I nuovi occhi del cinema di genere

E se il cinema di genere italiano uscisse dalla serie B? Su La ragazza nella nebbia, La belva e Il legame

Il cinema di genere in Italia non ha mai avuto un grande numero di proseliti, siamo sempre stati etichettati come la patria dei grandi autori, artisti/poeti che armati di cinepresa davano nuova forma al racconto filmico. Una visione confermata dalle infinite testimonianze di registi internazionali: escludendo Quentin Tarantino, che trae la sua essenza poetica porprio dai Corbucci, Bava, Di Leo e Castellari, troviamo fra i tanti Scorsese, Kiarostami, Park Chan-wook che parlando delle influenze del cinema italiano sul loro lavoro elencano le pellicole di Rossellini, Fellini e Visconti. Il cinema di genere italiano è spesso definito come un prodotto di serie B, un cinema popolare dove si utilizzano dei consolidati schemi narrativi, stereotipati, che rendono la visione più disimpegnata e accessibile alla massa. Opere di scarsa qualità e originalità, quest’ultima dettata principalmente da metodi produttivi che miravano a trarre il massimo profitto con il minimo investimento, da qui il riutilizzo delle stesse sequenze in film differenti (soprattutto scene di massa e di ambientazione), la riedizione di pellicole cambiando titolo e materiale pubblicitario che ne accompagnava l’uscita, fino ai casi più eclatanti dei cosiddetti “film doppi” cioè, come spiega il critico Roy Menarini ne L’arte del risparmio: stile e tecnologia. Il cinema a basso costo in Italia negli anni Sessanta, «opere che – alla prova dei fatti e dalla ricerca documentale – mostrano di essere stati girati contemporaneamente […] tutti riutilizzando gli stessi set, cast e scenografie». Queste tecniche produttive conoscono il loro periodo di splendore tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Settanta per poi svanire, insieme agli stessi film di genere, negli anni successivi.
 

In Italia la commedia è considerata «da sempre polmone economico e creativo del nostro cinema», come scrive Boris Sollazzo, risultando conseguentemente anche quello su cui si investe di più


Da ormai molto tempo il genere che riscuote più successo di pubblico nel nostro paese è la commedia, considerata «da sempre polmone economico e creativo del nostro cinema» – come scrive Boris Sollazzo in Esordi italiani. Gli anni Dieci al cinema –, risultando conseguentemente anche quello su cui si investe di più nel quale, fino ad ora, tanti registi avevano deciso di cimentarsi per esordire. Negli ultimissimi anni abbiamo assistito però ad un cambiamento, un riavvicinamento soprattutto da parte dei più giovani ad un cinema inconsueto: ed ecco il thriller con In fondo al bosco (2015) e La stanza (2021) di Stefano Lodovichi, ai quali possiamo aggiungere Shadows (2020) di Carlo Lavagna, il genere drammatico/sportivo con La partita (2018) di Francesco Carnesecchi, Il campione (2019) di Leonardo D’Agostini e Ultras (2020) di Francesco Lettieri; i film sui supereroi con Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) di Gabriele Mainetti e I Peggiori (2017) di Vincenzo Alfieri; senza dimenticare Il primo re (2019) di Matteo Rovere per il genere epico/storico, con le dovute distanze dall’estetica del peplum. Di tutti i titoli usciti in Italia negli ultimi anni, ci sono poi le opere prime di tre registi, tre film che, seppur con stile e caratteristiche difformi, hanno conquistato consensi e ridato forza a tre generi in particolare: thriller, azione e horror.

Il primo è La ragazza nella nebbia (2017) di Donato Carrisi, in veste di regista e autore dell’omonimo romanzo dal quale è tratto il film. La storia è ambientata ad Avechot, un piccolo paese immaginario nel Sud Tirolo, dove una ragazzina di nome Anna Lou è misteriosamente scomparsa durante la notte. Sul luogo arriva l’ispettore Vogel (Toni Servillo), un uomo cinico e spregiudicato con la cattiva fama di servirsi dei media per polarizzare l’attenzione sui casi che segue, e anche in questa occasione è astuto nel creare un risonante interesse mediatico. Il tessuto narrativo dell’opera è ben strutturato e pur con continui cambi di prospettiva che seguono l’entrata in scena di nuovi personaggi il racconto mantiene sempre alto il ritmo svelando solo nel finale come si siano svolti realmente i fatti, andando persino oltre le attese con un colpo di scena. Un thriller investigativo nel quale l’ambientazione «rimanda a una dimensione fiabesca, ma da fiaba cattiva» – come dichiara Carrisi – e l’atmosfera nebbiosa e algida trasmette un forte senso di sfiducia nei confronti dei protagonisti, fino al punto di arrivare a pensare che tutti potrebbero essere i colpevoli, in un film in cui non esiste giustiziere che smaschera il colpevole, non c’è integrità morale e rettitudine, tutto è ambiguo, miscelato e avvolto in un banco di nebbia fatto di cinismo e arrivismo.
 

