Il Baro - III

«Libertas et anima nostra in dubio est»


M TVLLIO CICERONE C ANTONIO HIBRIDA CONSVLIBUS                                                   (63 a.C. 3 Dicembre – dopo l’alba)
III ANTE NONAS DECEMBRES POST LVCEM                                                  
Cicerone aveva le prove. Ma il vero significato dell’evento gli si posò sul collo come una lama fredda. Un brivido gli corse lungo la schiena. Non erano nullatenenti o schiavi quelli che andava a trascinare davanti al Senato, ma nobili e cavalieri. Lentulo era una testa del complotto, ma illustrissimo per gli avi e questore.
Fece uscire Tirone e i corrieri che gli avevano recato l’agognata notizia. Le mani cominciarono a tremargli, la gola gli s’inaridì d’un tratto, le carni andarono in fiamme. Mettere in ceppi i congiurati, o la Città sarebbe bruciata; giustiziarli e l’odio di molti l’avrebbe distrutto. Condannare a morte un cittadino romano senza un processo davanti al popolo era proibito dalla Legge, ma il tempo non c’era. Arresto e morte dei catilinari erano due passi in fila. Se avesse fatto il primo senza il secondo sarebbe rimasto zoppo; viceversa sarebbe inciampato. Farli entrambi senza indugio significava gettarsi in un sicuro precipizio.
Romolo non era morto. Svanendo in una nube di tempesta, era asceso al cielo, accolto nei templi sereni degli dei. Ora quelle quattro capanne che Romolo aveva fondato si erano fatte la capitale dell’universo e Cicerone le avrebbe salvate. Sarebbe stato ben contento di calare agli Inferi, pur di sapere il suo nome legato in eterno a quello di Roma. Mentre Pompeo portava il dominio e i legionari dell’Urbe ai confini del giorno, Cicerone manteneva il supremo luogo cui far capo e ritornare.

 

