Vittorio Alfieri

Asti, 16 gennaio 1749 – Firenze, 8 ottobre 1803

Alla carriera militare Vittorio Alfieri preferisce i viaggi; leggendo Plutarco s’avvicina alle lettere. A margine d’un amore torinese, scrive una tragedia, Antonio e Cleopatra, che secondo lui riceve più applausi del giusto: per scrivere qualcosa di degno davvero, s’immerge negli studi, passa in Toscana per la lingua (1776) e qui conosce Luisa Stolberg, contessa d’Albany – sarà sua perenne compagna. Allora, rimettendo ogni proprietà alla sorella, rompe con l’antiquata aristocrazia piemontese cui appartiene e quindi col modello del letterato cortigiano: fonderà una personalità d’artista non pre, ma protoromantica sul dramma d’una volontà indomita di titano, che nutre soprattutto diciannove Tragedie in endecasillabi sciolti (capolavoro il Saul), tese tra l’odio dei tiranni – esecrandi anche se éclairés – e l’amore delle libertà repubblicane; nelle Satire vorrà contestare istituzioni, strutture sociali, costumi e pensiero del tardo Illuminismo, mentre col Misogallo documenta l’insofferenza per l’accento troppo francese della cultura coeva e, perciò, quell’ansia di patria che infatti colloca Alfieri – mito già del Foscolo – tra gli ispiratori delle generazioni risorgimentali. Tuttavia, aldilà di Rime mobili ma sostanzialmente petrarchesche, va alla straordinaria Vita scritta da esso il merito d’aver sinceramente restituito la complessità dell’indole alfieriana, tra entusiasmi ideali e ironia, violenza appassionata e magnanimità, furore e malinconia. 

 

Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli

 

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