Come a Santiago nel ’73

Le proteste cilene spezzate dal Covid-19 e il ritratto di un sistema in crisi in "Di perle e cicatrici" di Pedro Lemebel

«Sembra quasi il ’73», ha detto mio padre all’inizio della quarantena. Le strade vuote, forzatamente quiete, gli ricordavano le domeniche a piedi della crisi petrolifera. «Sembra quasi il ’73», avrà detto un padre o un nonno a Santiago del Cile. È in coda al supermercato come quando – erano gli anni del presidente Allende – si faceva la fila per comprare il pane o il latte condensato. Forse invece l’ha solo pensato, per non mescolare le immagini nella testa del bambino al suo fianco, perché in nessun modo pensi male di Allende, spintonato e caduto sulla via al socialismo. Perché non confonda mai il potere assoluto della natura con quello, arbitrario, dell’uomo: la pandemia non è guerra e la censura è ben più che una mascherina.

 

Mentre una polvere soporifera veniva cosparsa sulle città e sul mondo, le luci di Santiago si spegnevano, lasciando solo, e al buio, il generale Baquedano nella sua statua a cavallo



Mentre in Europa e negli Stati Uniti ha imperversato per mesi la retorica del nemico invisibile, il Cile non era in guerra neanche prima, a seguito delle proteste scoppiate lo scorso 18 ottobre. No estamos en guerra era lo slogan, perché nelle piazze, nonostante la guerriglia creata dall’esercito, non c’erano nemici intenzionati a conquistare e ribaltare, ma il paese stesso che si mobilitava per risanare sistema e mentalità. Stabilire un ordine che fosse realmente giusto e normale. Come la nuova normalità che tutto il mondo deve trovare adesso, nell’emergenza post-Covid. Intanto proprio il Covid in Cile ha rallentato quel risanamento sociale: chi era sceso in piazza si è dovuto chiudere in casa; qualcosa si era avvicinato appena, quando è scattato il distanziamento. Mentre una polvere soporifera veniva cosparsa sulle città e sul mondo, le luci di Santiago si spegnevano, lasciando solo, e al buio, il generale Baquedano nella sua statua a cavallo, in mezzo alla piazza che non si chiama più come lui. “Plaza Baquedano”, meglio nota come “Plaza Italia” e, dopo essere stata l’epicentro delle proteste, “de la Dignidad”: lo sa anche Google Maps, come a dire che è successo davvero.

E pensare che le proteste avevano condotto a un risultato concreto. Il 26 aprile i cileni avrebbero votato in un referendum per decidere se, e con quale tipo di assemblea, modificare la costituzione figlia di una violenza, la dittatura di Pinochet, lunga diciassette anni. Il referendum è stato rinviato a ottobre, ma ottobre non è lontano e ora il virus si accanisce sull’America Latina, il Cile smilzo è al terzo posto per numero di contagi dopo paesi ben più grossi come Brasile e Perù. Lo stato di catastrofe è stato appena prolungato di altri tre mesi e le vittime sono più di quelle dichiarate da un ministro della Salute, Mañalich, appena mandato a casa dal presidente Piñera, mentre il sistema sanitario è «molto vicino al limite»: un cauto eufemismo, per il presidente che chiamava guerra una manifestazione. Le proteste continuano online. Senza lacrimogeni, nelle case disuguali; senza violenza, ma con altre morti; con un ennesimo coprifuoco, come mesi fa durante le lotte in piazza e come nel ’73, come tutte le volte che il governo ha potuto rimpinzarsi di potere nella promessa della sicurezza.

 

Questo è un virus da ricchi che si accanisce sui poveri, sulle loro mancate difese, su chi non ha un lavoro che si possa fare dietro un computer, su chi lavora senza garanzie



Il Cile è uno dei paesi più ricchi dell’America Latina e uno dei più iniqui: la forbice della disuguaglianza, misurata dal coefficiente di Gini, è ben divaricata e non accenna a chiudersi, come succede altrove, dopo tasse, trasferimenti e spesa pubblica. È un paese che il pubblico l’ha dimenticato: non è vero che la malattia rende uguali. Dopo la Cina, il Covid ha messo in ginocchio per primi paesi come gli USA, in particolare New York, l’Inghilterra, le regioni settentrionali dell’Italia, il Sudafrica: questo è un virus da ricchi che si accanisce sui poveri, sulle loro mancate difese; su quanti non hanno case comode in cui restare, o ci restano con famiglie numerose, su chi non ha un lavoro che si possa fare dietro un computer, su chi lavora senza garanzie. E solo nello straniamento improvviso che abbiamo conosciuto quando la vita si è spostata dentro, ci siamo domandati che ne è stato – cosa ne sarà – di quella gente che affollava i marciapiedi, gli autobus e le metropolitane, e giustamente non poteva permettersi l’ennesimo aumento del costo del biglietto.
 

