Raccontare l’odio e trovarci il vuoto

Intervista a Paolo Gamerro, autore del romanzo Il libro nero dei brutti edito da Scatole Parlanti

Qualche settimana fa mi è capitato sotto gli occhi un titolo: Il libro nero dei brutti. Speravo fosse un romanzo horror e sono stata accontentata. Ma in realtà il romanzo di Paolo Gamerro uscito a maggio per Scatole Parlanti, giovane casa editrice del Gruppo Editoriale Utterson, è situato in una zona liminale tra l’horror puro e nerissimo e una storia a tratti comica ma dolorosa. La storia è quella di un gruppo di incel, termine che indica l’involuntary celibate. Le voci di questi quattro ragazzi vergini, pieni di odio, trapelano dal forum che frequentano e infettano poco a poco la società in cui vivono, in una narrazione sempre più allucinata e colma di spettri.  

Ho contattato Paolo via mail per fargli qualche domanda, freschissima della lettura delle storie del gruppo di incel riportate sulle pagine del suo romanzo. Volevo parlare di un orrore incorporeo ma dettagliato e del fatto che il vuoto è parte integrante, e il peggior nemico, di ogni fanatico. 

Mi sono avvicinata a Il libro nero perché ho visto che sui social lo presentavi come romanzo horror. Probabilmente, però, è qualcosa di più. Come lo racconteresti, e come sei arrivato a questa storia?
Il libro nero dei brutti lo paragono al primo livello di un videogioco obsoleto, dove compaiono costantemente gli stessi scenari e gli stessi personaggi. La grafica è minimale, approssimativa, e i suoni sono in 8 bit. Non si scappa dal livello 1, si muore sempre prima di passare a quello successivo. È un romanzo che di “storia” ha ben poco, ho voluto dare spazio alle atmosfere, alle sensazioni, ai pensieri distorti delle strane figure che lo popolano. La storia non è nelle pagine, se la fa il lettore nel cervello.
 

Il libro nero dei brutti lo paragono al primo livello di un videogioco obsoleto [...] Non si scappa dal livello 1, si muore sempre prima di passare a quello successivo


Il romanzo si incentra sulla figura degli incel, un neologismo che indica l’involuntary celibate: un ambiente caratterizzato da odio, misoginia. Nel regno degli incel vige la teoria che tutte le relazioni affettive si basano principalmente su tre aspetti: LookMoneyStatus. Un universo di cui certamente si è sentito parlare anche in diversi fatti di cronaca, eppure io non lo conoscevo bene. Hai fatto delle ricerche? Ti sei avventurato nel mondo incel per scrivere il romanzo?
Non mi sono avventurato nel loro mondo. Ho letto qualche articolo e visto un paio di video e da lì ho attinto parte della loro terminologia, per il resto ho inventato tutto. È un testo sull’odio (verso gli altri ma soprattutto verso se stessi), sulla solitudine, sulle ossessioni. Nel libro si piange tanto, ci si fa del male, ci si crogiola nel dolore. D’altra parte è anche vero che esistono momenti farseschi, surreali, quasi come se lo scrittore si prendesse gioco del mondo che sta disegnando, passando dal drammatico al ridicolo in poche righe.

Il mondo creato da questi ragazzi è apocalittico, un universo nerissimo regolato però da un sistema di regole e un linguaggio ben preciso. È interessante che tu abbia costruito un romanzo del genere, che va a finire in luoghi folli e caotici, partendo da un sistema che ha precisi punti di riferimento. I personaggi hanno termini volti a designare tutto ciò che li circonda e sono spinti in maniera costante a compiere determinate azioni.
Il loro mondo è una gabbia dalla quale non si scappa e probabilmente i personaggi non sanno nemmeno di essere prigionieri. Al lettore vengono fornite poche informazioni sullo stato delle cose, sull’identità delle figure ambigue che entrano ed escono di scena seguendo percorsi oscuri, quasi indecifrabili. Ho tentato di creare uno scenario da incubo, un sistema governato da una presenza nera nascosta in un loop di morte.
 

