Vermeer e Hopper, due cavalletti con obbiettivo

La pittura e la sua ispirazione fotografica, musa e impressione della realtà

Jan Vermeer ed Edward Hopper, solo a nominarli, appaiono come due pittori assai lontani, dal punto di vista cronologico – l’uno visse nel Seicento, l’altro a cavallo tra Ottocento e Novecento – e come tecnica e stile dei quadri, ma se solo osserviamo con occhi più attenti i loro dipinti sarà possibile notare un’ispirazione comune, la fotografia, musa concreta per l’Americano, impressione dei contemporanei per Vermeer. Davanti ai quadri dei due artisti, infatti, si ha la sensazione di stare davanti a uno scatto ben riuscito, accomunati come sono dalla visione di scorcio delle scene che vanno a ritrarre, dall’ apparente inconsapevolezza del soggetto, proprio come una persona a cui viene fatta una foto di nascosto, e dall’uso consolidato della camera oscura per Vermeer e della macchina fotografica per Hopper. Certamente, le differenze nell’approccio sono rilevanti, senza contare le questioni stilistiche. Il primo, tormentato da difficoltà economiche, dipinge soggetti ordinari, di genere, servette impegnate nelle pulizie e vedute della città di Delft, dove viveva. Tutte rappresentazioni adatte ad abbellire i salotti dei magnati della città, dai quali dipende fortemente sia la sua attività di commerciante d’arte e di pittore, e che quindi influenzano necessariamente la sua volontà artistica. Hopper impugna invece il pennello da realista, e realista definirà sempre la sua pittura, la quale, più che deliziose ragazze e vedute di città, si concentra sulla solitudine della persona nel XX secolo esprimendo, attraverso gli occhi dei suoi soggetti, l’angoscia per la spersonalizzazione della società e per l’alienazione dell’individuo. Due obbiettivi ben diversi, quindi, e anche una tecnica: se Vermeer si proclama alfiere dei colori ad olio (particolarmente adatti a dipingere in un ambiente umido come quello delle Fiandre) e della pennellata pointillè (cioè l’accostamento di piccoli punti sulla tela), Hopper, pur dipingendo anch’egli con colori ad olio, usa pennellate più ampie e decise.

Sia nella Merlettaia di Vermeer che nella Ragazza alla macchina da cucire di Hopper, in cui il soggetto è una giovane donna che cuce, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a una fotografia. Non dal punto di vista visivo, è evidente che ci troviamo di fronte a un quadro, tuttavia intuiamo che le pitture hanno uno spirito fotografico, semplicemente perché svelano scorci di stanze con ragazze occupate a cucire, del tutto inconsapevoli della presenza del pittore che le sta ritraendo, e la luce e i colori concorrono a dare quest’impressione. Nella prova di Vermeer la fanciulla, ben vestita e pettinata, oltre a denunciare l’appartenenza alla buona borghesia dimostra, con la sua espressione grave e concentrata, tutta l’accuratezza che sta impiegando per portare a termine il merletto. Ricamo e cucitura erano, per le donne del periodo, attività preminenti della vita quotidiana, soprattutto per le calviniste, che vedevano nell’attività domestica, e in particolare nella cucitura, la preservazione dalla contaminazione con l’immoralità del mondo, tanto che spesso, nei trattati di matrimonio (un’altra istituzione a difesa della moralità) veniva citato il proverbio di Salomone secondo cui «la donna virtuosa si procura lana e lino, stende la sua mano alla conocchia e gira il fuso con le dita». Anche l’ambientazione stessa del dipinto, una stanza spoglia con un funzionale tavolo da ricamo, indica la semplicità di un ambiente che vuol essere in linea con la moralità irreprensibile della giovane padrona di casa. Vermeer quindi fotografa non solo l’attività quotidiana di una ragazza, ma anche un ideale morale particolarmente forte nella società che lo circonda.
 

In Vermeer l’ambientazione stessa del dipinto, una stanza spoglia con un funzionale tavolo da ricamo, indica la semplicità di un ambiente che vuol essere in linea con la moralità irreprensibile della giovane padrona di casa


In Hopper la prima cosa che ci colpisce è la diversa tecnica: pennellate più spesse e vaporose, derivate dall’impressionismo, e l’uso di una scala cromatica ben più ridotta di quella dell’Olandese – Vermeer spendeva vere e proprie fortune per procurarsi colori brillanti come l’azzurro o il giallo, che conferivano ai suoi dipinti un cromatismo vivace –, basata sui  toni del marrone e dell’arancio, ad eccezione della macchia bianca del vestito della ragazza e della stoffa che sta cucendo. Non troviamo qua uno scatto di compita fanciulla borghese, bensì quello di giovane donna dai capelli arruffati, forse ancora in camicia da notte, inondata dal una luce pulita e intensa, probabilmente quella del tardo mattino. Il cucito non è decisamente l’attività principale della giovane donna, da svolgere severamente, ma probabilmente qualcosa di necessario da fare quando un abito si strappa o c’è un bottone da ricucire, tanto più se si pensa alle attrattive sociali dei roaring twenties. L’interno è piuttosto ordinario: il cassettone, la macchina da cucire e la sedia sono in linea con lo stile predominante, e la stessa ragazza in sé non mostra niente di straordinario, confermando lo stile realista del pittore, interessato a catturare col pennello vari momenti della vita quotidiana.

