I microcosmi lunatici di Andrea Inglese

Intervista all’autore di Stralunati, raccolta di racconti tra scenari grotteschi e pressioni del quotidiano

Incontrarsi a Parigi è un’impresa. L’organizzazione di un qualsiasi appuntamento deve essere il più efficiente possibile: messaggi brevi, chiari; non c’è spazio per le esitazioni. «In alternativa M Austerlitz o Bnf verso le 18:30?», mi scrive, da un numero che non conosco, Andrea Inglese. «Per me ottimo M Austerlitz verso le 18:30», gli rispondo. È da un po’ che cerco di intercettarlo per un’intervista, da quando ho assistito a una bellissima presentazione di Stralunati (Italo Svevo, 2022), la sua nuova raccolta di racconti iperrealistici e grotteschi ambientati in un presente assurdo e alienante, presso la libreria italiana La Tour de Babel. Ci troviamo all’uscita della RER C, Andrea Inglese e io, in una delle stazioni che meno conosco della città. Cerchiamo un bar e, dopo qualche indecisione, troviamo il luogo adatto: è un ristorante corso, «lì una birra ce la fanno bere di sicuro», afferma Inglese con determinazione. Ci sediamo al tavolino e ordiniamo una blanche, che ci accompagnerà per il tempo della nostra chiacchierata.

Raccontami un po’ di Stralunati. Come nasce la tua raccolta? Da un’idea, da una visione, da fatti realmente accaduti?
Il libro nasce in realtà dal fatto che un’amica, Margherita Macrì, mi ha messo in contatto con Dario De Cristofaro, direttore editoriale della collana “Biblioteca di Letteratura Inutile” per Italo Svevo. Lui all’inizio era interessato più a testi romanzeschi: abbiamo parlato un po’ ed è nata l’idea di fare un libro che fosse una raccolta di racconti e di prose. Questi racconti hanno una storia varia, perché alcuni sono usciti per riviste, tra cui la rivista “Sud” diretta da Francesco Forlani; altri sono usciti in rete, per esempio su “Nazione Indiana”; altri ancora sono inediti. Diciamo che, quando uno va a pubblicare un libro costituito in parte da materiale edito, c’è il problema di come costruirlo: a me non interessa semplicemente fare una raccolta di cose già edite, come una specie di contenitore dove sbatti dentro tutto. Questo ha implicato ripensare ogni cosa: ripensare l’architettura del libro, a volte riscrivere alcuni racconti, e poi scriverne di nuovi. Il titolo, Stralunati, è forse l’elemento che costituisce un po’ il filo conduttore di questi testi, che vanno da forme di novelle e racconti brevi novecenteschi, fino alle prose più sperimentali. Quello che, come al solito, mi interessa meno riguarda i confini di genere: mi piace che ci sia una sorta di spiazzamento rispetto al genere. E poi c’è questa idea della misura breve, che per me paradossalmente si presta a scuotere le coordinate del realismo, e quindi a trovare una modalità alternativa per parlare sì di cose che fanno parte della realtà, ma in un modo diverso e da un punto di vista diverso.

A proposito di forma breve. Stralunati arriva dopo il tuo romanzo La vita adulta, dove affrontavi alcuni temi a te cari, come quello del lavoro e della disoccupazione, che ritroviamo in parte anche qui. È stato difficile per te declinare certi temi, più ampiamente trattati altrove, nella forma più condensata del racconto?
Non c’è stata una difficoltà di condensazione, perché in qualche modo per me la forma breve anticipa il romanzo, anche biograficamente. Il mio primo romanzo è del 2016, mentre testi brevi – sia in prosa più sperimentale sia in forma più narrativa – li ho già scritti e pubblicati in precedenza. L’idea era semmai di vedere – dopo aver scritto dei romanzi, dopo aver scritto delle poesie – che cosa ancora fosse interessante nella forma breve, in una prosa narrativa: questo partendo sempre dalla premessa che, secondo me, ogni genere ha una sua peculiarità conoscitiva, cioè ogni genere ti permette di esplorare un aspetto della realtà che un altro genere non può fare. Se vuoi, la forma breve ti permette di giocare sulla destrutturazione degli schemi narrativi; la dimensione tematica è invece il filo conduttore che attraversa vari miei libri, non solo i romanzi.
 