«Giorno dopo giorno, la bruttezza è una malattia che mi smangia la faccia e mi fa brutti i polsi, perdo capelli e se mi arrabbio me li strappo a ciocche fino a farmi sanguinare la testa. Ludo dice che è possibile, ma lui allo specchio non si guarda nemmeno più, esce di casa soltanto per portare fuori il cane e stop»


Il libro nero dei brutti gioca con le ossessioni, un po’ come fa Bret Easton Ellis con quelle dei suoi protagonisti. Alla fine non sono semplici ossessioni che vanno a finire nel vuoto, ma vere e proprie manie di controllo. Questo, almeno, è un riferimento che ho trovato io. Hai avuto altri spunti letterari o cinematografici?
Bret Easton Ellis è per me uno scrittore importante, che ha avuto un effetto probabilmente decisivo sul mio immaginario e sul mio modo di raccontare le storie. Lavorando a questo romanzo, però, non ho pensato a lui. Ho preso spunto dalla realtà, ho raccolto alcuni accadimenti e ho tradotto le mie suggestioni scrivendo.
 

Il loro mondo è una gabbia dalla quale non si scappa e probabilmente i personaggi non sanno nemmeno di essere prigionieri


La contraddizione non è solo tra reale e non, ma si viene anche a creare tra lettore e incel: ci si avvicina a loro, ci si allontana disgustati ma sempre consapevoli che tutto questo è vicinissimo al reale, quindi si cerca comunque di comprenderli. Crei, insomma, un bel cortocircuito. 
Credo che alcune figure del romanzo ci possano fare paura perché apparentemente sono persone comuni, senza particolari segni distintivi. Potrebbero essere i nostri vicini di casa o le persone sedute di fianco a noi in posta. È entrando in loro che troviamo il “nero”, il pensiero deviante e contorto. 

Narrare la rete non è facile, si rischia di cadere in situazioni macchiettistiche o di stagnare in una storia banale. Come ti sei mosso al riguardo?
Con naturalezza, lavorando di immaginazione, anche perché non ho mai interagito in un forum e a malapena sopporto i social media. Ho letto tanto sulle comunità virtuali quando frequentavo l’università, forse tutti quei libri sono serviti a qualcosa.

L’identità degli incel viene scomposta e ricostruita: alla fine dovrebbero affrontare diversi tipi di presa di coscienza. Che sentimento hai provato nei confronti di questi personaggi?
I personaggi sono dei burattini, non credo che affrontino nessun tipo di presa di coscienza. Boy forse è l’unico che sembra distaccarsi dal gruppo, ma probabilmente è un pupazzo come tutti gli altri. Vorrebbe cambiare ma non ci riesce, rimane sempre fermo al punto iniziale, anche se apparentemente segue un suo percorso. Di fatto, però, brancola sempre nel buio. 

Il vuoto nel libro è il cuore di ogni cosa, eppure gli incel, e tu narratore, ci sguazzate dentro. 
Il vuoto nel libro vince, assolutamente. Riempie i personaggi e le loro parole, così come i luoghi in cui si svolge la vicenda. Anche i colori che ho usato rimandano a un senso di perdita e di vuoto. Boy, il protagonista, è fondamentalmente un essere vuoto, cerca di uscire ma non ce la fa, mentre gli altri personaggi sono ridotti ad avatar, nickname, sembrano quasi personaggi di un fumetto, fanno sempre le stesse cose, vanno negli stessi posti, non si scollano dal malessere perché probabilmente ci provano gusto. 

Hai pubblicato con Scatole Parlanti, che è una realtà molto interessante. Come sei arrivato a questa casa editrice? 
Conoscevo già gli editori, perché il mio precedente romanzo, Sbiadire [2017, n.d.r.], è stato pubblicato da Augh!, che è una casa editrice affiliata a Scatole Parlanti. All’inizio, avevo pensato questo libro con uscite a puntate, illustrate su Verde Rivista. Però poi non ero tanto sicuro di tenere agganciato il lettore (sarebbe dovuto uscire a puntate mensili e l’eccessivo spazio temporale avrebbe interrotto il suo coinvolgimento emotivo).

In conclusione, che lavoro di editing è stato fatto sul testo? 
A mio avviso un buon lavoro, il testo non è stato “rimaneggiato” ed è rimasto fedele alla bozza che avevo mandato.


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