Il suicidio dell'empatia

La morte della 17enne olandese Noa Pothoven tra indifferenza e depressione. L'intervista a Mariagnese Cheli

«Date al dolore la parola, il dolore che non parla, bisbiglia al cuore oppresso e gli ordina di spezzarsi». Così diceva Shakespeare nel Macbeth (Atto IV, Scena III) cantando quel dolore che non ha parola, quel dolore tacito, irriducibilmente muto, incapace di trovare espressione linguistica, ma capace di manifestarsi nell’assurda e orribile morte di una giovane che ha scelto di lasciarsi finire dall’inedia davanti a un orrore insopportabile. Noa Pothoven è morta, e la prima cosa che siamo riusciti a chiederci è se il suo gesto, presunto e poi smentito caso di eutanasia, fosse lecito o meno. Subito siamo corsi istintivamente a banchettare sulla sua storia come dell’ennesimo caso mediatico da fagocitare e diffondere con virulenta indecenza. Cosa ne ricaviamo se non l’ennesima bagarre ideologica tra pro vita e pro “morte felice”? La sua vicenda – quella di una giovane 17enne olandese più volte vittima di violenza che schiacciata dal peso della vita decide di lasciarsi morire – è straziante e come tutti i drammi irriducibilmente unica e personale, ci illumina piuttosto sulla sofferenza silenziosa e solitaria di una giovane vittima di violenza, incapace di ritrovare senso e orientamento all’interno di una vita sconvolta e macchiata da un irrecuperabile senso di vergogna. Ma nella sua solitudine non era veramente sola; né lei né nessuno di noi lo è mai.
 

È necessario interrogarci, a partire dalla vicenda di Noa, su quel senso di comunione che ci manca, di quanto talvolta siamo incapaci di essere veramente per gli altri, di ascoltarli, di accollarci il loro peso


Siamo perennemente circondati da altri, costantemente connessi, eppure mai come oggi soli, incapaci di interagire e di stabilire connessioni. È allora necessario interrogarci, a partire da questa vicenda, su quel senso di comunione che ci manca, di quanto talvolta siamo incapaci di essere veramente per gli altri, di ascoltarli, di accollarci il loro peso; di quanto ancora poco siamo sensibili e informati su tematiche, come la depressione e come gli abusi minorili, che tanto profondamente incidono sulla nostra generazione, ma che continuano a essere viste e vissute con vergogna, veri e propri tabù che segnano e stigmatizzano la vittima e il suo trauma.
Per questi motivi ho voluto evitare di scrivere l’ennesimo articolo d’opinione su un fatto così delicato, e ho scelto di raccontare questa vicenda in dialogo con chi da decenni lavora con problematiche di questo tipo. Mariagnese Cheli, psicologa e psicoterapeuta, fondatrice de Il Faro, centro specialistico multifunzionale contro gli abusi e i maltrattamenti all’infanzia e giudice onorario presso i Tribunale per i Minorenni in Bologna, mi ha gentilmente concesso questa breve intervista a partire dal caso di Noa.

Vorrei iniziare con la domanda più banale, quella che forse tutti vorremmo fare a chi con gli abusi minorili ci lavora ormai da anni: cosa possiamo fare della vicenda di Noa affinché non rimanga un semplice caso di cronaca fra i tanti?
Noa si è lasciata morire. I genitori e i medici, impotenti, non hanno potuto fare altro che accompagnarla in questo viaggio. Noa è morta perché ha smesso di mangiare e di bere. Il dolore che non parla si racconta nel corpo che si arrende. Di fronte a tale vivida disperazione sarebbe necessario il silenzio e il rispetto. Riflettere, innanzitutto, su quel che ci testimonia. Non sopportiamo più il dolore, l’inevitabilità della morte fisica, l’eventualità della morte interiore, ovvero la perdita del senso della vita; soprattutto non tolleriamo più il nostro senso di impotenza. Come se vivere, nell’accezione profonda del termine, inteso come il godere appieno del senso biografico del proprio sé, della propria unicità spirituale, sia un dovere e dipenda solo dalle funzioni biologiche. Perciò penso sia così difficile, in particolare oggi per la dimensione cultuale nella quale ci troviamo, concepire un tipo di sofferenza così intima e impalpabile, ma non per questo meno letale. I genitori di Noa, che penso straziati da un immenso dolore, hanno saputo accogliere il senso più profondo contenuto nell’ultimo messaggio della figlia: «In questo caso amare è lasciare andare. È finita. Non sono stata davvero viva per così tanto tempo. Sopravvivo, e nemmeno quello. Respiro ancora, ma non sono più viva».

