Mò me lo segno

Appunti sulla morte e lezioni di humor in “Perché comincio dalla fine” di Ginevra Lamberti

“Ma è proprio, proprio necessario parlare di dipartite anche la domenica a pranzo? Già c’è la nonna che ad ogni telefonata ci fa il censimento delle nuove epigrafi, se poi ci mettiamo i bollettini del telegiornale, almeno la domenica che è festa diamoci un po’ di tregua…”. Più passano gli anni, più il mio disagio nel sostenere i discorsi sulla morte cresce a dismisura: rientro a tutti gli effetti in quella fetta di popolazione mondiale – neanche molto ridotta – che la vive come un terribile assillo, tocca ferro e, sempre per scaramanzia, ricorre con parsimonia al catalogo di battute black humour sull’argomento. Il mio disagio non è di certo diminuito nel contesto drammatico dell’anno appena passato, un 2020 che ha messo a dura prova la nostra abitudine alla morte, o quantomeno la mia. Tuttavia, complice l’allegro pranzo di una famiglia veneta, riconosco che non è accettabile reagire in modo così puerile come l’ipocondriaca che sono e mi convinco ad affrontare la mia tanatofobia. Decido che sarà la conterranea Ginevra Lamberti, già autrice de La questione più che altro (nottetempo, 2015), ad accompagnarmi in questa missione domenicale. È così che comincio a leggere, anch’io «da un divano nel profondo Veneto», come recita la bandella, il suo ultimo romanzo Perché comincio dalla fine (Marsilio, 2019).
 

Stavamo sul divano, mia madre e io, guardando qualcosa alla televisione. Non ricordo se fosse un documentario, un reportage o un approfondimento del telegiornale. Credo che l’argomento fossero i cimiteri e la pratica del lutto entro quei confini. Lo credo perché dopo qualche minuto, senza neppure guardarmi, mia madre ha chiesto ma secondo te, noi sbagliamo a non avere un posto?


Poche righe e una sola domanda in apertura sono sufficienti a trattenermi in una lettura non-stop. Trasportata da una narrazione scorrevole e coinvolgente, dai toni colloquiali e deliziosamente umoristici, mi addentro in questo insolito reportage letterario in cui l’autrice-protagonista Ginevra alle prese con il topos del trapasso riporta gli incontri con specialisti del “settore”. In particolare, i sette capitoli che compongono il libro sono spesso introdotti dagli articoli del Regolamento di polizia mortuaria e si suddividono in un susseguirsi di “Pensieri” e “Azioni”, in cui Ginevra accosta il racconto del suo quotidiano alla ricerca di servizi funebri e pratiche del lutto per lo più inedite in Italia e meritevoli di essere rese note. L’autrice confeziona così delle interviste a vari professionisti che, restituite in forma narrativa, rendono il tema meno ostico e offrono una risposta empatica alle sue curiosità e ai suoi perché più esistenziali: diverse persone con formazioni filosofiche, psicologiche e storiche contribuiscono in questo modo alla scrittura del suo diario-reportage.
 

Il punto di arrivo del pensiero, ovvero il punto di partenza del libro, è stata l’idea che per scrivere non basto a me stessa. Avrei avuto il bisogno delle parole di altre persone e avrei avuto bisogno di andare a prenderle una per una.
Anni fa, nel mettere giù le prime cose che avrebbero poi visto la pubblicazione, notavo come mi fosse inevitabile intesserle di suggestioni che potremmo definire sepolcrali, o cimiteriali. Il lutto ha sempre morso la mia famiglia alle caviglie e le variabili di reazione sono state la preghiera, lo scherno, la pazzia, la negazione, il panico, il silenzio. A ben guardare, niente di diverso dal resto del mondo.


Sin dalle prime pagine di Perché comincio dalla fine si intuisce che l’intento di Ginevra è quello di rompere il tabù della morte per darne una rilettura normalizzata e comunitaria, e questo a partire da una semplice constatazione, indispensabile alla stesura del suo libro: per poter scrivere è necessario affidarsi al confronto con altre persone, appunto. Dalle dissacranti campagne di comunicazione della Taffo Funeral Services alle pratiche ecogreen della start up Capsula Mundi e della cooperativa Boschi Vivi, dal lavoro di tanatoesteta di Simona Pedicini agli studi tanatologici di Ines Testoni, la riflessione sulla morte e sulle moderne pratiche del lutto si fa ritmata e corale, muovendo di incontro in incontro. Accanto a queste interviste non mancano delle conversazioni più informali con amici e conoscenti come I Camillas, con cui Ginevra ragiona a partire dalle loro canzoni «piene di morti», o Rosita, che oltre al suo trascorso le racconta del desiderio di iscriversi alla scuola da tanatoesteta («ma poi costava troppo») e delle visite «ai ragazzi» in obitorio, ai quali spera sempre di portare un po’ di calma o compagnia.

