Il Baro - II

Darent operam consules ne quid res publica detrimenti caperet


M TULLIO CICERONE C ANTONIO HIBRIDA CONSULIBUS                                                            (63 a.C. 5 Dicembre – ore 15)
NONIS DECEMBRIS HORA DECIMA
Sorpreso dal fortunale improvviso, il Senato aveva trovato nel console il suo timoniere. Passò la pena di morte. Finalmente Cicerone poteva darsi pace e recuperare il fiato speso per la causa dello Stato. Ormai bastava un cenno del capo perché morissero i congiurati; e pure Catilina sarebbe presto finito nella tenaglia delle legioni. Il Tempio della Concordia si svuotava dei suoi frequentatori. In mezzo al rumore e al movimento Cicerone volle cercare gli occhi di Catone, che tanto merito aveva avuto in quella scelta assennata; ma trovò quelli di Cesare, che lo fissavano indecifrabili. Uno spesso velo di malinconia celava qualsiasi altra emozione potesse trapelare da quel duro viso. Passò un istante e Cesare svanì in mezzo alle toghe. Cicerone fece un passo avanti e aprì la bocca per chiamarlo, ma il nome gli morì in gola.
L’oratore era senza voce.

CN POMPEO STRABONE L PORCIO CATONE CONSULIBUS                                                        (89 a.C. 5 Marzo circa – ore 12)
CIRCA NONAS MARTIAS MERIDIE
Un mezzogiorno di fine inverno splendeva tiepido sugli accampamenti del console Strabone. Non molto distante dai suoi alloggi, un pugno di legionari si stringeva intorno a due giovani che giocavano a morra. Gridavano festosi e frenetici come allegri araldi della primavera, ancora ignari dei futuri combattimenti e della morte sempre imminente. Uno di loro, Lucio Sergio Catilina, era un vero campione; non c’era volta che perdesse. Sempre un istante avanti al suo rivale, leggeva nel futuro meglio degli aruspici, senza bisogno di scrutare alcunché. Rideva forte alle sue continue vittorie, sapendole meritate. Suscitava nei camerati una naturale simpatia, forse anche per i suoi costumi dannati, adatti a tempi altrettanto dannati. Poco dopo, al momento di pranzare, Catilina sedette con loro. Era nobile per il nome, ma non per il patrimonio. Si sentiva a suo agio tra la gente oscura e la gente oscura, nata o caduta nel buio che fosse, gli sorrideva. Legionario tra i legionari, anche Catilina riempiva di puls la sua scodella, e ne mangiava con la stessa serenità con cui un patrizio poteva centellinare una coppa di Falerno. Masticarono in pace, finché qualcuno dall’occhio sottile non annunciò cattive nuove. «Arriva il rompiballe di Arpino». Catilina si voltò bruscamente. «E chi sarebbe?» Il legionario alzò le spalle. «Un figlio di cavalieri che ha studiato a Roma. Si dà mille arie da filosofo, ma starebbe meglio tra gli istrioni». Serpeggiò un sorriso maligno. «E dicono che sia un vero talento coi dadi». Catilina rise. «Adesso la vedremo. Pare che venga qui con tutta l’intenzione di sfidarci».
Marco Tullio Cicerone si fece in mezzo a loro e, sicuro della fama che lo precedeva, chiese subito chi fosse il migliore al gioco. Aprì e richiuse le dita della destra, lasciando balenare il biancore d’avorio di bellissimi dadi. A quanto pare, non aveva voglia di ragionare di Platone. Non che la guerra con gli alleati fosse il momento migliore. Catilina non ebbe bisogno di farsi avanti: lo spinsero i suoi camerati. A morra era imbattibile, ma se la cavava bene anche coi dadi. Cicerone si sedette e mise in faccia a Catilina uno sguardo di sfida. Era solo un paio d’anni più giovane, ma traboccava dell’arroganza di chi sa che prima o poi, da qualche parte, arriverà. Dietro quegli occhi serpigni pulsava la certezza della vittoria, la sfrontata sicurezza del successo. Catilina scoprì i denti per schernire tanta superbia e fece il primo lancio. Lo perse. Toccò a Cicerone, che lo vinse. Catilina tentò di concentrarsi, ma invano. Quello sguardo irriverente offuscava la sua proverbiale lucidità. Cicerone vinceva, vinceva senza ritegno. Guaiva ad ogni successo, strillava la sua gioia sfacciata. Quando Catilina cominciò a ringhiare la sua frustrazione, Cicerone prese addirittura a sghignazzare. Era troppo. Senza dargli il tempo di giocare un’ultima volta, i legionari presero l’arpinate per le braccia e lo sollevarono da terra, spintonandolo violentemente. L’offesa gli calò sul volto, pronta, sembrava, a farsi pianto. Aveva un’espressione tanto puerile che veniva voglia di prenderlo a vergate. Gli dissero di girare i tacchi e Cicerone si affrettava a farlo, quando un legionario lo afferrò per la spalla e lo rivoltò come un uovo in padella. «Da’ qua i dadi, Marco Tullio». Cicerone sbiancò. Il soldato tirò fuori il pugnale e affettò il dado da un lato. Poi, tenendolo stretto tra indice e pollice, lo mostrò a tutti gli amici. C’era un piccolo peso di piombo sulla faccia opposta. Catilina gettò i dadi in faccia a Cicerone, che si coprì con le mani. «Baro!» gli gridavano, mentre scappava.