Che cosa vuol dire oggi il fare, in una società come la nostra? Bere questa birra, essere qui, fa parte di un sistema che avvelena il mondo, avvelena noi


Più che il precariato o il lavoro, direi che negli Stralunati la vera questione è l’azione: la maggior parte delle nostre azioni (non per forza lavorative in senso stretto) sono produttive di qualcosa, producono degli effetti sulla realtà. È il fare, l’azione in quanto fare. In qualche modo, è una posizione più radicale rispetto alla semplice questione del lavoro e tocca degli elementi esistenziali. Che cosa vuol dire oggi il fare, in una società come la nostra? Sappiamo bene di essere in una situazione paradossale, per cui tutto ciò che facciamo quotidianamente, il nostro modo normale di vivere la vita, ci scava la fossa in qualche modo: bere questa birra, essere qui, fa parte di un sistema che avvelena il mondo, avvelena noi. Secondo me puoi ritrovare questo paradosso anche ai livelli “micro” dell’esistenza, per cui c’è per esempio in Stralunati un racconto sullo svegliarsi, sull’alzarsi dal letto – il racconto “Al risveglio”.
 

I cinque minuti tra lo squillo della sveglia e la gamba che si estrae dal letto, quei cinque minuti convenzionali – possono essere un po’ di più o un po’ di meno – sono del tutto particolari: non si è mai sicuri, in questo breve intervallo di tempo, mai del tutto sicuri, che ce la si farà, che anche oggi si riuscirà a trovare tutto quanto è necessario per aggiustarci il mondo nella sua interezza, il mondo carico di tutte le sue insidie e minacce sociali.


E infatti le tue storie – tanto quelle ordinarie, quanto quelle più straordinarie – ci appaiono familiari proprio perché sono ambientate in un contesto contemporaneo e urbano, in un quotidiano che conosciamo bene. Allo stesso tempo, è un quotidiano che spesso e volentieri ci restituisci distorto, se non inquietante. In che modo hai lavorato sulla rappresentazione di questo scenario?
Quella è un po’ la peculiarità della mia scrittura. Io penso che derivi da una specie di analiticità sfrenata: è come vedere una stanza con delle persone dentro attraverso un macro-obiettivo e quindi vedi tutto un po’ esploso. Qualcuno ha detto: «è come se fosse una stanza…
… una stanza dove il disordine è sistematicamente organizzato?
Sì, la scrittura per spiazzare il lettore e fargli guardare la realtà da un punto di vista diverso deve strutturare un ordine diverso. È la solita battuta de “il disordine è un ordine diverso da quello a cui siamo abituati”, per cui, non riconoscendo schemi nelle cose che vediamo, parliamo di disordine. Questo è un primo aspetto, poi c’è la questione della struttura della frase. Per me è fondamentale costruire delle frasi complesse, lunghe, a volte con strutture ipotattiche, con l’idea che la frase non sai mai dove va a terminare, in cosa va a terminare: è l’idea di una frase dove puoi svoltare l’angolo, puoi svoltare una virgola, e ti trovi di fronte a qualcosa di assolutamente inaspettato.

Per smorzare la drammaticità che i tuoi personaggi vivono nel quotidiano, ti servi di alcuni espedienti umoristici. Giochi molto con la lingua, con le sue potenzialità, e la tua scrittura aderisce perfettamente a questo scavo del tragicomico – penso, ad esempio, a tutti i cliché a cui fai appello, sia linguistici che sociali, e alla loro decostruzione, come ne “I convenevoli”, “La telefonata dei dotti” o nel ritratto noir di Babbo Natale. È stato un processo spontaneo o un lavoro più rigido, meticoloso? Come hai lavorato su questo aspetto?
Qui si toccano i meccanismi di scrittura, che sono sempre in parte inconsci. Per me, una delle cose fondamentali non è tanto il cosa, non è tanto il come, ma il tono – tra l’altro, l’ho riscoperto di recente anche grazie a una nota di Robert Pinget, scrittore francese del Nouveau Roman. Per me è indispensabile trovare un certo tono della voce e, a partire da questo tono della voce, è come se tutto si mettesse in moto, si innescasse. Nel momento in cui il tono è trovato, e quindi anche una possibile visione, la scrittura è poi molto rapida; eventualmente, c’è poi un ritorno sulla scrittura. Però quella specie di frase a cascata corrisponde proprio alla rapidità della scrittura; la freddezza arriva dopo e, se c’è un’analiticità, questa è accelerata e un po’ furiosa – anche se è quasi un ossimoro.
 

