Anche le statue muoiono

Cosa racconta l'abbattimento dei monumenti del passato coloniale, oltre i casi di Churchill e Montanelli?

Nelle ultime settimane le prime pagine dei giornali italiani hanno dedicato ampio rilievo alla vicenda della statua del giornalista Indro Montanelli, posizionata agli omonimi giardini milanesi, imbrattata con vernice rossa il 13 giugno. La statua, eretta nel 2006, era già stata precedentemente oggetto di manifestazioni di protesta nel febbraio 2012, nell’aprile 2018 e nel marzo 2019, legate soprattutto al rapporto di madamato che il giornalista intrattenne durante il periodo in Etiopia con una bambina di 12 anni. Il 18 giugno anche il busto del Generale Antonio Baldissera, Governatore della Colonia Eritrea a fine Ottocento, posto al Pincio di Roma, è stato imbrattato di vernice. La stessa notte la via romana dedicata all’Amba Aradam, così chiamata a ricordare l’altopiano teatro di uno scontro nel 1936 tra truppe italiane ed etiopi durante l’invasione dell’Etiopia in cui furono impiegati gas tossici contro i civili, è stata rinominata intitolandola a George Floyd e al migrante Bilal Ben Messaud, morto a Porto Empedocle il 20 maggio 2020. Già a marzo 2020 il fenomeno della guerriglia odonomastica aveva interessato la stampa nazionale quando una via di Palermo, ancora intitolata a Montanelli, era stata trasformata in via Destà, dal nome della bambina etiope che il giornalista italiano acquistò.
 

Il confronto pubblico sui temi coloniali in Italia pare essersi fin da subito arenato, ancora una volta, su questioni come la bontà o meno di azioni dimostrative che coinvolgano la vernice e i pennarelli


Se un confronto pubblico sui temi coloniali e post-coloniali in Italia è senz’altro necessario, questo pare essersi fin da subito arenato, ancora una volta, su questioni come la bontà o meno di azioni dimostrative che coinvolgono la vernice e i pennarelli. Invece, il dibattito relativo all’utilizzo dello spazio pubblico, alle eredità coloniali (materiali e non) nel mondo occidentale, alle azioni da intraprendere al fine di creare spazi che siano davvero inclusivi, e alle richieste delle diaspore, è assai più complesso.
Nella notte tra il 24 e 25 giugno 2010 a Gori, città natale di Iosif Stalin, in Georgia, venne rimossa in gran segreto la statua dell’ex Segretario generale del PCUS, lì posta nel 1952, un anno prima della sua morte. La mattina dopo gli abitanti della città trovarono nella piazza principale solo un grande piedistallo alto nove metri, vuoto. Sostiene lo storico dell’arte americano W. J. T. Mitchell nel suo Scienza delle immagini. Iconologia, cultura visuale ed estetica dei media: «sui siti della rivoluzione restano solo monumenti e spazi vuoti», o a volte, aggiungo io, solo gli spazi lasciati vuoti proprio dai monumenti stessi.

Negli ultimi decenni anni abbiamo visto un gran numero di statue cadere, spesso associate alle disgrazie di dittatori e despoti (“ex” eroi, “ex” padri della patria), a cambi di regime, e recentemente alle primavere che hanno scosso il mondo arabo: pensiamo alla distruzione di monumenti dedicati a Gheddafi, Assad, Mubarak ma prima ancora alle familiarissime immagini legate alla statua di Saddam Hussein abbattuta a Firdos Square nel 2003, atto che simbolicamente poneva fine alla Battaglia di Baghdad.
Niente di nuovo, ci ricorda Peter Burke in Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, del 2001: «in una incompleta versione dell’iconoclastia, le statue sono state rimosse dalle piazze pubbliche e esibite in un museo o un giardino dedicato. Ciò accadde alle immagini degli eroi comunisti a Budapest dopo il cambio di regime nel 1989 (lo statue park di Budapest venne aperto nel 1993) e ciò che accadde alle state della Regina Vittoria dopo l’indipendenza dell’India nel 1947».
Esempi estremamente vari, per vicende, luoghi e modalità, considerando solamente gli ultimi settant’anni di storia. Una storia che sembra inesorabilmente ripetersi quando, ancora nell’estate 2019, alcuni manifestanti antirussi abbattevano una statua dedicata al Generale dell'Armata Rossa Zhukov, tra i liberatori di Berlino durante la seconda guerra mondiale, a Kharkiv, in Ucraina. A questi eventi, che essi coinvolgessero l’est Europa, i paesi arabi o le ex colonie, l’Occidente ha sempre guardato da spettatore, empatizzando con i manifestanti o esecrandone le azioni, ma senza interrogarsi più di tanto sulla portata di tali gesti.

