Uomini e demoni
Le incursioni dell’impossibile nella tradizione nipponica tra la raccolta Storie giapponesi di paura e il cinema horror
Una delle prime cose che saltano all’occhio dell’ultima raccolta di Lafcadio Hearn, pubblicata da Rizzoli con il titolo Storie giapponesi di paura. Yokai, Yurei, Obake e altre creature spaventose, è la cura con cui queste storie di mostri e spettri sono state scelte e raccolte nell’arco di centinaia di anni. Da quando cominciano ad essere riportate in forma scritta, come le leggende e i miti inseriti nel Kojiki, una delle prime raccolte in lingua giapponese, al loro utilizzo nelle forme teatrali del Nō e Kabuki, fino a quando Lafcadio Hearn, giornalista e scrittore, le comincia a selezionare e tradurre all’inizio del Novecento. Da qui alle raccolte contemporanee come Storie giapponesi di paura, che con diversi criteri scelgono cosa raccontare dopo secoli, in mezzo a miti, leggende o eventi soprannaturali di vita quotidiana.
Questa raccolta, curata da Maria Gaia Belli e tradotta da Andrea Cassini, è accompagnata dalle illustrazioni di Elisa Menini, una scelta che rimanda al binomio in cui queste narrazioni già nelle loro prime forme venivano pubblicate, accompagnate da raffigurazioni grafiche di quel mondo fluttuante. Del resto proprio la stampa artistica ukiyo-e portata in Europa nell’Ottocento rompe la classica prospettiva delle immagini stabilita in Occidente: il mondo è bidimensionale ed è per l’appunto fluttuante, evanescente. Così coesistono il mondo dei vivi e quello dei morti nel folklore giapponese: non c’è una separazione netta, una barriera. Il mondo quotidiano è permeabile alle incursioni dell’impossibile. Nella raccolta due storie lo raccontano bene. All’interno di In una tazza di tè un servitore scorge nel riflesso del tè che sta sorseggiando il volto di un bellissimo samurai. Inquieto, l’uomo ingoia il tè. Quella notte il samurai comparso nella tazza si presenta al cospetto dello sventurato e una volta cacciato invia poi i suoi servitori.
Senza attendere il resto del discorso, Sekinai scattò in avanti, la spada gia in mano, e attaccò gli sconosciuti mulinando a destra e sinistra. Ma i tre uomini schizzarono sulla parete dell’edificio vicino, svolazzando su per il muro come ombre, e poi…
Il racconto si interrompe ma, come Hearn suggerisce: «Io riesco a immaginare diversi finali possibili, ma nessuno tra questi soddisferebbe l’immaginazione di un occidentale. Preferisco lasciare che il lettore provi a decidere da solo che conseguenze comporti l’ingoiare un’anima». Un fatto che può capitare, insomma, in un mondo dove non ci sono ostacoli che impediscano l’incontro tra vivi e morti. Come nel racconto Una questione di usanze, in cui un sacerdote buddhista narra di quando, ospitato in un tempio, scova nel cuore della notte lo spettro di un parrocchiano da poco defunto recitare preghiere. La monaca il mattino seguente non è assolutamente turbata dal fatto. Come suggerisce il titolo stesso, è una questione di usanze.
I racconti della luna pallida d’agosto (1953) di Kenji Mizoguchi
Il mondo dei demoni e dei mostri giapponesi è quindi intrecciato e ben innestato nella vita quotidiana e il concetto di orrore può assumere contorni abbastanza sfumati. Se si prende per buona la definizione secondo cui l’orrore è qualcosa che causa ribrezzo, timore o repulsione alla comparsa di un determinato soggetto, ci accorgiamo che le cose si complicano. Questo tipo di immaginario infatti è quello che va a creare l’estetica del cinema horror giapponese in cui un mostro, una creatura, non è semplicemente utile a creare sbigottimento o paura, ma cela sempre qualcos’altro.