Per La ragazza nella nebbia Carrisi si è ispirato ai noir degli anni ’60 e ’70, ma si nota la forte impronta internazionale più vicina al cinema di David Fincher e ai film di Luc Besson


Il regista dichiara di essersi ispirato ai «noir degli anni ’60 e ’70, quelli con protagonista Gian Maria Volonté», e in effetti l’investigatore interpretato da Servillo sembra essere la fusione tra “il dottore”, capo della sezione omicidi in Un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, e il giornalista Giancarlo Bizanti in Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio, ma nonostante ciò il lungometraggio ha una forte impronta internazionale più vicina al cinema di David Fincher  e, citando ancora Carrisi, «ai film di Luc Besson». E forse non è casuale che in un cast quasi tutto all’italiana ci sia Jean Reno, uno degli attori feticcio di Besson, nella parte del dottor Flores, uno psichiatra amante della pesca (con un enorme segreto), che durante l’interrogatorio con Vogel riesce a far luce su come si siano svolte le indagini e sul reale motivo del rapimento. La ragazza nella nebbia, seguito da L’uomo del labirinto (2019) – sempre trasposto da un romanzo di Carrisi –, sono thriller di grande intensità che pur con qualche imprecisione in fase di scrittura riescono a sopperire a queste lacune con un alto ritmo narrativo, una grande recitazione degli attori (nel secondo al fianco di Servillo c’è Dustin Hoffman) e così facendo riescono a far rivivere agli spettatori italiani, tramite opere nostrane, quella suspense e tensione psicologica non più percepita dai tempi del giallo all’italiana.

Il secondo film è La belva (2020) di Ludovico Di Martino, un’opera di pura azione assolutamente atipica per gli standard produttivi italiani. Il protagonista è un veterano dell’esercito di nome Leonida Riva, un uomo dal temperamento irascibile che, dopo aver preso parte a missioni segrete ed essere stato sottoposto a torture e sevizie, per alleviare i suoi traumi assume psicofarmaci. Mentre cerca di riconciliarsi con la sua famiglia e buttarsi alle spalle il passato, la figlia Teresa, a lui molto legata, viene rapita, e questo risveglia dentro l’uomo la belva che stava cercando di seppellire. Il film è un revenge movie che guarda molto da vicino alla saga di John Wick e soprattutto a Io vi troverò (2008). Quel che più colpisce ne La belva, però, non è la storia ma piuttosto la trasformazione di Fabrizio Gifuni nel ruolo di Leonida. L’attore italiano si toglie di dosso l’elegante giacca da broker indossata ne Il capitale umano (2013) di Paolo Virzì – valsogli il David di Donatello – per indossare un giubbotto con il ricamo di una tigre sulla schiena, si rasa i capelli e si fa crescere la barba rendendo il suo aspetto inquietante e tenebroso. Il suo corpo è una massa di muscoli mentre il suo viso è consumato e sofferente, parla solo quando necessario senza mai alzare il tono di voce, riuscendo a comunicare la sua instabilità mentale con un semplice sguardo.
 