Nel marzo 2015 è nato all’interno del campus dell’University of Cape Town il movimento di protesta Rhodes Must Fall. La campagna (che riproponeva istanze avanzate da alcuni studenti Afrikaner già negli anni Cinquanta) era diretta contro la presenza presso l’Università della statua del politico e uomo d’affari britannico, primo ministro della Cape Colony a fine Ottocento, eretta nel 1934. Il movimento, riferendosi alla statua di Rhodes come simbolo del razzismo istituzionalizzato e della mancata decolonizzazione dell’educazione in Sud Africa, ebbe risonanza globale ispirando in breve azioni simili nelle università di tutto il paese – ad esempio alla Rhodes University, dove le proteste si concentrarono sul nome stesso dell’istituzione – e nel mondo – come ad Oxford, dove si chiese ancora una volta la rimozione di una statua del colonialista e una maggiore attenzione nei curricula scolastici per le tematiche coloniali. Le proteste legate ai monumenti a Rhodes innescarono una serie di azioni contro altri simboli del colonialismo e dell’apartheid in Sudafrica, portando alle richieste di rimozione di una lunga serie di statue tra cui quelle di Re Giorgio I, di Paul Kruger, da molti identificato come la personificazione della causa boera, e vari memoriali dedicati a soldati inglesi caduti.
 

Il movimento per la rimozione di monumenti e memoriali dedicati ai confederati ha ripreso vigore nell’agosto 2017 dopo i rally neo-nazisti di Charlottesville, e infine nel maggio 2020 con l’uccisione di George Floyd ad opera della polizia di Minneapolis


Nel giugno 2015 a seguito della strage di Charleston in South Carolina, attacco terroristico ad opera del giovane suprematista bianco Dylann Roof durante il quale persero la vita nove afroamericani, molte municipalità statunitensi hanno cominciato a rimuovere dal suolo pubblico statue e monumenti dedicati ai confederati americani, dopo che Roof nel suo manifesto web aveva richiamato con precisione le idee razziste della Confederazione, usandone la bandiera. Il movimento per la rimozione di monumenti e memoriali dedicati ai confederati ha ripreso vigore nell’agosto 2017 dopo i rally neo-nazisti di Charlottesville, e infine nel maggio 2020 con l’uccisione di George Floyd ad opera della polizia di Minneapolis. Anche in quest’ultima occasione l’attenzione è stata rivolta soprattutto alle numerose statue del Generale Robert Lee e a monumenti dedicati a noti secessionisti, schiavisti e razzisti (come l’ex poliziotto e sindaco di Philadelphia Frank Rizzo), ma anche a numerose statue di Cristoforo Colombo, identificato come l’iniziatore della colonizzazione europea delle Americhe.

Secondo il Southern Poverty Law Center, 114 monumenti dedicati a confederati sono stati rimossi dal 2015 al 2018; in Georgia e in North Carolina negli ultimi anni sono state distrutte almeno tre statue, che gli amministratori locali si erano precedentemente rifiutati di rimuovere. Se le statue di Cristoforo Colombo sono state (un po’ incautamente) installate ed esposte nelle città e nelle università americane durante tutto il secolo scorso sino a pochi anni fa, le statue dedicate ai confederati sono state create e posizionate per commemorarne le “gesta” quasi esclusivamente durante le cosiddette Jim Crow Laws (le leggi di segregazione razziale negli stati del Sud, in vigore sino al 1965), con un notevole picco proprio durante gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, quando la lotta per i diritti civili degli afroamericani si faceva più intensa.
Durante le proteste scatenate dall’omicidio Floyd e dagli eventi ad esso successivi, un gran numero di statue, alcune già da anni al centro di controversie, sono state distrutte (come in Alabama) o rimosse ufficialmente. Un’iniziativa che gli attivisti di Black Lives Matter hanno esportato in Europa ma anche in Nuova Zelanda, dove il 12 giugno su richiesta di alcuni manifestanti è stata rimossa la statua di John Fane Charles Hamilton, ufficiale della Marina inglese, installata nel 2013 nella città di Hamilton, a lui intitolata al termine della invasione del Waikato (la più importante campagna coloniale inglese del diciannovesimo secolo contro le tribù maori nella North Island della Nuova Zelanda).