E anche se entrambi i pittori preferivano nettamente la pittura d’interni, i loro paesaggi si dimostrano altrettanto “fotografici”. Sia Vermeer che Hopper, infatti, trattano l’ambientazione esterna come un pretesto, per così dire, per inserire uno o più scorci di vita quotidiana che diventino il centro della composizione, e che sono contraddistinti, ancora, dall’inconsapevolezza dei soggetti di essere ritratti e dall’aderenza al dato reale di ciò che dipingono. I celebri Stradina di Delft di Vermeer e Nighthawks, tradotto sia in Nottambuli che in I falchi della notte, permettono di approfondire la più grande differenza fra i due: il grado di introspezione psicologica. Da pittori “fotografici” non ci si aspetterebbe una grande ricerca psicologica – la fotografia è spesso considerata istantanea di una realtà, così com’è in quel momento, in un qui ed ora che colpisce per la sua bellezza e intensità, o potenza dell’evento immortalato, ma raramente espressione di sentimenti e emozioni. Vermeer si dimostra fedele alla sua impostazione di pittore di genere, arricchendo la visuale della stradina con donne, di nuovo, impegnate nelle occupazioni domestiche, confermando il suo ideale di vita con un’altra fotografia di ambientazione diversa, dove le protagoniste non tradiscono alcuna emozione o idea ma si lasciano rappresentare come freddi modelli di vita. Ma Hopper si spinge oltre, lasciandoci un’istantanea della solitudine e della desolazione che colpisce gli abitanti delle grandi città, soprattutto di notte, quando i pub si svuotano e il rumore del traffico si fa sempre più raro.  Se osserviamo attentamente il dipinto di Vermeer notiamo che il fulcro della strada di Delft sono le donne, anche se in un primo momento possono apparire in secondo piano, e il messaggio di operosità e moralità che esse portano, e non è un caso che il dipinto sia illuminato dalla luce del mattino, il momento della giornata più incentrato sul lavoro. La splendida casa di mattoncini rossi e bianchi e i tipici passaggi da un edificio all’altro diventano così una scenografia, dove il lavoro domestico quotidiano va in scena. Nella prova di Hopper, invece, non c’è traccia di vitalità: la strada è vuota, il negozio di fronte al pub mostra una vetrina scarna, e lo stesso pub presenta un bancone vuoto, adornato solo con le saliere e pepiere e i dispenser di tovaglioli, forse in attesa di essere riempito con le bevute degli avventori, solo tre: una coppia e un uomo di spalle, dai volti apparentemente impassibili, ma che a una seconda occhiata tradiscono la solitudine dell’uomo del ventesimo secolo. Lo stesso Hopper, riguardo al quadro, dichiarò: «Ho dipinto il mio modo di vedere una strada di notte, ma non mi ero prefissato di farla sembrare vuota e solitaria, anche se, col senno di poi, mi sono accorto di aver inconsciamente dipinto la solitudine di una grande città».

Ma perché questi due artisti erano così tanto attratti dagli scorci di vita quotidiana? In Vermeer c’era certo l’interesse economico, ma se si fosse trattato solo di denaro il pittore avrebbe dipinto per sé opere di soggetto mitologico o religioso, cosa che non è avvenuta: c’è l’amore per l’arte delle piccole cose dietro cui si celavano i valori calvinisti di moralità e compitezza. Hopper porta invece sulla tela ciò che vede attorno a sé, non gli interessa trascenderlo o rappresentarlo in modo astratto. Su di lui le proposte delle avanguardie non sortiscono nessuna reazione, ma rimane fedele ai maestri dell’impressionismo, che si ispiravano alla fotografia proprio per la sua capacità di catturare un momento, che tentavano di riprodurre sulla tela. Un filo conduttore, questo della fotografia, conferito a posteriori e sicuramente mai immaginato dai due pittori. Entrambi, tuttavia, si sono ascritti il merito, in epoche diverse, di tentare di immortalare la realtà a loro più vicina, con una pittura in contrasto con quella che, tanto nel XVII quanto nel XX secolo, andava per la maggiore: al frastuono del Barocco e delle Avanguardie i due contrappongono le loro tele semplici, silenziose, e con soggetti ordinari ma non per questo meno affascinanti.


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