Se, finito un romanzo, non riusciva però a superare il muro delle trenta pagine di quello successivo, quando insomma esitava tra più romanzi senza portarne a termine neppure uno, allora perdeva velocemente le forze, vedeva tutto nero, e scorgeva macchie misteriose in punti poco visibili del corpo. Alla fine, smetteva persino di uscire di casa e, se aveva un lavoro, anche buono e ben pagato, tendeva a farsi licenziare. Tornava a cenare con le fette di mortadella, estratte dalla busta di plastica e ficcate in bocca con le mani.


Ed è la stessa accelerazione a cui sottometti i tuoi personaggi, la stessa dei nostri tempi. I protagonisti di Stralunati sembrano risentire molto di questo presente frenetico, alienante, che li comprime e li costringe in uno stato di agitazione e frustrazione costanti – come Anselmo ne “La forza dei romanzi” che cena ficcandosi in bocca la mortadella o ancora Enzo, che ne “Il progetto” pianifica nei minimi dettagli questo suo grande piano che però, per diverse ragioni, non sfocia mai in nulla di concreto, rimanendo sempre in una fase preparatoria. Come reagiscono – se reagiscono – i personaggi dei tuoi racconti alle pressioni del quotidiano?
Penso che tu abbia ben colto una cosa: ogni tanto mi sembra che un intero scenario micro-narrativo, con tanto di personaggio e di sua biografia ultra-condensata, possa nascere da un micro-evento, da una micro-frustrazione quotidiana. Un caso è “I convenevoli”, ma anche “La telefonata dei dotti”: sono quelli che, con Perec, potremmo chiamare degli eventi di innesco, degli eventi infra-ordinari, cioè piccole frustrazioni di tutti i giorni che, se amplificate, ti rendi conto che in realtà portano qualcosa, come una sorta di filo sottile che tiri e poi all’estremo opposto ci trovi un’ancora pesantissima. Queste micro-frustrazioni parlano di come il nostro mondo è costruito, di come i nostri rapporti sociali esistono, indipendentemente dalle questioni puramente contingenti. I miei personaggi si trovano per forza dentro a pressioni enormi: non sono dei personaggi che dominano il loro destino, che poi è anche la nostra condanna. Noi viviamo in una società estremamente individualista, il che vuol dire che ognuno dovrebbe essere maestro del proprio destino – questo è come vorremmo essere – e se tu non riesci a esserlo, sei enormemente frustrato. I miei personaggi sono enormemente frustrati perché semplicemente non sono maestri del loro destino, come noi che, almeno in gran parte, non lo siamo: abbiamo magari l’illusione di esserlo individualmente, ma ormai collettivamente lo siamo sempre meno.

Per tentare di sopravvivere, noi siamo ovviamente costretti a scendere a compromessi con le pressioni del quotidiano. Quanto sono disposti i tuoi personaggi a scendere a compromessi?
I miei personaggi non hanno nulla di eroico: il compromesso, per loro, sarebbe il territorio spontaneo. Loro corrono subito a costituire dei compromessi: la cosa interessante è che sono talmente sfasati che il compromesso non funziona, e quindi si trovano in una posizione di opposizione, di trasgressione rispetto ai ritmi e alle forme di vita del quotidiano; non perché eroicamente hanno deciso di fare la rivoluzione, ma perché non riescono a stare al passo con le compromissioni in cui la maggior parte di noi è coinvolta.