Il 7 giugno la statua del commerciante di schiavi e filantropo Edward Colston, eretta nel 1895 e già da anni al centro di accese discussioni, è stata rimossa da alcuni attivisti e gettata nelle acque del porto di Bristol; l’evento ha dato il via ad una serie di interventi in Gran Bretagna, come la rimozione da parte delle autorità locali. Due giorni dopo i fatti di Bristol, alcuni monumenti dedicati ai commercianti di schiavi John Cass e Robert Milligan sono stati rimossi dalle autorità a Londra. La statua di Milligan in particolare ha una storia interessante: installata ai West India Docks di Londra nel 1813 venne rimossa e messa in deposito nel 1943, per poi essere di nuovo eretta nel 1997, celebrando Milligan come una figura iconica e “geniale” di commerciante britannico e come colui che aveva incentivato la costruzione dei Docks, in un momento in cui l’amministrazione cittadina cercava di rivitalizzare l’area depressa di Docklands.
In Belgio le proteste hanno colpito soprattutto i monumenti dedicati a Leopoldo II, sovrano dello Stato Libero del Congo dal 1885 al 1908, periodo durante il quale circa dieci milioni di congolesi morirono a causa dello spietato colonialismo predatorio promosso dal Re, disseminati in tutto il paese (a Ghent, Anversa, Halle e Ekeren, dove la statua dedicata al sovrano è stata abbattuta). A Bruxelles alcuni manifestanti con una bandiera del Congo si sono arrampicati su un monumento equestre dedicato al Re, urlando “reparations”. Altrove la parola è stata scritta sul piedistallo di alcune statue.

Il 10 giugno è accaduto un fatto interessante. Un monumento che raffigura Leopoldo II, posto nel parco di Tervuren dove si trova l’Africa Museum (ex Congo Museum), è stato danneggiato e il busto del Re cosparso di vernice rossa. Tuttavia, la statua non è un’espressione artistica modernista, come si potrebbe credere per altro ad un primo sguardo, bensì un’opera di critica al colonialismo belga commissionata nel 1997, per i cento anni dall’Esposizione di Tervuren del 1897 da cui nacque successivamente il Museo. Nel 1897 il parco di Tervuren si riempì di oggetti, piante e animali esotici, oltre che di un villaggio di 267 congolesi, “figuranti” nello zoo umano organizzato da Leopoldo II per pubblicizzare il suo Congo. Di questi, 8 morirono in Belgio. Cento anni dopo, il Museo, che aveva nel frattempo avviato una riflessione sulle proprie origini, aveva commissionato un monumento a Tom Frantzen che elaborò un’opera dal titolo The Congo, I presume? alludendo alla celebre frase di Stanley al momento dell’incontro con Livingstone. Frantzen ha dichiarato che il monumento è l’unico insieme di statue anticolonialista di tutto il Belgio.
 

Il 10 giugno 2020 un monumento che raffigura Leopoldo II è stato danneggiato e il busto del Re cosparso di vernice rossa, ma la statua non è un’espressione artistica modernista, bensì un’opera critica del colonialismo belga


L’Africa Museum, che ha riaperto a fine 2018 dopo cinque anni di chiusura e oltre 70 milioni di euro di spese per il rinnovo, ha puntato molto sull’utilizzo dell’arte contemporanea come mezzo per offrire una visione post-coloniale del Museo, coinvolgendovi artisti africani come Chéri Samba e Freddy Tshimba. A tali artisti è stato, di fatto, lasciato quasi interamente il compito e il peso di contrastare con le loro opere inserite nel percorso museale la storia, l’architettura e i contenuti di un’istituzione intrinsecamente coloniale e razzista.
Anche a seguito di quanto accaduto nel parco di Tervuren, sorge spontaneo chiedersi se l’arte contemporanea, con la quale i musei etnografici e coloniali di tutta Europa si sono affrettati a riempire i loro spazi, finanziando residenze, workshop ed eventi e coinvolgendo artisti africani e della diaspora, sia davvero così eloquente come molti hanno voluto credere, e non sia invece l’ennesimo tentativo (performativo) di dimostrare la bontà di intenti di tali istituzioni europee. Ancora una volta quello che manca davvero, in Belgio, come in Gran Bretagna e in Italia, al netto di statue ed installazioni artistiche, è in realtà un confronto approfondito e articolato sui temi coloniali e post-coloniali. Non solo per la nostra evidente incapacità di capire cosa veramente significhino i monumenti, le circostanze e il come, quando e perché essi siano stati commissionati ed eretti, ma anche l’incapacità di rivendicare la complessità di vicende (il monumento del 1997 a Tervuren è anticolonialista solo a parole? Può una istituzione fare mai davvero analisi storica critica e ricerca su se stessa? Se il monumento non viene identificato come anticolonialista dall’opinione pubblica allora non lo è? Quanti attivisti ci vogliono per “fare” l’opinione pubblica?) e la complessità dei personaggi storici.