La trasgressione è un concetto chiave: la cultura giapponese, fondata su rispetto e gerarchia, ha provato a mettere in dubbio queste regole nella narrazione orrifica
Pesantemente influenzato dalle forme teatrali del Nō e del Kabuki, il cinema horror nipponico pesca fin dagli albori a piene mani dal contenitore di miti e leggende riportate anche da Hearn. Del resto proprio in questi due tipi di spettacolo, insieme al Bunraku, ovvero lo spettacolo dei burattini, erano già state trasposte molte storie che si rifanno spesso ad archetipi: l’amore maledetto, la donna vendicativa, la trasgressione delle regole che conduce alla punizione e all’infestazione da parte di spettri malevoli. La trasgressione è un concetto chiave che si ripercuote anche nella visione moderna. La cultura giapponese, fondata su un sistema che prevede rispetto, un rispetto che si basa su una gerarchia assai rigida, ha provato a mettere in dubbio queste regole nella narrazione orrifica. Soprattutto dal secondo dopoguerra, con l’occupazione, periodo nel quale il Giappone è alla ricerca di un’identità nazionale e si trova di fronte a una frenetica modernizzazione.
Nei primi anni Cinquanta due pellicole dimostrano la stratificazione di mitologie, archetipi e timori del proprio paese. La prima è Godzilla (1954) di Ishirō Honda. La creatura, che inaugura tra l’altro il filone delle pellicole dedicate ai kaijū, potrebbe ricordare a un primo impatto diverse creature mitologiche, oppure i grandi draghi delle stampe giapponesi. Ma Godzilla è, prima di tutto, l’incarnazione della paura atomica e la dimostrazione di quanto fragile sia l’equilibrio tra l’uomo e la natura. È interessante inoltre notare come il tempo che il kaijū trascorre sullo schermo è risibile in confronto alle altre vicende, tra cui la storia d’amore tra Emiko, figlia del paleontologo che si occupa delle ricerche su Godzilla e già fidanzata con un altro uomo, e un ufficiale di nome Ogata. La relazione sembra rompere la verticalità e il sistema di doveri del Giappone, andando a cambiare lo status quo.
L’altro titolo è I racconti della luna pallida d’agosto (1953) di Kenji Mizoguchi, la cui trama è tratta dalla raccolta di Ueda Akinari dal titolo Racconti di pioggia e luna. La pellicola è interessante perché vi compaiono diversi degli archetipi delle storie giapponesi. I due uomini protagonisti, un vasaio e suo cognato, contravvengono infatti a regole base della società nipponica: il rispetto per la propria famiglia, l’accettazione del proprio destino, la volontà di scalare le classi sociali. Uno di loro nelle sue avventure incontra Lady Wakasa, una donna bella e misteriosa che finisce per rivelarsi uno spettro. Come nella storia tratta dalla raccolta di Hearn Mimi-Nashi-Hōichi , in cui un suonatore di biwa riesce a salvarsi a una corte spettrale che richiede i suoi servigi ricoprendo il suo corpo di preghiere – tranne le orecchie, che infatti finiranno per essere mutilate dagli spettri –, così il protagonista sfugge all’incanto di Lady Wakasa grazie a un monaco che traccia su di lui i sutra. Ma nella raccolta si ritrova anche la storia d’amore tra un umano e una donna fantasma, per esempio quella di Un karma passionale, in cui la giovane O-Tsuyu non riesce a rassegnarsi alla morte e continua a fare visita al samurai amato. Anche in La riconciliazione un samurai torna a casa dopo molto tempo e solo al mattino scopre che la moglie, che aveva abbandonato e con cui passa la notte, è in realtà solo uno scheletro.
The Ghost of Yotsuya (1959) di Nobuo Nakagawa
Le identità che faticano a trovare un ruolo nel mondo che si modernizza sono anche quelle delle pellicole degli anni Cinquanta e Sessanta etichettabili come Edo Gothic, in cui samurai trasgrediscono ai propri principi, come in The Ghost of Yotsuya (1959) o il film cult Onibaba – Le assassine (1964) di Kaneto Shindō in cui l’archetipo della donna offesa e quello della madre vendicativa sono ben espliciti e anticipano pellicole del cinema horror contemporaneo. Queste rimandano ovviamente anche a storie della raccolta come Furisode, in cui un oggetto, la veste a maniche lunghe del titolo, conduce qualsiasi persona che la possieda e la indossi alla morte, fino a causare un intera catastrofe quando si cerca di darle fuoco.