Uno dei temi più interessanti e, considerata l’annata, più attuali del libro è certamente legato alla death education (“educazione alla morte”). Nel libro è Ines Testoni, direttrice del master in Death Studies & the end of life for the intervention of support and the accompanying all’Università di Padova, a farsene portavoce. Partendo da un ragionamento sul pensiero di Emanuele Severino, «filosofo dell’eternità», Testoni parla a Ginevra di come il senso e la percezione del morire siano culturalmente mutati con il passare del tempo:
 

[…] quello della rimozione è un problema sistematico da quando non abbiamo più il rimedio, perché per noi morte, erroneamente, significa annientamento in totalità, dunque non abbiamo più il coraggio di guardarla. Da quando nel Novecento è morto dio, da quando il sapere scientifico ci ha raddoppiato la vita, e in Occidente grazie al cielo siamo molto più pacifici, cerchiamo di farci meno male possibile, siamo terrorizzati dalla morte.


A ciò si aggiunge il fatto che, mentre una volta la malattia e la perdita erano gestite in ambienti domestici con la vicinanza della famiglia e della comunità, oggi esse sono sempre più “ospedalizzate”, tanto che la tendenza ad allontanarle e rinnegarle va per la maggiore. Se da una parte questa censura della morte è necessaria per vivere il quotidiano più serenamente, aiutando l’intera società a contenerne l’angoscia, dall’altra la stessa censura compromette paradossalmente la capacità di accettare e di affrontare gli eventi più tragici e dolorosi (per un approfondimento, consigliata la lettura di questo articolo accademico di Ines Testoni).
 

Se allontanare la morte è necessario per vivere più serenamente, la sua censura compromette la capacità di accettare e di affrontare gli eventi più tragici e dolorosi


Eppure, l’esperienza della malattia e quella del lutto costituiscono dei tasselli fondamentali nel mosaico dei rapporti individuali e sociali, poiché dimostrano l’importanza dell’empatia e della solidarietà: in questi termini la death education rappresenta un percorso di sensibilizzazione alternativo, aiuta a normalizzare il fenomeno naturale della morte e, di conseguenza, a dare più senso alle relazioni e alla vita stessa. Le riflessioni sul senso di solidarietà e comunità in rapporto alla death acceptance (“accettazione della morte”) trovano ampio respiro nel libro di Lamberti grazie anche all’intervista a Maria Angela Gelati e Marco Pipitone, ideatori del festival “Il Rumore del Lutto”, che l’autrice introduce in seguito alle considerazioni filosofiche di Ines Testoni e all’incontro con Laura Liberale, autrice del romanzo Tanatoparty. Prima di presentare nel dettaglio la natura e l’obiettivo della rassegna, i due parlano del loro percorso e dei loro interessi tanatologici; raccontano del loro investimento nel campo della death education e di come siano riusciti a portare le loro idee «fuori dal cimitero», sdoganando certi tabù a Parma grazie all’attività della loro associazione Segnali di Vita.
 

La situazione a volte è paradossale, perché da un lato è un tema ampiamento rimosso, eppure quando poi parli di morte hai un riscontro che è quasi certo. Lo vedi negli eventi, nelle serie tv, nei film, nella musica: è un tema che ha un’attrazione tangibile e sta in un certo senso esplodendo.
Poi d’altro canto sulla death education le lacune sono enormi, molte persone non conoscono le cure palliative, non conoscono la legge 38 del Duemiladieci. Noi facciamo convegni in ospedale, o negli hospice, anche per informare e sensibilizzare su questi temi.