Considerazioni che non fanno che rafforzarsi alla luce di quanto accaduto alla statua di Winston Churchill a Parliament Square a Londra (sulla quale, sotto il nome, è stato aggiunto con una bomboletta spray “was a racist”), e delle critiche che persino una figura come Ghandi (e i suoi pregiudizi contro i neri) hanno attirato recentemente. Churchill was a racist (among many other things), e lo testimoniano le sue politiche e le sue parole durante la carestia in Bengala, le sue convinzioni eugenetiche, l’indifferenza che coltivava verso i popoli colonizzati e sottomessi – ben nota la sua proposta di utilizzare i gas per sedare le rivolte in Iraq negli anni Venti.
Non si tratta di promuovere pratiche di relativismo storico, ma di rivendicare la complessità di imperialismo, razzismo e colonialismo come unica modalità per acquisire una reale conoscenza di questi fenomeni e di conseguenza gli strumenti necessari a contrastarli, anche negli spazi pubblici. Probabilmente parte dell’indignazione odierna nasce da un’incomprensione di fondo, ovvero la convinzione che le statue siano erette solo ad individui dalla indubbia moralità. Dovremmo invece chiederci: chi l’ha eseguita? chi l’ha finanziata? quando è stata posta dove adesso si trova? perché? Dopotutto, la vicenda di Colombo è esemplare: l’equivoco si gioca tutto sul ruolo storico effettivo che egli ebbe e la lettura che invece ne venne e ne viene data.
Che la questione, pur legata a personaggi vissuti nel Cinquecento, sia assai spinosa ancora oggi, è indicato dalle violente proteste che hanno scosso Santiago del Cile legate alla figura del conquistador spagnolo Pedro de Valdivia, fondatore della città cilena. Nell’ottobre 2019, nel contesto delle proteste che per mesi hanno attraversato il paese, la statua del conquistatore spagnolo presente nella capitale cilena è stata decapitata e la testa messa nelle mani di una statua dedicata a Caupolicán, leader mapuche coevo di de Valdivia.

Tutte vicende che dimostrano, se ce ne fosse bisogno ancora una volta, quanto il dibattito sul patrimonio culturale e sui monumenti sia piuttosto una rinegoziazione di identità ed eredità mai pienamente metabolizzate e discusse. Esattamente come accaduto in Georgia, quando la statua di Stalin è stata portata via nel cuore della notte, sperando di evitare il dibattito che inevitabilmente si sarebbe scatenato alla sua rimozione.
Tanto più se pensiamo che (come ovvio) le statue dedicate a personaggi politici “controversi” non vengono solamente rimosse o distrutte, ma anche edificate: nel febbraio 2020 a Maroun El Ras nel sud del Libano, vicino alla frontiera con Israele, è stata eretta una statua dedicata al Generale Qasem Soleimani, ucciso il mese precedente a Baghdad in un attacco statunitense, ritratto proprio mentre indica la frontiera. Del resto, la convinzione stessa che i monumenti (e i musei) siano siti immobili, immutabili e neutrali, vettori di verità assoluta, e non espressioni sociali e politiche, è anch’essa una convinzione che ha radici storiche precise.

