Giocare a luce spenta

Su Nefando di Mónica Ojeda, avventura in un videogame horror tra creepypasta e rottura della quarta parete

Mónica Ojeda possiede un talento e una sensibilità verso l’ignoto che poche altre autrici contemporanee possono vantare. L’autrice ecuadoriana, portata sugli scaffali italiani da Polidoro Editore, attinge sia dalle paure del quotidiano sia dalle storie dell’orrore di tutti i tempi. Da qui riesce a tessere storie che ci ricordano di cosa abbiamo paura, quanta ne coviamo nel petto, cosa vorremmo non vedere mai ma che, come nella più classica delle vicende orrifiche, non possiamo fare a meno di osservare. In Mandibula, di cui pubblicavamo la recensione un anno fa, l’orrore e l’elemento weird si annidavano in corpi adolescenziali di ragazze e nel cuore di una donna adulta che non riusciva a separarsi dalla madre. Era una sorta di inno, preghiera e vero e proprio rituale (lo stesso che probabilmente tentano le protagoniste) per evocare lo strano e l’impossibile. Nefando, uscito recentemente per Polidoro, non è una preghiera ma una testimonianza, un ricordo di quello che sempre può raggiungerci e che forse desideriamo accogliere. Per quanto il romanzo sia antecedente a Mandibula, nella sua storia si ritrova un mistero altrettanto contorto, in questo caso raccontato in modo corale.


Fece scivolare la mano sulla parete e, quando sentì i rilievi e l’asperità del muro spellato, immaginò il dorso di un coccodrillo e comprese che era quello l’unico modo di scrivere un romanzo: circondata da squame.

 

In Nefando abbiamo tre personaggi principali, i quali vivono nello stesso appartamento a Barcellona: Kiki e Ivan, due studenti messicani, e un ventinovenne hacker ed ex game designer chiamato Il Cuco. Di loro conosciamo frammenti di vita tramite alcune vicende narrate in alcuni capitoli mentre in altri assistiamo alla loro intervista, tenuta da qualcuno a noi ignoto, che chiede ai tre come hanno conosciuto i fratelli Teran, ovvero i creatori di Nefando, un videogioco che è stato eliminato dalla rete per i suoi contenuti assurdi, terribili e addirittura illegali. Nefando, il videogioco, ma anche le storie delle persone che l’hanno ideato e per primi sperimentato, ha a che fare con la percezione del proprio corpo, con la violenza, l’abuso. Tutti i personaggi vivono con profonda inadeguatezza il fatto di essere un corpo vivo, qualcosa che si muove e che, tuttavia, non riesce davvero a esprimere cos’è realmente.

I dettagli riguardo al gioco sono un inquietante scenario che galleggia sul fondale mentre vengono narrate le vite dei personaggi. I tre fratelli raccontano un’infanzia fatta di violenza e abuso, e Ojeda non tace neanche un dettaglio al riguardo. Ciò di cui sono stati vittime è ormai per loro un dato di fatto, tanto che riescono a parlarne liberamente, come se fossero loro stessi quell’orrore che è stato inflitto sui loro corpi per anni. Oppure, forse, cercano il linguaggio giusto per parlarne davvero, e da lì nasce il gioco. Anche i ragazzi di Barcellona cercano un compromesso tra corpo e linguaggio, tra ciò che sono e quello a cui desiderano dare forma. Kiki scrive un romanzo erotico, e la storia che crea viene offerta anche a noi lettori. Ivan odia il suo corpo e desidera castrarsi e si avvicina ai fratelli con curiosità, come se solo loro potessero capire ciò che vuole diventare. Il Cuco riflette continuamente sul significato di realtà, spesso mettendo in dubbio la propria esistenza. Il suo stesso soprannome corrisponde al complotto che l’impossibile tenta contro il reale: se in spagnolo cuco significa carino, in messicano corrisponde a un mostro mangia bambini. Nel pensare al mondo, a ciò che lo circonda, Il Cuco riflette come un hacker, ma anche come un lettore di storie impossibili, citando spesso Philip Dick, che come lui si interrogava se il mondo che viviamo fosse davvero vivo e tangibile, o solo una farsa.
 

Era compiaciuto di essere se stesso, di essere diviso in una molteplicità di ragionamenti in lotta tra loro per la sopraffazione, e che quel movimento di lotta fosse l’unica cosa per cui fosse disposto a giocarsela.
 