I tizzoni prodotti dall’incendio piovvero sui tetti del circondario, e nel giro di breve tempo l’intera strada era in fiamme. Poi si alzo un vento, proveniente dal mare, che propago la devastazione nelle strade vicine; il rogo si allargo cosi di strada in strada, di distretto in distretto, fino a divorare quasi l’intera città.
Allo stesso modo la maschera demoniaca che in Onibaba la madre utilizza per terrorizzare la figlia prende possesso della donna e finisce per ucciderla. Ma la tematica predominante è quella della madre violenta, della maternità mostruosa. Donne mostruose e capaci di trasformarsi si trovano anche nelle pellicole pinku eiga, ovvero pellicole dal contenuto erotico degli anni Sessanta, soprattutto in quelle di sottogenere horror, come per esempio un altro film di Kaneto Shindō, Kuroneko (1968), in cui le due protagoniste, violentate e uccise da un gruppo di samurai, si tramutano in bakeneko, gatti demoniaci che si prenderanno la loro vendetta.
Appare chiaro come, nell’evolversi e nel tramandarsi di queste narrazioni, le colpe si facciano sempre più collettive. Le protagoniste di Kuroneko non puniscono solo i samurai colpevoli, ma scaricano la loro ira su chiunque. La stessa cosa accade negli horror più recenti come Audition (1999) di Takashi Miike, che vede la sua protagonista trasformarsi da donna ideale, silenziosa, efficiente e rispettosa in una ragazza vendicativa che sovverte addirittura l’immaginario tipico della pornografia sadomasochistica giapponese: è il protagonista che a fine pellicola viene torturato a morte e che si trova di fronte una persona del tutto lontana dalla figura che aveva idealizzato.
Lo stesso Ring (1998), uno dei più noti film horror giapponesi con tanto di remake americano in cui la protagonista Sadako cambia nome in Samara, ci propone rimandi ai racconti di Hearn. Nel film di Hideo Nakata sono presenti le donne vendicative come nel racconto La promessa infranta, in cui il fantasma di una donna tormenta la nuova moglie dello sposo, o La leggenda di Yurei-Daki in cui una giovane madre sfida le forze soprannaturali e in questo modo perde il figlio in modo assai cruento. Allo stesso modo Shizuko e Sadako, due donne dotate di poteri paranormali, restano vittime della società che le ghettizza e le condanna, ma Sadako, vittima duplice a causa della madre assente, torna con l’obbiettivo ben prefissato di prendersi la sua vendetta, che ricade su chiunque visioni il VHS maledetto, con sembianze assai simili a quelle delle donne di cui sopra, come la moglie di La promessa infranta:
E il rintocco della campanella intanto era vicino, sempre piu vicino… ah! e come ululavano i cani! Poi, impalpabile come un’ombra, una donna scivolò nella stanza – anche se tutte le porte erano chiuse, e tutti i pannelli intatti: era vestita con un sudario e aveva una campanella da pellegrino in mano. Era priva di occhi, perche era morta da tempo, e i capelli sciolti le spiovevano sopra la faccia.
Lo spazio domestico viene invaso, la società viene invasa. Gli orrori di un tempo continuano a infiltrarsi nel mondo degli umani e proliferano, senza barriere tra i mondi. E in epoca moderna la coesistenza con l’impossibile diviene quasi obbligatoria. Del resto ce lo dimostra proprio l’ultimo film con protagonista Godzilla. In Shin Godzilla (2016) di Hideaki Anno c’è un vero e proprio ritorno alle origini del kaijū, ma adesso Godzilla non incarna più il precario equilibrio uomo-natura, ma la farraginosa politica nipponica, la sua comunità ancora ferma su rigidi meccanismi, e gli attimi finali della pellicola, in cui esseri umanoidi fuoriescono dal corpo stesso della creatura, rivelano quanto il confine tra soprannaturale e umano sia infine praticamente nullo, ancora una volta.
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