Il 12 giugno 2020 l'attivista congolese Mwazulu Diyabanza ha prelevato una stele funeraria dall'allestimento del Musée du Quai Branly di Parigi, cercando di recarsi verso l'uscita, dichiarandosi intenzionato a “recuperare quello che ci appartiene”. Si tratta dell’ennesima rivendicazione, forse la più spettacolare ad oggi, legata all’intenso dibattito sui musei europei (e sul modello espositivo occidentale in generale) e la loro pesante, ambigua e controversa eredità coloniale; una discussione che pur andando avanti da decenni – ad esempio con la museologia di collaborazione e la restituzione dei resti umani – si è intensificata negli ultimi anni.
Nel novembre 2017, in occasione di un discorso presso l’Università di Ouagadougou in Burkina Faso, il presidente Macron ha dichiarato di voler invertire il comportamento sino ad allora tenuto dalle istituzioni culturali francesi, procedendo, nell’arco di cinque anni, alla restituzione temporanea o definitiva del patrimonio culturale africano conservato in Francia. Soltanto l’anno precedente la Francia aveva negato al Benin la restituzione di alcune statue e preziosi trafugati nel 1892 dal colonnello Dodds durante le guerre franco-dahomeane (incluso il trono dorato di Re Béhanzin) e donate al museo di Trocadéro (dalle cui collezioni etnografiche, nel 1995 nasce il Musée du Quay Branly per volere del Presidente Chirac).
Commissionato da Macron, il report Savoy-Sarr del 2018 ha approfondito le possibilità etiche e culturali relative alla circolazione e restituzione di materiali e opere d’arte africane presenti nei musei francesi, individuando con precisione alcuni oggetti del Quai Branly dai quali cominciare l’operazione, ma indicando anche altri musei come detentori di patrimonio culturale ed artistico legato a saccheggi e violenze ai danni delle cosiddette “source nations”. Tra questi il British Museum, l’Africa Museum di Tervuren, il Weltenmuseum di Vienna. Da quando il report Savoy-Sarr è stato reso pubblico sino ad oggi solo un oggetto del Quai Branly, proveniente dall’odierno Mali, è stato restituito.

Da quando il report Savoy-Sarr è stato reso pubblico sino ad oggi solo un oggetto del Quai Branly, proveniente dall’odierno Mali, è stato restituito


Musei e istituzioni culturali, prendendo il caso britannico come esempio emblematico, hanno risposto in modi diversi: alle restituzioni operate da alcune istituzioni – il Jesus College di Cambridge, l’Edinburgh University, il Manchester Museum – si sono opposte levate di scudi da parte di altre – il British Museum – e posizioni intermedie – «decolonizzare è decontestualizzare», sostiene Tristram Hunt, direttore del Victoria & Albert Museum. Nei casi in cui si sia deciso di procedere ad indagini preliminari alle restituzioni, si è cercato di risalire alla provenienza degli oggetti incriminati attraverso un lavoro d’archivio, tentando di ricostruire la storia e le circostanze in cui sono giunti nei musei britannici. È impossibile però non notare come nel frattempo, a partire dal 2011, sia venuta alla luce l’esistenza di archivi segreti del Foreign Office (soprattutto legati alle vicende coloniali britanniche in Africa) nascosti ai ricercatori per oltre trent’anni e già parzialmente distrutti.
In questo contesto si rivela più interessante che mai il progetto di “reparative history”, promosso tra gli altri dalla ricercatrice Catherine Hall, che ha avuto inizio nel 2009, dal titolo Legacies of British Slave-Ownership (e l’omonimo libro). Il progetto indaga e mappa gli edifici pubblici e privati, le statue e i monumenti, e in generale tutti i frutti, economici e politici, del commercio di schiavi e delle compensazioni che i proprietari e trafficanti di schiavi britannici ricevettero dopo l’abolizione. Il database del progetto LBS ha individuato nel paese 61mila persone, collegate, come proprietari o come soci di imprese che beneficiavano della tratta, al business della schiavitù. Una dichiarazione del LBS Centre del 12 giugno 2020 recita: «questi individui non dovrebbero essere ricordati come singoli ma come parte di una struttura – dal punto di vista delle varie forme di accumulazione della loro ricchezza, ma anche nell’ottica di razzializzazione delle relazioni sociali e politiche che hanno avuto, e continuano ad avere, profonde conseguenze per noi oggi». Ricordiamocelo quando guardiamo le statue cadere.



 

In copertina: La statua di Colombo abbattuta al Minnesota State Capitol, Tony Webster

Anche le statue muoiono 
è un documentario di Alain Resnais e Chris Marker del 1953. «Ci hanno commissionato un film sull’arte nera», disse Resnais. «Chris Marker e io siamo partiti da questo interrogativo: perché l’arte nera ha trovato spazio nel Museo dell’Uomo, mentre l’arte greca o egiziana è al Louvre?». Il documentario è visibile sottotitolato in italiano qui ► Les statues meurent aussi


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