L’unica volta che la Metro straripò di passione cittadina fu durante una manifestazione per il “no” nel Parco O’Higgins. Allora le carrozze si riempirono di canti e grida e bandiere per il ritorno della democrazia […] Quella fu l’unica volta che la Metro prese vita, l’unica volta che attraversò la città come una lavagna dell’insoddisfazione, come un treno giocattolo sfuggito all’intoccabile vetrina, perché poi lo lavarono, lo lustrarono e lo riportarono alla sua fiammante ipocrisia veicolare.


Pedro Lemebel, scrittore e mito della scena artistica cilena, icona della liberazione sessuale e della critica sociale post-dittatura, tuona così contro il finto progresso della capitale in una delle settanta cronache che compongono Di perle e cicatrici, compilation di pezzi scritti per il programma Cancionero di Radio Tierra, già usciti in Cile in questa forma nel 1998 e pubblicati in Italia nel 2019 da Edicola Ediciones nella traduzione di Silvia Falorni. Bisognerebbe in effetti leggerlo a voce alta: è radiofonico, Lemebel, come un colpo di stato, la notizia che irrompe nelle case e sconvolge ogni ordine. L’ultimo discorso di Allende alla nazione è stato trasmesso per radio, dal palazzo presidenziale della Moneda dove è morto, suicida o no. La radio è un mezzo democratico, secondo Lemebel, non come la tv, uno schermo acceso su dove il potere vuole che si accenda.
Roberto Bolaño lo definisce il miglior poeta della sua generazione, pur senza dover scrivere poesie, coraggioso, perché sa aprire gli occhi nell’oscurità. Ma la vera forza di Lemebel non sta nell’aprire gli occhi. No, Lemebel gli occhi non li chiude mai, li tiene e ce li fa tenere spalancati. Per questo forse, nel leggerlo, si ha un senso di nausea, come quando si guarda qualcosa troppo intensamente. Come quando le madri ci dicevano, da bambini, di non applicarci troppo su un libro o un disegno, ché avremmo avuto mal di testa. Una preoccupazione antica, oggi che applicarsi è impossibile e mai guardiamo davvero ma scrolliamo, ci distraiamo, distogliamo lo sguardo. Siamo i vicini codardi, complici, silenziosi che spengono le luci per non essere coinvolti, «anzi, per essere anonimi spettatori del giudizio collettivo»: storia della ragazza alla moda stuprata dal branco, in un qualche isolato di Santiago, in ogni isolato del mondo.

 

Siamo i vicini codardi, complici, silenziosi che spengono le luci per non essere coinvolti: storia della ragazza alla moda stuprata dal branco, in un qualche isolato di Santiago, in ogni isolato del mondo



Lo stesso Bolaño scrive il suo Notturno cileno dopo aver letto una cronaca di Lemebel, pubblicata su «La Nación» nel 1994 e poi in questo libro: una cronaca sui cenacoli letterari della Dina in casa di Mariana Callejas, terrorista e scrittrice. Gli intellettuali, anche loro, facevano finta di niente, comodamente intontiti da quello status culturale e dall’alcol che offriva la Dina, mentre torture atroci avvenivano nella stanza accanto.
 

Forse potranno ricordare i fastidi per i vai e vieni del voltaggio, che facevano palpitare la luce e la musica interrompendo la danza. Forse non seppero mai dell’altra danza parallela, dove la contorsione del pungolo elettrico tendeva ad arco voltaico il corpo torturato.


Come si fa oggi a passeggiare nel Barrio Paris-Londres, così grazioso, così all’europea, se si pensa a cosa nascondevano le sue facciate. Se si pensa all’orrore che c’era dietro, e dentro, negli spazi domestici, come si fa oggi a rimanere in casa.
Un’altra sferzata all’intellettualismo ipocrita viene dalla cronaca sull’esilio “fru fru”: persino gli esiliati non furono tutti uguali, alcuni sbattuti in Messico o Cuba mentre altri, con più agganci e fortuna, poterono scegliere la propria ambasciata europea. Di questi ultimi, molti diventarono artisti o scrittori mentre «si sventolavano con un quotidiano cileno in un boulevard», e poi ritornarono con una certa aria internazionale, conoscitori del mondo, «indossando abiti di lino bianco e fumando la pipa, invadendo il panorama artistico della resistenza che, secondo loro, era un blackout culturale in cui non era successo niente». E non ci è forse familiare questa polemica ingrata, la retorica chic e immobile di chi chiama la pandemia opportunità?