Diventa impossibile soffermarsi su queste parole oggi senza pensare ancora una volta all’emergenza sanitaria, alle sue vittime e, in generale, alla riscoperta della vulnerabilità come condizione esistenziale. Viene da chiedersi se la pornografia della morte – per dirla citando il famoso studio dell’antropologo Geoffrey Gorer – avrà ancora presa sul quieto vivere occidentale: alla luce della pandemia abbiamo tutti dovuto fare i conti con la precarietà dell’esistenza, per cui il trauma collettivo che stiamo sperimentando ci costringe inevitabilmente ad interrogarci sul nostro modo di vivere la morte. Ecco perché ci sarebbe bisogno di dare spazio ad una riflessione sull’educazione e sull’accettazione della fine – riflessione che sia spoglia di qualsiasi spettacolarizzazione e libera da ogni deriva fatalistica, come suggeriva Yōjirō Takita nel suo film premio Oscar Departures, citato appunto nel libro.

In questo senso, quello che colpisce di Perché comincio dalla fine è proprio l’approccio umoristico con cui l’autrice-protagonista si rapporta alla questione, oltre che alla sua forma mentis e alla sua attività di scrittura. Ginevra condivide con il lettore tutto ciò che le passa per la testa, confida le sue impressioni, i suoi ricordi, le prime esperienze con la perdita di persone care, e questo le permette fin da subito di allargare il campo del suo discorso: viene in mente, per esempio, il personaggio della nonna Teresa che la induce più o meno consapevolmente a fare propria la filosofia del piutost che nient l’è mejo piutost (“piuttosto che niente è meglio piuttosto”), in una sorta di lessico famigliare per cui è meglio essersi conosciuti che non essersi conosciuti affatto, o al nonno Tonino che non è stato sepolto al cimitero del Verano perché «prossimo al sold out».
 

Ginevra condivide con il lettore tutto ciò che le passa per la testa, confida le sue impressioni, i suoi ricordi, le prime esperienze con la perdita di persone care


La scrittura di Lamberti è irriverente ma mai irrispettosa, è sagace, ironica e soprattutto autoironica: a questo proposito sono emblematici gli sketch che vedono la protagonista intenta a conciliare la stesura del romanzo con le dinamiche legate ai traslochi in compagnia di Calvario (il manichino) o alla presenza dei turisti, i cosiddetti “pellegrini globali”, costantemente in giro per la casa (Ginevra fa infatti l’affittacamere a Venezia). Scanzonata e comica, la narrazione procede spontanea, si inceppa, riparte, e mentre mi perdo divertita tra pensieri e racconti che a volte culminano nel nonsense, ho in mente quelle macchinine con la carica a molla che devono essere trascinate all’indietro per scattare in avanti. Un esempio di questa “rapsodia” narrativa è l’episodio del car sharing, intervallato dai flussi di coscienza di Ginevra: lei presa a rievocare il ricordo del nonno Tonino, venuto a mancare, e di un sogno che lo vedeva protagonista insieme ad un gatto trasformatosi in lettera, mentre l’irrequieto compagno di viaggio Casimiro il militare di Barletta si ostina a intrattenere tutti e si rivolge a lei chiamandola “Gilberta”.
 

Ci sono determinate questioni che, perseguitandoci in vita, lo fanno anche in morte. Come le distanze, le tempistiche, i soldi, la densità di popolazione. In ogni caso e qualsiasi cosa accada, appare evidente che qualcuno deve pur occuparsene.


Piccolo “quadrifarmaco” letterario, Perché comincio dalla fine si propone insomma come una riflessione sull’accettazione dell’inevitabile, ma è una ricerca che si vuole al contempo invito all’allegria e alla vitalità. L’impressione è proprio quella di sfogliare pagine intrise di entusiasmo, in cui l’autrice riflette sì sulla morte, sul fatto di non avere ancora un posto nell’altra vita, ma con pensieri che rispecchiano il desiderio frenetico di trovarne uno «almeno in questa». Tra alti e bassi, ci accorgiamo così che le preoccupazioni legate alla precarietà del quotidiano – tipiche in particolare dei trentenni di oggi, come Ginevra – vengono accolte senza troppa apprensione dalla protagonista e dai suoi amici, che anzi ne rispondono scherzandoci su, trovando sempre la giusta dose di ilarità per affrontarle. Allo stesso modo, proprio perché a tutto c’è una soluzione, i pensieri e le angosce legate all’aldilà possono essere reintegrate e discusse con consapevolezza qui, nella vita di tutti i giorni. Anche la domenica a pranzo.


 

In copertina Massimo Troisi in Non ci resta che piangere (1984)


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