Ecco perché quelli a cui dai vita sono microcosmi così alterati, grotteschi – “stralunati”, appunto. Quale accezione dai tu personalmente a questo aggettivo?
Per me è un termine straordinariamente evocativo: uno perché c’è – mi viene in mente adesso – “stra-luna”, troppa luna, e quindi c’è una dimensione della “lunaticità”, ma non semplicemente nel senso del cambiamento di umore, ma nel senso di un termine francese, non proprio traducibile in italiano, che è “fantasque” e che è legato in qualche modo alla luna: la luna come dimensione anti-diurna, immaginaria, dove uno proietta tutte le fantasie possibili sul reale. È una sorta di rapporto in cui lo sfasamento è continuo. In più, c’è il senso specifico dello stralunamento: una specie di sospensione, secondo me, tra lo stupore e la paura.
 

Nel titolo Stralunati c’è una dimensione della “lunaticità”, ma nel senso del termine francese “fantasque”, che è legato alla luna come dimensione anti-diurna, immaginaria


Mi sembra che sia uno stato estremamente interessante, questa sospensione tra lo stupore e la paura. In qualche modo, tira fuori delle cose che non ci piacciono: essendo tutti noi esseri metropolitani, acculturati, non ci piace essere stupiti, perché è come se fosse un segno di debolezza cognitiva. Poi, c’è la paura: la paura non è un’emozione particolarmente cool, che si vuole esibire, fa parte di quelle zone poco frequentate e che per me sono interessanti. In più c’è un’altra cosa: credo che negli Stralunati, nel modo in cui uso la prosa, c’è sempre un gioco di accelerazione, come nelle vecchie comiche di Ridolini e Buster Keaton, o al contrario di slow-motion, di rallentamenti (non epici come nello slow-motion del cinema!), ma di incastramento, di cose che si incastrano e non vanno avanti.

Quando scrivi lo fai principalmente per te stesso o hai in mente un pubblico di riferimento, un lettore ideale? Di cosa pensi che questo lettore possa appropriarsi leggendo le tue storie?
Se scrivessi per me stesso sarebbe molto più semplice, perché non avrei problemi di pubblicazione, né di ricezione, né di interpretazione, né di circolazione, né di diffusione: insomma, tutti i problemi che uno ha come scrittore non li avrei. Quello che mi chiedo è: questo tipo di prosa, questo tipo di italiano, questo tipo di forma breve – che mi sembra abbastanza anomalo nella produzione italiana – chi cazzo se la leggerà? Questo me lo chiedo. Mi rendo conto di creare qualcosa per cui mi piacerebbe avere un pubblico, ma non so quale sia questo pubblico. Mi posso solo immaginare che ci sia un lettore talmente irrequieto che, ad un certo punto, dice “ah, questa cosa qua non corrisponde a quello che io leggo di solito e quindi mi interessa”. Può sembrarti forse contradditorio che io dica di scrivere per un pubblico, ma che allo stesso tempo dica di scrivere delle robe tali che non so quale sarà il mio pubblico, giusto? Per andare fino in fondo nella tua domanda, penso che la risposta sia un po’ nell’attitudine che conoscono bene gli sportivi. La scrittura è, se vogliamo, una forma di atletica del pensiero e dell’espressione, quindi a un certo punto tu hai bisogno di un elemento di sfida: quella cosa lì ok, la so fare, so cos’è; adesso, invece, voglio entrare in un territorio che non mi è così familiare. Questa è la sfida a cui lo scrittore sottopone sé stesso. L’idea è quella di ottenere una performance che sia interessante per qualcuno che la guarda. C’è un doppio versante, se vuoi: un versante quasi un po’ autistico, cioè le sfide che uno scrittore lancia a sé stesso, e assomiglia molto a quello che tutti conoscono se hanno fatto uno sport un po’ approfonditamente, e c’è poi il discorso della performance – utilizzo performance perché può legare la scrittura e la dimensione sportiva – che poi vuole avere anche una dimensione pubblica, ossia uno spettatore che guarda e gode di questa cosa, di questa performance.



Foto dell’autore di Mylène Sarant


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