M TULLIO CICERONE C ANTONIO HIBRIDA CONSULIBUS                                                            (63 a.C. 7 Novembre – ore 5)
VII ANTE IDUS NOVEMBRES QUARTA VIGILIA
«Padrone! Padrone!»
Cicerone si svegliò di soprassalto. Tirone, il suo schiavo, lo chiamava e lo scuoteva preoccupato. «Cosa c’è, cosa c’è?» Odiava le alzatacce improvvise, ma l’agitazione del suo schiavo era un cattivo segno. «Fulvia, l’amante di Quinto Curio». Cicerone si mise a sedere sul letto. La loquacissima Fulvia era sua informatrice segreta. Il suo uomo era in rapporti con Catilina. «Dille di aspettare nell’atrio». Ma la donna era già lì. «Sei in pericolo, console!» La mandava Curio. Poche ore prima Catilina e i suoi scherani s’erano radunati a casa di Porcio Leca, in via delle Falci. Da lì veniva Fulvia.
Catilina aveva perso le elezioni per la terza volta e aveva deciso che sarebbe stata l’ultima. Un suo rivale, Murena, aveva truccato il voto. Un tribuno della plebe, Marco Porcio Catone, aveva denunciato i brogli: ma Cicerone si era messo in mezzo.  Avrebbe difeso Murena e avrebbe vinto, Catilina lo sapeva. Era tempo di lasciare le vie legali. Uccidere il console, stragiare il senato, sollevare la plebe, rovesciare lo Stato. Ma la scintilla della rivoluzione, destinata a scattare pochi giorni prima delle calende, non aveva appiccato l’incendio. Il Senato sapeva che intorno a Fiesole, covo sillano, si radunava un esercito di diseredati; sapeva che lo guidava Manlio, braccio di Catilina. Era tutto scritto in certe lettere anonime che un senatore, Lucio Senio, aveva letto in aula. Pochi giorni dopo le Idi di Ottobre i padri avevano promulgato il decreto estremo: provvedano i consoli che lo Stato non subisca alcun danno. Molti di loro avevano lasciato l’Urbe, scampando alle lame dei congiurati. Catilina sentiva la palude salirgli ai ginocchi; le operazioni si erano impantanate. C’era bisogno di un grande atto decisivo, che sradicasse dal suo cammino l’ultimo e supremo ostacolo, il console. Cicerone doveva morire. Così due cavalieri dei suoi, Caio Cornelio e Lucio Vargonteio, si sarebbero introdotti di lì a poche ore nella casa del console per recargli gli onori del mattino e, approfittando dell’oscurità e dello stordimento dell’alba, gli avrebbero cavato la vita a pugnalate.
Cicerone ascoltava e pensava. Sentì l’ora del Fato rintoccare nei cieli di Roma. Anzi, l’ora del console. Da mesi insidiava Catilina, senza poter fare di più che lanciare accuse. Adesso che l’anno volgeva al termine gli si presentava un’occasione d’oro. Il console sentì che la sua vita si decideva in quei giorni che lo aspettavano sulla linea dell’orizzonte. Poche ore prima, quando già in Senato si strepitava contro un Catilina sempre più sfacciato, in un clima sempre più rovente, Cicerone si era sentito dire: il console è solo un inquilino dell’Urbe. Che lui possa salvare la città è improbabile quanto che il nobile Catilina la rovini. Così almeno aveva detto lo stesso Catilina. Cicerone, l’arrivista di Arpino, era ammutolito dalla vergogna.
Si alzò e si rivolse solennemente a Tirone. «La lorica. Chiama le guardie. Sbarra le porte. Li fermeremo».

