da anni mi sento sempre più straniero nella religione in cui sono nato, con la sua dottrina sociale rimasta ferma su posizioni imbarazzanti; figuriamoci come posso sentirmi di fronte a un credo che non mi appartiene e che, al giorno d’oggi, è oggettivamente più arretrato nelle questioni legate ai diritti civili.

Dunque no, non sono felice che Silvia Romano si sia convertita alla fede musulmana, per il semplice fatto che due anni di sequestro nelle mani dei terroristi mi paiono sufficienti per dubitare che tale conversione sia stata realmente volontaria: ma se questo è vero, se Silvia è diventata Aisha perché costretta dalle circostanze o dalla famosa sindrome di Stoccolma, a maggior ragione la vergognosa cagnara che si è manifestata contro di lei non è altro che l’ennesima dimostrazione di quanto sia vergognosa una parte cospicua della destra italiana. Perché solo in questo Paese una ragazza sopravvissuta a un rapimento può sentirsi dare della «neo-terrorista» da un parlamentare, transitato da Forza Italia alla Lega passando per l’ormai defunta formazione politica di Alfano (la conversione all’Islam, in confronto, è una passeggiata). Silvia Romano è viva, sta bene ed è di nuovo con i suoi cari: questa, da che mondo è mondo, si chiama ‘buona notizia’. Ma oggi i minima moralia della convivenza civile sono minacciati dall’avanzata inesorabile del «cattivismo», nuova frontiera dell’etica contrapposta a un presunto «buonismo», categoria nella quale rientrano tutti quei valori che fino a dieci minuti fa ritenevamo ovvi, prima ancora che sacri: il soccorso dei naufraghi in mare, la solidarietà nei confronti di chi soffre, la cura dei malati senza distinzione alcuna, l’inestimabilità della vita umana. E tuttavia
 

fra l’abiezione di chi pensa che salvare vite umane valga la pena solo se sono bianche e cristiane e l’afasia di chi non ha nient’altro da dire se non il vuoto “rispettiamo le sue scelte”, c’è l’immensa distesa del pensiero critico, nella quale non solo deve essere consentito, ma è anche necessario porsi domande, dubbi, mettere in discussione, analizzare. La vicenda della conversione di Silvia Romano è un prisma dalle molte facce […] Non mi stancherò mai di ripetere che esistono tanti islam quanti musulmani, esattamente come esistono tanti modi di essere cristiani quanti sono i cristiani. C’è un islam con il velo e uno senza, uno con il bikini e uno con il burkini, uno con la barba e uno senza. C’è un modo di essere musulmani che gli islamisti odiano – non a caso le prime vittime dell’islam politico sono proprio quei musulmani che ai loro occhi non sono autentici musulmani – e uno che invece porta acqua, in maniera anche del tutto inconsapevole, al suo mulino […] Quello che Silvia indossa non è – come si tenta di dire, minimizzandone il portato – un semplice abito tradizionale somalo, ma una delle tante versioni dell’abbigliamento femminile islamista. E la potenza simbolica delle immagini di Silvia Romano che – pur essendo ormai nelle condizioni di poter scegliere – si mostra avvolta in uno jilbab verde rimarrà inalterata a prescindere da cosa lei farà nel prossimo futuro. Una potenza che si alimenta anche dell’atteggiamento di chi – per paura di essere accusato di razzismo e islamofobia – decide di non vederla. (Micromega, 12 maggio 2020).


Sono le parole di Cinzia Sciuto, come sempre lucidissima nel trattare questi temi: il suo libro Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli, 2018) è uno dei più illuminanti pubblicati in Italia negli ultimi anni. Cito dalla premessa:
 

Soggetto titolare di diritti è solo ed esclusivamente il singolo individuo (portatore delle sue molteplici appartenenze) e non i gruppi. Si tratta di una prospettiva che non nega affatto le identità/appartenenze, ma che capovolge l’ordine di priorità: è l’individuo a essere portatore di identità e appartenenze, non la singola appartenenza a definire l’individuo.


È per questo che dobbiamo rivendicare la complessità degli individui e degli eventi che li coinvolgono, entrare nelle maglie articolate dei temi che affrontiamo e smetterla, una buona volta, con gli hashtag, i cinguettii e le indignazioni un tanto al chilo. Solo in questa prospettiva salveremo le nostre democrazie liberali da razzismi, sovranismi e populismi, ma anche da coloro che pretendono di purificare il mondo nel nome dello Stato Etico.
 

In copertina un hashtag in un container di Amsterdam
Fotografia di Jan Baborák via Unsplash


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