E tuttavia un gesto così estremo non può che apparirci inaccettabile, assurdo, perfino insensato oserei dire. Si tratta, forse, di una reazione fisiologica, di quell’irriducibile istinto di sopravvivenza che ci porta a provare orrore e vertigine davanti alla possibilità del suicidio. E al contempo non possiamo fare a meno di giudicare, in un tentativo ultimo di dare senso a qualcosa che ci colpisce in tutta la sua scandalosa incomprensibilità.
Noa si è arresa alla vita, ma non alla morte. Quando i medici incaricati avevano rinviato l’esame del suo caso al compimento dei 21 anni e l’avevano indirizzata verso i servizi sanitari, ha scritto «sono devastata perché non ce la faccio ad aspettare così tanto tempo». Noi dobbiamo accettare il senso di impotenza che questa decisione intima e solitaria induce accogliendolo dentro di noi, trattenendo il bisogno di trovare una spiegazione a tutti i costi, un capro espiatorio, un modo per chiudere ciò che emotivamente è sentito come un peso insostenibile poiché tocca le nostre corde più delicate e profonde.

La frase di Noa è davvero toccante pur nella sua apparente semplicità. Si tratta davvero della vita che finisce laddove si esaurisce il senso del futuro, la capacità di dilatare la nostra esistenza nel tempo, ma viene da chiedersi se qualcosa non poteva essere fatto, oppure se ci troviamo davanti a una zona di non ritorno davanti alla quale non possiamo far altro che abbandonare ogni ricerca di responsabilità e rassegnarci.  
In un certo senso sì, penso ci sia una zona grigia irrecuperabile, un male insormontabile davanti al quale non c’è altra alternativa che la resa disumana di una giovane che si lascia morire di inedia, trasformando però questa drastica scelta in una denuncia che il mondo impatta, impotente e frastornato. Sarebbe tuttavia riduttivo limitare la ricerca di un senso e delle sole responsabilità esterne alla persona. Certo è che sussiste ancora un ritardo, nelle scienze che si occupano di salute mentale, ad adottare una prospettiva di cura orientata al trauma prodotto da violenza interpersonale, come l’abuso sessuale. Si registra un ritardo anche nel considerare l’abuso sessuale un’esperienza traumatica, cioè di rottura dei confini del sé, di impotenza, orrore e vergogna. Ciò nonostante gli abusi rappresentano il maggior fattore di rischio per tutte le patologie psichiche e fisiche.
 

C'è un ritardo, nelle scienze che si occupano di salute mentale, nel considerare l’abuso sessuale un’esperienza traumatica, cioè di rottura dei confini del sé, di impotenza, orrore e vergogna


Secondo alcune delle ricerche più estese e autorevoli il trauma infantile, per esempio, è il fattore di rischio principale per circa un terzo di tutte le patologie psichiche e lo è anche per le più diffuse malattie, per la mortalità, così come per la bassa qualità della vita. Eppure l’attuale consenso degli studiosi e dei clinici sul ruolo centrale del trauma psichico nel generare sofferenza negli esseri umani non deve trarre in inganno: per più di mezzo secolo questo innegabile dato di fatto è stato trascurato, contestato e clamorosamente negato.

Ecco, appunto, ‘negato’. Come potrebbe essere capovolta la situazione in modo da attivare un riconoscimento del trauma, partendo dalla necessità di tornare a dare coerenza a un tessuto lacerato, ad una narrazione infranta che necessita di essere ricomposta? Innanzitutto per il paziente, ma, vorrei anche dire, per la persona, con la dimensione etica e inter-relazionale che penso accompagni, al pari delle cure mediche, la possibilità di una riabilitazione come vera ristrutturazione armonica del proprio sé.
Come psicotraumatologa, con una ormai più che trentennale esperienza nella cura degli abusi sessuali alle spalle, ho pensato a Noa come a una giovane vita stroncata dal fallimento delle difese psichiche. Paradossalmente, sono proprio quelle che mantengono in vita. Gli eventi traumatici, in particolare quelli prodotti da violenza interpersonale, al di là delle loro caratteristiche oggettive, hanno una potente pregnanza soggettiva: la creazione di una narrazione coerente di quello che è successo si trasforma in funzione delle lenti con cui la persona osserva e dà significato alla propria esistenza in relazione al mondo.
 

