Viva la libertà di Roberto Andò

con Toni Servillo, Valerio Mastrandrea, Valeria Bruni Tedeschi, Michela Cescon

Che l’italiano - spettatore e cittadino – riveda qui sul grande schermo, con familiarità e paura, ciò che ogni giorno (e già da tempo) è abituato a vedere e a vivere su di sé è presto detto. Lo spettacolo a tinte grottesche che Andò offre ben racconta la crisi politica in cui oggi viviamo e l’ancor più spaventosa crisi etico-spirituale di chi la (ci) rappresenta. Ma del resto, come afferma Giovanni: "È la paura la musica della democrazia".
Tratto dal ben accolto romanzo dello stesso regista, Il trono vuoto, edito da Bompiani nel 2012, Viva la libertà narra la storia di Enrico Oliveri (Toni Servillo), segretario del principale partito d’opposizione, che, ormai in profonda crisi dopo l’ennesima contestazione in piena campagna elettorale, sceglie la via della fuga: chiede ospitalità a Danielle (Valeria Bruni Tedeschi), un’amica che vive a Parigi e che lavora nel cinema come segretaria di edizione, peraltro sua vecchia fiamma di gioventù. Gli unici a sapere dell’accaduto sono la moglie Anna (Michela Cescon) e il suo segretario Andrea Bottini (Valerio Mastrandrea), che si appellano disperatamente al fratello gemello Giovanni (Oliveri), in arte Ernani, filosofo, da poco uscito dal manicomio. Questi, riluttante della vacuità e della complicità del tacere - come affermerà nella conferenza del suo esordio – prende in mano la situazione, sostituendo il fratello per gioco o per follia, e col suo fare poetico e diretto fa risalire in breve tempo le quotazioni del partito nello stupore generale: “l’unica alleanza possibile oggi è con la coscienza della gente”.

Andò conosce il cinema e lo utilizza a strumento di lettura critica della traballante situazione politica, non sempre, però, in maniera impeccabile ed efficace. Fin troppo esplicito il filo della simbologia, a tal punto da risultarne paradossalmente privo, non può non rivelarsi precario nel battere il terreno inevitabile dell’ovvio.
Lo sdoppiamento di un ‘uomo senza qualità’ – diversi i richiami a Musil – che intraprende lontano, via dal suo mondo, un percorso intimo, recuperando nostalgiche passioni per il cinema, apre le porte al confronto, come dinnanzi a uno specchio, tra il peregrinaggio di una cattiva politica e un ideale di rare bellezza e onestà intellettuali. Giovanni cita Brecht e gli haiku giapponesi, scende per le scale sereno, canticchiando sulle note dell’overture de La forza del destino di Giuseppe Verdi. Enrico sale a fatica in una sequenza parallela: muto, resta al telefono in silenzio, in attesa d’esser riconosciuto. “È la mia questa figura di spalle che se ne va nella pioggia”, dice Giovanni.
Alla luce di tutto questo, che il percorso di ricostruzione interiore sia però relegato al semplice incontro con l’amica Danielle e la sua famiglia – il marito è un noto regista, molto apprezzato da Enrico - e al fortuito trovarsi fra le maestranze del cinema (in qualità di aiuto attrezzista) non convince del tutto, forse disturba; fin troppo facile la dichiarazione d’intenti circa la metafora degli ingranaggi della finzione, già sperimentata altrove.

Tuttavia sarebbe un errore leggere il film solo in analogia alla dimensione politica. Le intuizioni migliori, seppur non del tutto svincolabili dalle tematiche principali, sono di certo ascrivibili a un cinema puro e lasciano il giusto respiro a sequenze di forte rilievo estetico e narrativo come quella nella Sala dei Mappamondi – come non scorgere le nuances de Il Grande dittatore di Chaplin? – o come quella della danza a piedi nudi con la Merkel.
Gradevole e divertente, il film offre diversi spunti, pur lasciando per strada qualcosa, spesso lungo le deboli e carenti sotto-trame e in qualche cliché presente per lo più nei personaggi marginali. Gli intenti, nobili e quanto mai condivisibili, lasciano per una volta da parte il disincanto in favore di una sincera speranza, alla quale basta – ed è già tanto così, se ad altro non sembra lecito ambire - un’imitazione perfettibile dell’ideale romantico della politica, come la scena finale lascia supporre. Il film apre dunque a quel cittadino-spettatore una nuova, comune via d’uscita. S’insinua il dubbio però che, pur grazie ai riconosciuti meriti del regista, tanto (troppo) sia comunque affidato allo straordinario Servillo, animale raro (da preservare) in un cinema italiano convalescente, che attende ancora di ritornare grande.


ITA 2013 - Comm. Dramm. 94' ***


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