Molti dei personaggi del bestiario di Lemebel sono legati da questo, in fondo, dalla voglia di proiettarsi fuori, rinnegando le origini, che li risucchia squallidamente dentro. E Lemebel ne parla con più compassione che condanna. Che tenerezza la Ceci, incoronata Miss Universo in posa accanto ad Augusto (Pinochet) e poi divenuta simbolo di una stupidità burlona sulla tv a stelle e strisce forse proprio per buttarsi alle spalle la parentesi reazionaria, quella donna il cui «tempo da sovrana è finito, così come la dittatura». Che tristezza il calciatore con la faccina da povero, Bambi, che doveva far fare bella figura al Cile. E il consumismo, che non si sa se è più forte nell’incanto del cibo spazzatura, «i locali della gola yankee che si sono stabiliti nell’ansia del masticare cileno», o nel quartiere Bellavista mascherato da bohème parigina, che nel fine settimana raggruppa poveracci e snob. Forse nelle bevute serali ci si dimentica per un attimo delle disuguaglianze, così evidenti alla luce del sole e dei neon («che coprono con il loro splendore la miseria che ammuffisce ai margini») sul Paseo Ahumada, la lunga via di Santiago citata per le sue vetrine e per le donne in vetrina, ovvero le “sirene dei caffè”, con le gonne corte per allietare le pause pranzo degli uomini, e che però davvero, perché no, che te ne fai del diploma, e poi sempre meglio che rimanere a ingrassare nel quartiere circondata da marmocchi.

 

Lemebel guarda dall’alto, per questo per lui la strana forma del paese è sempre così presente: uno strappo nella mappa, una serpe in letargo, una smorfia, un paese denutrito



Il Cile delle proteste di oggi è tutto lì, stretto e lungo come il Paseo Ahumada, dove il bambino guarda da lontano i colori dei gelati altrui ma sa che la mamma gli dirà di non insistere, che gli comprerà un ghiacciolo di quelli che vende la vicina. Il bambino «sa già di appartenere a quella folla conformista che guarda le vetrine contando le monete per la metro. Lui conosce la parola accontentati e non la capisce». Lemebel guarda dall’alto, cruento e lieve allo stesso tempo, come sorvolando sulla mappa dell’America Latina. Per questo per lui la strana forma del paese è sempre così presente: uno strappo nella mappa, una serpe in letargo, una smorfia, un paese denutrito, la cordigliera come cicatrice tra Cile e Argentina. Ha uno sguardo privilegiato e non giudicante perché, apertamente gay, è anche lui un emarginato. I suoi ritratti sembrano essere tutte cicatrici, ma un artista non sarebbe tale se non vedesse il bello, e solo un matto lotterebbe senza un sogno. Chi milita, chi protesta per forza vede una luce, una perla. Ecco infatti le cronache più malinconiche e umane, quella sullo spettinato Ronald Wood, crivellato nel mezzo di una protesta studentesca, o il messaggio d’amore all’orecchio incorruttibile della memoria, il ricordo dei morti che non possono neanche essere ricordati perché scomparsi nel nulla, riesumati ogni notte da «quel pantano senza indirizzo, né numero, né sud, né nome».

Il Cile non sa liberarsi del suo passato né vuole farlo. Lemebel ha ispirato tante voci, nell’attuale panorama letterario cileno, che spessissimo frugano nei ricordi sfumati di quando erano bambini o nelle testimonianze ovattate di chi c’era ma non ha visto o non ha detto tutto. Si dissiperà un giorno, e speriamo non serva una vera guerra, la nebbia costante sul Cerro San Cristóbal, la collina che domina Santiago. La vedevo in lontananza e non la capivo, il cielo tutt’attorno era azzurro. Ma – ora capisco – il sole non brilla su tutti allo stesso modo. Forse era lo smog della metropoli, la tossina di uno sviluppo malato. Chissà com’è quel cielo, adesso che la città si è fermata.

 

In copertina: Plaza Italia durante le proteste di ottobre 2019, Carlos Figueroa

 


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