Molte persone traumatizzate incorporano la vittimizzazione e, di conseguenza, sviluppano un’identità centrata sulla vergogna, sul disgusto di sé e sul senso di colpa. Una ferita profonda alimentata spesso da interventi di cura fallimentari 


Molte persone traumatizzate sono intrappolate in convinzioni negative su di sé “questo è il solo modo in cui sono”; “sono nata così e non potrò mai cambiare”; “sono troppo danneggiata”; “non farò mai nulla di buono”; “non sono in grado di amare e ricevere amore”. Alla stregua del bambino egocentrico, incorporano la vittimizzazione e, di conseguenza, sviluppano un’identità centrata sulla vergogna, sul disgusto di sé e sul senso di colpa. Questa ferita profonda è alimentata, spesso, da interventi di cura fallimentari e da stigmatizzazioni diagnostiche e istituzionali, prodotte da professionisti non adeguatamente formati sulle conseguenze del trauma. Nel trauma, la situazione è percepita come una minaccia per la sicurezza e la sopravvivenza, minaccia che stimola le naturali risposte difensive psicobiologiche e che, nei casi più gravi, produce un senso di annientamento e di perdita della speranza. In molti casi di suicidio, all’origine c’è un’intensa angoscia di natura traumatica che non trova soluzione. Gli studi mostrano che l’esposizione multipla a eventi traumatici provoca intensi vissuti di colpa, vergogna, rabbia e danneggiamenti in molteplici domini del funzionamento personale e interpersonale.

La domanda, allora, mi sorge spontanea: cosa possiamo fare?
Molto si può fare e molto deve essere ancora fatto: sensibilizzazione sulla diffusione della violenza interpersonale, creare centri specializzati sulla violenza interpersonale (bullismo, cyber bullismo, abusi sessuali), formare il personale sanitario sulle conseguenze della violenza interpersonale, creare centri di ascolto, fare prevenzione nelle scuole. In sintesi, veicolare il messaggio che se ne può e se ne deve parlare, che non si è i soli al mondo ad avere avuto questa esperienza e che è possibile rimarginare le proprie ferite.

Cosa può dirci questa vicenda, ma soprattutto insegnare a noi in quanto persone sempre più esposte alla vicinanza a persone con simili problematiche. Persone che, peraltro, tendiamo spesso a vedere come ‘altri’, ma che un giorno potremmo scoprire di essere noi stessi.
Che l’essere umano ha dei limiti, che andare nel senso contrario al nostro naturale istinto di sopravvivenza significa, molto probabilmente, uno stato di totale collasso delle proprie risorse, la perdita del proprio “cuore sacro”, spirituale (non da intendersi in senso religioso, bensì esistenziale). Succede, umanamente, quando si perde il senso della propria innocenza, integrità, interezza e rimane solo una sensazione di sporcizia, di contaminazione perenne, accanto al dubbio che, se è accaduto e più volte, forse è stata colpa tua. Molte volte è mancata una spalla su cui piangere il proprio dolore.

Prima che clinica, questa vicenda può forse aiutarci ad affrontare una riflessione civica, che investa tutti noi come persone e forse ci richiami a un più maturo senso di comunione umana nei confronti di drammi come questo, drammi che all’impatto fisico e psicologico sommano lo stigma sociale, l’indifferenza, l’incapacità di empatizzare se non per il breve lasso di una flash news. Mi pare che tutto ciò non possa che costituire un compito per noi oggi.
Certo. La società oggi è sempre più caratterizzata da una indifferenza emotiva allarmante. Vergogna e senso di colpa, come dicevo, ne sono i risultati. Sentirsi scartati, fuggiti, "appestati", non può che aumentare il dolore che si accompagna a quello inevitabilmente presente in ogni trauma. Come persone e, più in generale, come società civile, non possiamo pensare ai due piani, clinico e interpersonale, come disconnessi. Entrambi sono essenziali, ed esigono una tempestiva capacità di intervento nel loro complesso.


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