III ANTE NONAS DECEMBRES HORA TERTIA                                                                                       (63 a.C. 3 Dicembre – ore 8)
I congiurati entrarono in Senato. Davanti a loro Cicerone, che teneva per mano Lentulo, in virtù della sua dignità pretoria; poi Pomptino e Flacco e numerosi armati, infine gli Allobrogi. Calò un silenzio degno dei deserti nordici. I Padri, convocati dal console nel Tempio della Concordia, assistevano a quello spettacolo sovrannaturale da dentro le loro candide toghe. Molti tirarono un sospiro di sollievo. Qualcuno, invece, teneva il fiato sospeso.
«Entri il pretore Sulpicio».
«Ho perquisito la casa di Caio Cetego, come da comando del console. Ho trovato un deposito di armi tanto grande da conquistarci tutte le Gallie». Il console apprezzò l’iperbole e si volse a Cetego. «Sanno bene i Padri che io sono un grande amante delle belle armi, Marco Tullio». Cicerone avvampò per la sfrontatezza di Cetego, qualcuno trattenne un sorriso.
«Entri Tito Volturcio da Crotone». Dal terrore che aveva in volto si capiva che era stato messo in mezzo.
«Parla senza timore, dì ciò che sai. Hai la mia parola di console che rimarrai impunito».
«Da Lentulo, Padri Coscritti, ho ricevuto istruzioni orali e una lettera per Catilina. C’è scritto di aizzare gli schiavi e marciare su Roma;  di giungere nell’Urbe, per completare la rivoluzione, una volta appiccate le fiamme e uccisi voi e il console».
Lo sdegno percorse il Tempio della Concordia dove il Senato era riunito. Si sapeva ciò che Catilina aveva in mente, ma sentirlo dire così vicino, semplice e nudo, da una voce tanto scossa, lo rendeva ancora più vero.
«Entrino i nobili rappresentanti dei Galli Allobrogi»
«Da Cetego, Lentulo e Statilio abbiamo ricevuto giuramenti firmati per noi e per il nostro popolo, impegni solenni a rispettare i patti. Ci hanno richiesto un corpo di cavalleria; la fanteria non sarebbe mancata. Lentulo ci disse che, secondo gli oracoli della Sibilla, egli era il terzo Cornelio destinato al regno su Roma dopo Cinna e Silla, in quest’anno del Fato, dopo vent’anni dall’incendio del Campidoglio. Da loro sapemmo che la strage era forse rimandata ai Saturnali, forse anticipata».
Il Senato si ritrasse inorridito al sentire la parola regno. Nonostante secoli di Repubblica, era ancora vivo l’odio per i tiranni.
«Siano esposte le tavolette». Cicerone ne prese in mano una e la mostrò all’assemblea. La mise sotto gli occhi di Cetego. «Caio Cetego, riconosci come tuo il sigillo che è apposto su questa lettera?»
«Sì, è il mio». Cetego sembrò abbandonare tutta la sua forza temeraria in un solo sospiro. Reciso lo spago, fu letto il testo. Confermava quanto appena testimoniato dagli Allobrogi. Cetego tacque, pallido come un cadavere.
«Entri Lucio Statilio». Riconobbe il sigillo. Riconobbe il testo. Immobile, confessò.
«Entri Publio Cornelio Lentulo Sura». Il pretore degenere riconobbe il sigillo.
«Vergogna, Lentulo. Il tuo avo, che ai tempi del minore dei Gracchi rischiò la vita per la patria, il tuo avo che è effigiato su questo sigillo, avrebbe dovuto trattenerti da un reato tanto grave». Lentulo si mostrava insofferente. Indugiò un momento, poi  decise di parlare, come il console gli aveva concesso. Era sempre un pretore. Tentò di sviare gli Allobrogi dalla loro certezza, ma ora capiva che Cicerone aveva in mano tutto, fin dall’inizio. Messo di fronte all’evidenza, non negò nulla e stupì tutti, confessando senza battere ciglio. Dell’ingegno e della perversione di Lentulo non era rimasta che una tenue ombra. Quando Volturcio chiese a gran voce che si esibisse la lettera che aveva scritto per Catilina, Lentulo non disse una parola: uno sguardo e un cenno bastarono a confermare che anche quello era il suo sigillo.
«Entri dunque Publio Gabinio Capitone». L’arroganza svanì in breve sotto il peso dello sguardo di Roma. Confessò.
Mentre dalle mani dei Padri si levava un lungo e solenne applauso al console che aveva salvato Roma dalla distruzione, un silenzio pesantissimo calò sulle labbra dei congiurati. Un pallore mortale albeggiava sui loro visi rassegnati; in mezzo a quel bianco traluceva dagli occhi una colpevolezza più vera e più profonda di quella ammessa dalle parole. Ubriacato dalle lodi divine che già i senatori gli tributavano in eterna gloria, Cicerone vide una confessione dove invece c’era un credo.