III ANTE NONAS DECEMBRES ANTE LUCEM                                                                        (63 a.C. 3 Dicembre – prima dell’alba)
Era notte fonda quando il legato dei catilinari, Volturcio, entrò sul Ponte Milvio. Lo seguivano gli inviati dei Galli Allobrogi, che davanti a lui avrebbero dovuto confermare fedeltà a Catilina. Quando furono sull’altra sponda del Tevere, sbucarono dal buio manipoli di armati. Dalla selva di lance uscirono i mantelli rossi dei pretori, Pomptino e Flacco. Volturcio impallidiva, mentre gli Allobrogi si gettavano in ginocchio. I pretori li arrestarono tutti e li riportarono indietro vero le mura di Servio.
«Padrone, padrone!»
«Sono sveglio, Tirone. Entra».
Lo schiavo entrò, seguito da corrieri trafelati. Il piano era riuscito. Finalmente Cicerone sorrise dopo un mese di odissea.
I pugnali di Cornelio e Vargonteio non avevano penetrato le sue carni, ma quelle dello Stato sì. Scampato all’attentato, affilata la lingua, Cicerone aveva scatenato la sua ferrea volontà. Era sceso in Campo Marzio, armatura indosso e spada in pugno, per aumentare la temperatura. Catilina era fuggito incalzato dalle sue parole di fuoco, degne di Demostene e dei secoli a venire. Catilina era un bandito, un brigante e un nemico pubblico: perché scappare altrimenti? Così aveva parlato al popolo radunato nel Foro il giorno dopo. Poi aveva difeso Murena pur sapendo che era colpevole. Tutto era disposto a sacrificare per lo Stato. Anche la verità. Ormai era suo il cuore di Roma, ed era suo il merito. Ma era vero che non aveva ancora uno straccio di prova. Lo stesso Catilina glielo aveva ricordato in Senato e l’avrebbero fatto anche alcuni magnati, se ne avessero avuto il coraggio o il vantaggio. Cicerone ne aveva comunque bisogno.  Se le sarebbe procurate in un modo o nell’altro. Ma come? Catilina era non si sa dove lungo la Cassia. Qua e là i suoi avevano sollevato i miserabili, facendo più paura che danno; i legati dell’Urbe vigilavano ovunque. A Roma le armi arretravano dinanzi alla toga del magistrato. I catilinari brancolavano nel nulla. Catilina aveva lasciato l’iniziativa a Cetego e Lentulo, uomini violenti e grossolani. In cerca di forze nuove, avevano contattato gli inviati dei Galli Allobrogi, che da lungo tempo pativano le angherie dei maggiorenti dell’Urbe. Catilina console, dissero loro, avrebbero avuto indietro onore, ricchezza e libertà. Gli Allobrogi avevano indugiato sulla possibilità di abbracciare la congiura, ma infine prevalse la fedeltà a Roma. Da loro seppe tutto Quinto Fabio Sanga, un benefattore del popolo gallico, che tutto fece sapere a Cicerone. Il console fu allora sicuro di aver trovato la sua arma definitiva. Convinse gli Allobrogi a prendere le parti dello Stato e li mandò ad un incontro segreto coi congiurati. Contattò i pretori Lucio Flacco e Caio Pomptino, devotissimi allo Stato. Si tenessero pronti al suo comando. A Cetego, a Lentulo e agli altri burattini di Catilina gli Allobrogi chiesero una dichiarazione d’intenti giurata e firmata: sarebbe servita a meglio convincere il proprio popolo a sollevarsi. I catilinari firmarono senza l’ombra di un sospetto e misero tutto, Allobrogi e documenti, in mano a Volturcio, che li scortasse a nord. L’unica via per l’Etruria passava dal Ponte Milvio.
Cicerone aveva le prove.

(Continua)

 

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