Per un pugno di euro

La scuola in balìa della burocrazia. Il governo in balìa di Renzi. L’Italia in balìa del governo

Litterae non dant panem. È questo il colto leitmotiv cui praticamente ogni governo ha aderito negli ultimi anni, quasi come se fosse imprescindibile. E che ha legittimato molte delle sforbiciate disinvolte destinate alla scuola e all’università. Sforbiciate che si sono sempre tradotte in tagli lineari. Sempre miopi, sempre inutili. Tagli che sono stati una costante extrema ratio per una perenne emergenza. Eppure, questa volta pareva diverso. Sembrava quasi che finalmente si potesse fare a meno di infierire incoscientemente sull’istruzione e sulla ricerca. «Mi dimetto se dobbiamo fare dei tagli alla cultura, alla ricerca e all’università», aveva promesso con un sorriso il premier Letta. Ma l’insana passione per le cesoie ha avuto il sopravvento, incontenibile. E il Ministero dell’Economia, con una nota, apparentemente senza preavviso, ha formalizzato la richiesta di restituzione di centocinquanta euro lordi al mese da parte dei docenti e del personale tecnico e amministrativo, dopo che il blocco degli scatti stipendiali, che si protraeva da tre anni, è stato esteso anche all’anno trascorso. A posteriori.
Immediato e legittimo il clamore. Un clamore tanto grande che ha costretto il governo a fare rapidamente dietrofront, fino all’annuncio che il provvedimento sarebbe stato ritirato. E dai ministeri sono giunte immediatamente giustificazioni fragili, mentre si tentava di liquidare la questione come un mero «problema di comunicazione».

I docenti italiani non sono per niente sottopagati. I loro stipendi sono in linea con la media dell’OCSE, checché ne dicano i sindacati. E i privilegi acquisiti di cui possono fruire non sono certo cosa da poco. Uno su tutti, gli scatti di anzianità. Antimeritocratici per eccellenza, sopravvivono per i docenti e il personale scolastico e per pochi altri fortunati, e costituiscono un aggravio ingiustificabile per le casse del Ministero. Ma qualunque siano le posizioni in merito alle retribuzioni degli insegnanti e dei dipendenti statali, la vicenda è stata deleteria e grottesca. Non si possono cambiare le regole del gioco senza adeguato preavviso. Per di più, non si può imporre un prelievo forzoso sugli stipendi. Ma, soprattutto, non si devono tollerare in nessun caso delle norme retroattive.
Lo sancisce il diritto. E il buonsenso. Approvare una norma che a posteriori vada a incidere sul passato è impensabile in un Paese civile e democratico. Se quei dipendenti hanno percepito a buon diritto la maggiorazione sul loro precedente stipendio, non possono essere chiamati successivamente a restituirla, perché divenuta improvvisamente illegittima. Si può forse scegliere di bloccare ancora gli scatti a partire dai prossimi mesi, ma non certo imporre di restituire quanto guadagnato in maniera legittima in precedenza.
Il titolare dell’Economia, una volta ricomposta (provvisoriamente) la faccenda, ha parlato di «problema tecnico che ha dato luogo a un’eccessiva drammatizzazione». Il ministro dell’Istruzione ha invece vagheggiato di «impicci burocratico-amministrativi». Ancora una volta, la farraginosa burocrazia ha avuto il sopravvento. E ci sono stati gravi carenze nella comunicazione tra i due ministeri, negligenze evidenti nello svolgimento dei compiti da parte di ciascuno. Altro che separazione dei poteri.

E i responsabili? Probabilmente non saranno individuati, come troppo spesso è accaduto. La colpa si disperderà col tempo, e gli inadempienti al loro dovere potranno continuare a bearsi del loro posto fisso. E la nostra soffocante burocrazia potrà prolungarci ancora l’agonia. Oltretutto, rimane da chiarire dove saranno trovate le coperture per rimpiazzare le mancate entrate. Se il prelievo forzoso in busta paga era necessario per far quadrare i conti, resta da trovare una soluzione. La prospettiva di altri tagli disinvolti appare piuttosto concreta. I proclami, come al solito, si sprecano, ma manifestamente non c’è la volontà politica di incominciare un serio progetto di razionalizzazione della spesa, in nome di una maggior efficienza del sistema scolastico. Dunque Orazio aveva ragione, quando esortava Leuconoe: spatio brevi spem longam reseces. Bisogna accorciare la speranza, se il tempo è breve. Le elezioni, in fondo, rimangono un’incognita costante.
Una vicenda simile, tutto sommato di proporzioni ridotte, ha creato non poco imbarazzo nel governo. In particolare, nel premier Letta, che ha visto vacillare per l’ennesima volta la poltrona del ministro Fabrizio Saccomanni, già scossa dall’imposta sugli immobili e sui servizi, comunque essa si chiami. Prevedibilmente, il primo a sferzare l’esecutivo è stato proprio Matteo Renzi, che non si è lasciato sfuggire l’occasione per imporre poco velatamente ai ministri di cercare un’alternativa. Una volta risolto il problema, seppur provvisoriamente, il segretario del Partito democratico può arrogarsi il merito di aver ricondotto a più miti consigli l’esecutivo. Riacquistando almeno un minimo di fiducia in quei dipendenti pubblici sospettosi o delusi dal centrosinistra.

Quel che resta di più significativo della vicenda è che il tentativo di un prelievo forzoso c’è stato, almeno in nuce. Una prospettiva che non può che ingenerare inquietudine per quell’Italia che lavora e che, nonostante tutte le difficoltà che quotidianamente incontra, riesce a sopravvivere. Un’Italia di imprese e operai che, magari, non ha compreso le ragioni di un simile industriarsi per evitare un prelievo assai poco considerevole, in raffronto al cuneo fiscale che depaupera le buste paga dei lavoratori o che soffoca le piccole e medie imprese e i liberi professionisti. Forse non hanno compreso fino in fondo il tempestivo ripensamento del governo, e non è da escludere che lo abbiano vissuto come una profonda iniquità, che accentua ancora di più la differenza tra chi può godere di privilegi acquisiti intoccabili e chi, invece, si accontenterebbe di uno stipendio. Forse non hanno compreso, e ne hanno tutto il diritto.


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