Gli Avengers di borgata

La lotta sociale del supereroe italiano dal ragazzo invisibile a Lo chiamavano Jeeg Robot

Chissà cosa risponderebbe il critico francese André Bazin, fondatore dei Cahiers du cinéma, se gli domandassimo quale è il genere americano per eccellenza del 21esimo secolo? Osservando i box office e la classifica dei film con maggior incassi della storia, risulta evidente come da ormai diversi anni la faccia da padrone un solo genere: i supereroi. Certo Bazin non si sarebbe basato soltanto sul criterio economico, ma sicuramente sarebbe rimasto colpito dalla straordinaria influenza di questi film anche oltre i confini. Un po’ come il cinema western degli anni quaranta – indicato dal critico francese come «il genere americano per eccellenza» – anche quello contemporaneo del supereroe è un genere nato e fiorito in terreno statunitense, non più guardando a cowboy e frontiere ma a fumetti Marvel e DC Comics. L’adattamento cinematografico da fumetti non è una novità, è consuetudine fin dagli anni Quaranta (con prodotti destinati sia alle sale che alla televisione), ma è dai primi anni Duemila che il genere ha iniziato a riscontrare uno straordinario successo di pubblico e, in casi ormai sempre più frequenti, anche di critica. Basti pensare alla trilogia di Batman di Christopher Nolan o a film più recenti come Deadpool (2016) e Logan - The Wolverine (2017), inserito nella lista dei migliori dieci film dell’anno dalla National Board of Review e candidato per la miglior sceneggiatura non originale ai prossimi Oscar.
 

Chi meglio di Gabriele Salvatores – già autore di opere avveniristiche come Nirvana (1997) – poteva avere il coraggio di  portare i supereroi in Italia?


Anche in Italia il supereroe cinematografico riscuote grande successo, tanto da scatenare in qualche autore l’idea di creare eroi nostrani dai connotati originali. E chi meglio di Gabriele Salvatores può avere il coraggio di affrontare una sfida tanto ardua. Il regista napoletano – Oscar per miglior film straniero per Mediterraneo (1991) e già autore di opere avveniristiche come Nirvana (1997) – sceglie la città di Trieste per realizzare Il ragazzo invisibile (2014), trasformando la città portuale in uno spazio (soprattutto nell’ultima parte) irriconoscibile. Il film ha come protagonista un adolescente di tredici anni senza amici, deriso dai suoi compagni di classe e vittima di bullismo, una descrizione che potrebbe ricordare lo Spider-Man (2002) di Sam Raimi, personaggio introverso e asociale che dopo essere stato morso da un ragno si trasforma nel supereroe che tutti conosciamo. Nel film di Salvatores non ci sono avvenimenti paranormali a fare da catalizzatore, il ragazzo si accorge del suo potere dopo essere stato per l’ennesima volta schernito e costretto a fuggire dai suoi compagni. Non c’è eroismo nella sua azione, il motivo della sua trasformazione sembra nascere per ovviare alla sua impossibilità di ribellarsi. È questa l’originalità del film, un supereroe vittima delle prepotenze dei suoi coetanei che utilizza i suoi poteri per affrontare le insicurezze. Il tredicenne non si sente un eroe, quando la sorella minore gli dice che deve sfruttare la sua invisibilità per salvare le persone in pericolo, lui risponde: «Chi vuoi che aiuti? Sono solo uno sfigato». Questi tratti rendono Michele un eroe lontano dallo stereotipo americano e il film un’indagine psicologica incentrata sul bullismo, una piaga sociale al centro di dibattiti in tutte le scuole italiane. Il ragazzo invisibile però è anche un’opera bipartita, con una seconda parte molto più americana in cui Michele prende coscienza dei suoi poteri, indossando addirittura un costume da supereroe, e con un finale che apre ad un immancabile sequel: Il ragazzo invisibile – Seconda generazione (2017). Il secondo capitolo si schiude con una sigla realizzata con i disegni del fumetto (realizzato dopo il successo del primo film), esplicitando sin dai titoli di testa la volontà di creare un prodotto che si avvicini ai film Marvel.
 

Michele è un eroe lontano dallo stereotipo americano, quando la sorella minore gli dice che deve sfruttare la sua invisibilità per salvare le persone in pericolo, lui risponde: «Chi vuoi che aiuti? Sono solo uno sfigato»


Questo tentativo di emulazione lascia poco spazio alle dinamiche sociali, con una storia che strizza l’occhio al ciclo degli X-Men e alla loro lotta per riscattare il genere mutante. Il risultato è un film povero di contenuto, dove l’ambizione di realizzare un prodotto spettacolare ha impoverito la sceneggiatura, mettendo in secondo piano tematiche che nel primo capitolo avevano dominato la scena. Ma si può fare cinema di supereroi senza investire ingenti capitali su CGI e effetti speciali? Forse è questo l’interrogativo che il regista si è posto, e guardando a film come The Avengers (2012) o Wonder Woman (2017) la risposta sembra negativa. Nonostante tutto il cinema italiano deve molto a Salvatores, perché il suo lavoro ha fatto da spartiacque dimostrando che anche fuori dai confini di Hollywood si possono realizzare opere di questo genere. Tanto è vero che, incoraggiati dal successo del primo film, alcuni giovani registi italiani hanno seguito le sue orme, sopperendo alla mancanza di spettacolarità con vicende straordinariamente graffianti.