La belva di Ludovico Di Martino è un revenge movie che guarda molto da vicino alla saga di John Wick e soprattutto a Io vi troverò


La scelta di un attore come Gifuni, che lavora molto sul piano della credibilità, ha portato «l’azione del film verso una performance più interiore», come dichiara Di Martino, creando quella giusta contrapposizione, «un contrasto di cui pensavo ci fosse bisogno» per rendere il personaggio e le sue azioni verosimili. Il film è uscito direttamente su Netflix godendo di un’inaspettata accoglienza e restando per giorni nella classifica dei film più visti, non solo in Italia – dove sarebbe dovuto uscire come evento speciale per tre giorni ma la chiusura anticipata a causa del Covid lo ha impedito. Evidentemente il cinema di genere affascina il pubblico anche senza il marchio statunitense. E se il fatto di stazionare per giorni nella classifica delle opere più cliccate non dimostra che il film sia piaciuto, dimostra sicuramente che le persone siano state attratte e incuriosite dalla visione, ma se non ci fosse stato il Covid quale sarebbe stato il suo destino in sala? Quanti cinema avrebbero proiettato un film come questo? E soprattutto, quante persone avrebbero pagato il biglietto per un’opera che nel nostro paese viene etichettata quasi come di serie B?

Il terzo film è Il legame (2020) di Domenico de Feudis (anche questo distribuito da Netflix), un horror ambientato in Puglia che mescola magia nera, credenze regionali e riti arcaici. La scelta di ambientare il film in questa regione non è casuale e ciò è reso evidente dalle parole dal libro Sud e Magia di Ernesto de Martino (antropologo che per primo si interessò alle ritualità meridionali e soggiornò a Taranto nel corso dei suoi studi) che leggiamo sullo schermo dopo aver assistito al rituale della fascinazione, detto anche malocchio, che come spiega de Martino stabilisce «il legame di sangue tra vittima ed esecutore». Il protagonista de Il legame è Francesco (R. Scamarcio), che dopo molto tempo torna nel Sud Italia per far conoscere la compagna Emma e Sofia, la figlia della donna, a sua madre, famosa per le abilità nei rituali magici. Una notte Sofia viene punta da una tarantola: tramite quel morso, la bambina entrerà in contatto con un’entità maligna che sembra tornata dall’inferno assetata di vendetta. Da quel momento la situazione si farà sempre più inquieta, i movimenti di macchina di de Feudis ci immergono in un clima di paura e tensione crescente, memorabili le sequenze ne La piana degli ulivi, uno dei luoghi simbolo pugliesi ricco di ulivi millenari, dove la piante assumono delle forme antropomorfe, tanto mostruose da farci credere che siano possedute o che siano state queste ultime ad aver risvegliato il male. Il regista, pur rifacendosi ad horror di possessione come L’esorcista (1973) di William Friedkin o Non si sevizia un paperino (1972) di Lucio Fulci, riesce a distaccarsi dal mero citazionismo e ad affascinare per la forte intercomunicazione creata tra territorio e i suoi rituali, abilmente sfruttati con l’avanzare del racconto. Come dichiara lui stesso «le preghiere, gli strumenti, i legni mischiati ai capelli», che vediamo nel film, «hanno tutti un richiamo alla cultura della magia cerimoniale pugliese e lucana», ma quel che più affascina è la scelta del morso della tarantola per la possessione, un riferimento inequivocabile al tarantismo, sindrome culturale tipica del Sud Italia studiata e documentata da De Martino. De Feudis dà dimostrazione delle sue abilità registiche mantenendo sempre alta la tensione e plasmando una storia dove folklore e studi etnografici sono il sostrato su cui si basa l’originalità e l’essenza del racconto.
 

I movimenti di macchina di de Feudis ci immergono in un clima di paura e tensione crescente, memorabili le sequenze nella piana degli ulivi, dove gli ulivi millenari assumono delle forme antropomorfe


Anche affrontando generi diversi e dando risalto a elementi dissimili è facile individuare la matrice statunitense di questi film, e come pur rimanendo circoscritti all’interno di stereotipi consolidati riescano comunque a stupire per l’originalità e i contenuti inconsueti. Da anni non eravamo abituati alla produzione di cinema di genere in Italia, da tempo non assistevamo ad un thriller tanto carico di colpi di scena, probabilmente non si era mai visto un horror così radicato nella cultura nostrana e un film di pura azione con un protagonista tanto azzeccato. Queste opere esemplificano come questo filone del nostro cinema abbia trovato una nuova generazione di registi, che pur con stili diversi tentano di innovare e soprattutto sovvertire definitivamente certe diffidenze che ancora vedono come un tabù la produzione di certi film. Ancora è presto per capire se ci siano riusciti, ma è evidente che qualcuno ci stia provando.


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