NONIS DECEMBRIS HORA TERTIA                                                                                                            (63 a.C 5 Dicembre, ore 8)
Per Cicerone era stato il trionfo. Dopo la seduta in Senato, il bagno di folla nel Foro. Nessuno era mai asceso a tanta gloria: l’Africano minore aveva schiantato Cartagine e Numanzia, Paolo aveva piegato la Macedonia, Mario sterminato Cimbri e Teutoni alle porte d’Italia, ma mai nessuno aveva salvato Roma, la Repubblica, l’Impero, l’universo intero da un destino tanto furioso e sanguinario qual era quello scritto da Catilina. I sacerdoti avevano officiato una cerimonia di ringraziamento agli dei per Cicerone. Il console aveva pianto calde lacrime di soddisfazione. Finalmente era arrivato.
Ma il giorno dopo era stato catturato un altro catilinario, un certo Lucio Tarquinio. Condotto in Senato, aveva tirato in ballo Crasso. L’opulento Marco Licinio Crasso, sillano della prima ora, avanguardia nobile del ceto equestre, affarista di mano mediterranea, trionfale vincitore di Spartaco. Il Senato andò in subbuglio. Come se non bastasse, Quinto Lutazio Catulo e Cneo Calpurnio Pisone, potenti e autorevoli tra i Padri, tentarono in ogni modo di infangare il nome di Caio Giulio Cesare. Cicerone dovette tutto fermare, mettere a tacere, insabbiare. La pace era troppo vicina per lasciarla sciupare da faccendieri faziosi, quand’anche fossero sinceri. La pace di Roma e la sua gloria.
Ma non c’era tempo da perdere. Così aveva convocato i Padri, perché decidessero subito il destino dei congiurati. Per primo parlò Decimo Giunio Silano, console eletto per l’anno venturo; chiese la pena di morte. Dopo di lui venne il mite Cesare.
«Bando ai sentimenti, Padri Coscritti. Le passioni offuscano la vista. Diradatele e tenete a mente: costoro non sono gente oscura. Come non si parlerà d’ira, ma di crudeltà nel ricordarli, si ricorderà più la punizione di ciò che la motivò. Qualcuno un giorno dirà che la pena è stata troppo severa. Io dico: troppo severa? La morte leva ogni affanno a chi la incontra. Ma angoscia chi la vede agire e la gente dirà: troppo severa. Da buoni propositi nascono cattive decisioni. Atene sorrise al giogo dei Trenta finché non ne fu strangolata. Roma sorrise alla giustizia di Silla finché non ne fu insanguinata. L’occasione, il tempo, la sorte ci governano; verranno cittadini meno saggi di noi, che già siamo meno saggi dei nostri avi, che ci diedero quella legge Porcia che proibisce la condanna a morte senza il consenso del popolo. Verranno, ma noi saremo ancora vivi per morire del loro odio. Ascoltiamo i nostri avi; seguiamo la legge Porcia. Confisca, esilio, custodia, oblio; morte, no».
Un mormorio d’approvazione seguì le parole di Cesare. Ma la sua proposta non poteva passare. Cicerone intervenne. Prigionia e morte erano due passi in fila. Il console preferiva gettarsi nel precipizio dell’eterna memoria che inciampare nell’oblio. Chiese la pena di morte. Gli venne in soccorso il tribuno Marco Porcio Catone, severo quanto il Censore suo avo.
«Padri Coscritti, io so che voi pensate alle vostre ville, alle statue e ai dipinti. Basta! Prendete in mano lo Stato una buona volta. Gli avi erano operosi in patria ed equi nel governo delle province; noi siamo avidi e molli. Cittadini bene in vista hanno cospirato contro lo Stato, chiamato in guerra i Galli, pianificato l’incendio della città e la strage di tutti: e voi vi chiedete ancora cosa se ne debba fare? Siete indolenti e oziosi, ebbri delle vostre ricchezze, e brancolate l’uno verso l’altro in preda al panico, in attesa che gli dei vi salvino: ma gli dei hanno in odio i fiacchi e i codardi come voi; gli dei aiutano i forti e i vigili. Catilina ci tiene ancora per il collo e chissà quanti altri dei suoi ci aspettano in strada. Abbiamo i rei confessi. La morte sarebbe una misura clemente secondo Cesare? Secondo me, secondo l’antica usanza, per Giove, è l’unica misura».
Un lungo applauso accolse il discorso di Catone. La pena di morte fu messa ai voti, ma Cicerone sapeva che sarebbe passata.

NONIS DECEMBRIS HORA DECIMA                                                                                                       (63 a.C. 5 Dicembre, ore 15)
Era la pena di morte e il boia già scendeva le scale che portavano giù, nelle sentine più umide e profonde del Carcere Mamertino, nel Tulliano. Cicerone, improvvisamente afono, tremava impaziente. Dentro di sé, vedeva i passi del boia che discendeva l’abisso e quando la luce delle torce ne rischiarava il cupo viso, Cicerone non si stupiva di vedere se stesso. Le anime dei congiurati sarebbero sfuggite tra i denti nell’attimo del trapasso e sarebbero ritornate a perseguitare lui, che invece sarebbe rimasto per sempre laggiù, nel carcere. Nel volgere di poche ore il console si era accorto che il precipizio che l’attendeva era davvero lì davanti a lui, reale, tangibile, concreto come i giorni che innumerevoli sarebbero venuti, pieni di scorno, rimpianto e ingratitudine. Non era più soltanto la grandiosa immagine che si era finto per rendere meno duro il suo compito. Aveva perso la voce: non poteva più tornare indietro. Senza versare sangue aveva salvato la Città eterna; senza snudare la spada, armato solo della sua toga, Cicerone aveva vinto. Ma le spade di altri sarebbero corse a versare altro sangue. Il console lo sapeva e già sentiva nell’aria l’odore del suo. La toga aveva salvato Roma, ma non avrebbe salvato lui.

(Continua)

 

Parte della serie Il Baro

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