I peggiori (2017) di Vicenzo Alfieri è un ritratto pungente della nostra società, una commedia che si serve di elementi ironici, a volte perfino ridicoli, per descrivere con vena comica l’Italia di oggi. Il tratto più interessante dell’opera è esplicitato nel suo sottotitolo, “Eroi a pagamento”: la storia ha infatti per protagonisti due fratelli residenti a Napoli che in una disperata precarietà economica decidono di mascherarsi e compiere una rapina nel cantiere dove uno dei due lavora. La storia si accende nel momento in cui, grazie ad un video messo in rete dalla sorella, i due diventano i “Demolitori”, giustizieri privati che in cambio di denaro denunciano angherie e soprusi.
 

Nel film "I peggiori" di Vincenzo Alfieri i due fratelli protagonisti diventano i “Demolitori”, giustizieri privati che in cambio di denaro denunciano angherie e soprusi


Anche qui è facile ravvisare l’influenza statunitense, la più evidente quella di Kik-Ass (2010) di Matthew Vaughn, adattamento cinematografico dall’omonimo fumetto americano, e con Batman Begins (2005) di Nolan. A differenza di Batman però i Demolitori si muovono a bordo di una vecchia Panda, entrano in azione indossando maschere di Maradona comprate in un negozio cinese e utilizzano chiese barocche come luogo di scambio. Sono eroi casuali, che non agiscono per immagine ma per necessità, non hanno super poteri, non sanno combattere e non hanno armi. Supereroi che non potrebbero salvare la terra da un disastro apocalittico o da un’invasione, sono semplicemente persone comuni che provano a ribellarsi alle ingiustizie. I peggiori segna anche l’esordio alla regia di Alfieri, un’opera prima della quale ha curato anche soggetto e sceneggiatura – collaborando con altri sceneggiatori tra cui Alessandro Aronadio, regista di Orecchie (2016) – distinguendosi con una storia di ampio respiro, che con semplicità e ironia riesce ad evidenziare problematiche nazionali.

Ma discutere di cinema di supereroi in Italia significa parlare principalmente di un film e del suo autore: Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) di Gabriele Mainetti. Il regista romano, prima dell’esordio con Jeeg Robot aveva già realizzato il cortometraggio Basette (2008), in omaggio a Lupin III, e Tiger Boy (2012), dove prende spunto dall’Uomo Tigre. Da questi due corti si può individuare l’essenza della sua poetica, una commistione tra fumetto giapponese e vita criminale di borgata culminata in Lo chiamavano Jeeg Robot, che palesa sin dal titolo un chiaro omaggio alle serie anime e manga Jeeg robot d’acciaio di Gō Nagai. Siamo a Roma, un uomo scappa dalla polizia con la refurtiva, incontra un corteo di manifestanti che sta attraversando Ponte Sant’Angelo e per non farsi acciuffare è costretto ad immergersi nel Tevere. Già dalla prima sequenza ci vengono presentate molte tematiche del film – un uomo di basso rango sociale dedito a furti per sopravvivere in una città in preda al malcontento popolare –, ma l’elemento più interessante della sequenza è come Enzo (col volto di Claudio Santamaria) si immerga nel fiume, entri in contatto con sostanze radioattive e grazie a queste acquisti una forza straordinaria, capace perfino di piegare un termosifone a mani nude. Quando Enzo razionalizza le potenzialità dei suoi poteri non agisce per il bene comune, non pensa di poter sconfiggere la criminalità, ma va a rapinare una banca sradicando dal muro l’intero sportello bancomat. Questo è l’elemento straordinario del film: scoprire che il nostro protagonista, perlomeno nella prima parte, non è un supereroe ma un supercriminale, un uomo che compie azioni illecite e passa le giornate a mangiare yogurt e guardare film pornografici sul divano.

Questo è l’elemento straordinario di Lo chiamavano Jeeg Robot: scoprire che il nostro protagonista non è un supereroe ma un supercriminale, un uomo che compie azioni illecite e passa le giornate a mangiare yogurt e guardare film pornografici sul divano


Enzo è un uomo senza ambizioni e senza famiglia, si muove in modo goffo e con aspetto trasandato, le sue entrate in scena non sono trionfali, non atterra in pose statuarie come Thor, non ha i muscoli di Wolverine né il carisma di Iron Man. Sarà però questo super cittadino a salvare la città dalla follia di Fabio detto “Lo zingaro” (straordinariamente interpretato da Luca Marinelli), intenzionato a collocare un ordigno nello Stadio Olimpico durante il derby. Mainetti crea un eroe comune, guardando al supereroe giapponese e americano con grande ammirazione ma cauto distacco, in un film che nella sua apparente semplicità filma difficoltà e paure. Il regista romano non si limita a creare un supereroe originalissimo ma si sofferma sulla paura di attacchi terroristici, sullo spaccio di stupefacenti, su estorsioni camorristiche e inquinamento ambientale. Non è casuale che come oggetto motore della mutazione dell’eroe venga scelto il Tevere, dichiarato da Legambiente un fiume ad alto tasso d’inquinamento. Perché in fondo cosa raccontano veramente i film italiani di supereroi? Non sono forse dei veri e propri manifesti di denuncia che hanno come protagonisti eroi straordinariamente “normali”, che pur essendo alienati dalla società in cui vivono lottano per migliorarla? È proprio questo l’eroe che Gabriele Mainetti descrive alla fine del suo film, quando il voice off ci dice cos’è davvero un eroe: «un individuo dotato di grande talento e straordinario coraggio, che sa scegliere il bene al posto del male, che sacrifica sé stesso per salvare gli altri, ma soprattutto che agisce quando ha tutto da perdere e nulla da guadagnare».


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