Per costruire questa storia composta da aneddoti, ricordi, interviste e romanzi all’interno del romanzo, Ojeda attinge a tre elementi che si annidano uno dentro l’altro, tre media che negli ultimi venti anni hanno saputo raccontare l’orrore al meglio: il creepypasta, i videogiochi che rompono la quarta parete e il found footage o mockumentary horror. Le creepypasta sono storie horror che si sviluppano in rete, tramite il copypasta appunto, in forum e social network. Il fenomeno si è sviluppato a partire dai primi anni Duemila ed è interessante per più di un motivo. Le storie inquietanti delle creepypasta si legano spesso a leggende urbane (il più noto è Slender Man, nato a partire da un contest fotografico) e riprendono spesso temi del folklore classico. Questo tipo di orrore viene elaborato e diventa in grado di muoversi in molteplici canali: la televisione, il telefono (vedi l’altra leggenda metropolitana giapponese Mary-san, la bambola che telefona alla proprietaria che l’ha abbandonata), e ovviamente i videogiochi. Ciò che creepypasta e videogiochi hanno in comune è la sensazione di straniamento che emerge nel momento in cui ci sentiamo esposti e osservati, quando ci chiediamo se quello che vediamo sia tutto vero.

In Nefando, chi gioca è costretto a chiedersi se quello che accade nel gioco stia davvero accadendo. Nel gioco narrato di Ojeda accade infatti ciò che molti giochi horror, sempre a partire dai primi anni Duemila, hanno realizzato: la rottura della quarta parete. Il videogiocatore è, a tutti gli effetti, dotato di immenso potere nel videogioco. Tuttavia, quando la finzione sembra infrangersi, ciò che si sperimenta è confusione, inquietudine, se le vicende che vengono narrate sono già di per sé spaventose. Se nel 1998 in Metal Gear Solid il boss Psycho Mantis leggeva la nostra memory card, la faccenda si è sempre più affinata, in modo tale che non solo un gioco poteva dare la parvenza di sapere di essere un gioco, ma anche che il personaggio giocato poteva interferire con il mondo reale, in esperienze di gioco diventate di culto come Undertale o Doki Doki Literature Club!, quest’ultima probabilmente la visual novel più straniante ideata negli ultimi anni. Nefando chiede di essere visto. Non si tratta di un boss o di un’arma del videogame per mettere in crisi chi gioca, ma una richiesta spassionata.


Questo pomeriggio si è aperta la porta dell’armadio e dalle sue profondità è emerso un coccodrillo che adesso vaga per la stanza. Sulle squame si legge: «QUESTO ANIMALE: LA MIA VOCE».


Un altro aspetto interessante riguardo a come viene narrato Nefando è che le uniche informazioni che noi lettori otteniamo riguardo al gameplay, come quella citata poco sopra, provengono da ulteriori testimonianze, stavolta da parte di alcuni videogiocatori anonimi provenienti da un forum del Deep Web. Questo ci porta all’altro fenomeno che si lega a creepypasta e videogiochi che rompono la quarta parete, ovvero gli horror found footage. Il genere esplode ancora una volta all’inizio degli anni Duemila, e come gli altri due elementi prima citati è fortemente legato alla reperibilità online, sui primi forum ma anche su siti specializzati, di materiale scabroso, illegale e violento. Gli horror di questo genere sono infatti basati su filmati in presa diretta e finti documentari. Anche in questo caso l’interconnessione tra la volontà e il desiderio di osservare qualcosa di terribile, l’incursione di quell’orrore nella vita reale, e la successiva testimonianza che ne deriva è evidente.
 

I fratelli dicevano, a ragione, che ci sono due modi di affrontare la nostra umanità: scavando nel cielo o scavando la terra. Nuvole o vermi. Celeste o nero. Di norma tutti scaviamo il cielo perché solo i pazzi guardano in basso e si mettono a raspare.


Questa sorta di testimonianza e racconto collettivo è un desiderio di orrore che si morde la coda, una sorta di uroboro fatto di corpi e voglie che vorremmo non poter mai vedere ma che, allo stesso tempo, ormai ci prega di essere visti e questo è un bisogno che non ci sentiamo di negare. Lo spazio in cui sperimentiamo la nostra esistenza, il corpo e la carne che tutti i personaggi di Nefando percepiscono come sofferente, cerca di mescolarsi al linguaggio dell’impossibile, all’orrore e al mistero che forse potrebbe essere in grado di utilizzare una terminologia capace di dare forma a ciò che siamo davvero. La chiusura del romanzo di Mónica Ojeda, con un lungo monologo di Il Cuco che insieme alla lettera di Annelise in Mandibula è una dichiarazione d’amore all’ignoto, ci chiede proprio questo: se siamo davvero in grado di sopportare una visione, capaci, soprattutto, di vedere ciò che resta, o che riesce a emergere, una volta che spegniamo la luce.


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