Luis Sepúlveda, compagno di strada

La vita dello scrittore cileno scomparso nel 2020 a causa del coronavirus nel racconto intimo della sua traduttrice

Tra tutte le immagini che si usano per descrivere il traduttore quella di “traditore” del testo d’origine è forse una delle più famose. Secondo Gille Ménage, filologo del XVII secolo, per essere bella la traduzione deve essere infedele, ma vedere la traduzione come tradimento sottende che quest’operazione sia un qualcosa di losco, qualcosa che in qualche modo si appropria di ciò che non è suo sovvertendone gli obiettivi. Con il suo libro Storia di Luis Sepúlveda e del suo gatto Zorba edito da Salani, Ilide Carmignani, traduttrice italiana dello scrittore cileno, ci dimostra che la traduzione è il risultato di un continuo dialogo, di un atto d’amore. Citando l’enciclopedia Treccani come farebbe il gatto del porto Diderot, personaggio di questo libro, tradurre significa «1. Volgere in un’altra lingua un testo scritto o orale, o anche una parte di esso, una frase o una parola singola; 2a. Condurre da un luogo in un altro; 2b. Trasmettere, tramandare». Ed è su quest’ultimo significato che vale la pena soffermarsi, perché in questa biografia, con la leggerezza delle favole che Lucho (così lo chiamavano gli amici) amava raccontare, la traduttrice tramanda la sua storia, inscenando un dialogo tra lo scrittore e Diderot.

Nel bazar del suo proprietario Harry, dove Diderot conserva l’Enciclopedia, suo retaggio famigliare, si possono trovare oggetti di ogni tipo, tra questi ci sono diciassette macchine da scrivere, appartenute a scrittori famosi. È tradizione che gli avventori del bazar scrivano del proprio giorno più felice su una di queste macchine. Lucho si appresta al compito, ma non appena sfiora i tasti comincia a scrivere la storia della sua vita perché «mi sono reso conto che anche nelle circostanze più difficili, magari per poco, magari solo per un momento, io sono stato felice ogni giorno della mia vita, e quindi voglio scriverli tutti». Mentre Lucho batte sulla vecchia Underwood appartenuta a Hemingway, la voce narrante cambia ed è lo scrittore stesso a raccontare la propria storia, partendo dalla sua nascita avventurosa il 4 ottobre 1949, preludio di una vita altrettanto movimentata.
Questa vita piena di accadimenti durata settant’anni sembra quasi essere durata sette vite, come per i gatti, afferma Lucho a un certo punto. Si racconta dell’infanzia e degli anni della giovinezza, attraverso il rapporto con la famiglia, la scoperta dell’amore, della poesia e la militanza politica, fino a giungere ai mille giorni di felicità in seguito all’elezione di Allende. Ed è proprio con l’assassinio del presidente cileno e con la salita al potere di Pinochet che lo scrittore fa coincidere la fine della sua giovinezza. Dopo l’arresto, le torture, la scarcerazione e infine l’esilio, la sua diventa una vita raminga. È un senza patria che trova la propria terra nella sua unica costante: la lingua spagnola. Questa patria «vivace, irrequieta, mutevole» è il luogo in cui Carmignani incontra Lucho per la prima volta.

Nonostante le sofferenze patite e gli affetti da cui si è dovuto allontanare, Lucho non ha mai smesso di cercare di rendere il mondo un posto migliore attraverso la sua scrittura e le sue azioni:
 

Il Cile della mia giovinezza era scomparso, spazzato via dal tempo e dalla dittatura, e per di più i padroni del presente avevano deciso che i giovani come me in Cile non erano mai esistiti. Forse per questo devo tornare di continuo in quel remoto Paese australe, per testimoniare.
Naturalmente anche noi, quelli di allora, non siamo più gli stessi, ma avevamo un sogno e non l’abbiamo dimenticato. I nostri sogni sono irrinunciabili, sono ostinati, testardi, resistenti. Sappiamo che solo sognando e restando fedeli ai nostri sogni riusciremo a essere migliori, e se noi saremo migliori, sarà migliore il mondo.


In questa biografia dalle tinte fiabesche anche i momenti più difficili vengono raccontati con estrema delicatezza e non manca una buona dose di ironia, specialmente negli scambi tra Lucho e Diderot, che per lo più ascolta rapito, come tutti noi, le sue storie. Il gatto bibliotecario fa da contrappeso alla voce dello scrittore, attraverso le sue domande, le sue considerazioni e il costante elencare definizioni dalla sua amata Enciclopedia. Il suo comportamento riflette il compito del traduttore, che con curiosità sfoglia le pagine scritte dall’autore studiandone ogni singola parola e sfumatura. E proprio come Diderot, ogni traduttore amplia il proprio bagaglio di esperienze e guadagna una maggiore consapevolezza alla fine del processo traduttivo, durante il quale non è solo il testo a mutare, ma anche il traduttore stesso, perché come in ogni avventura che si rispetti anche chi si cimenta nell’impresa subisce un cambiamento.

Sin da subito siamo testimoni dell’affetto e dell’ammirazione che Diderot prova per questo «umano grande e grosso, con barba, baffi e capelli neri», che pur sembrando «tanto severo, era tutto tenerezza, tutto amore», come afferma nella postfazione Carmen Yáñez, sua compagna di vita. E in quell’affetto e ammirazione si rispecchiano quelli della traduttrice e fedele amica. Per quanto Carmignani non parli mai di sé nel testo, se non in una breve nota a margine in conclusione, per tutto il racconto si sprigiona quell’affetto, quella stima reciproca e amicizia profonda che li legava. Sin dal loro primo incontro, Lucho ha dimostrato la sua gratitudine per la voce donata dalla traduttrice, sua compañera de camino (“compagna di strada”). Quindi non una traditrice, perché ci vuole fiducia quando si lascia trasporre la propria voce e il proprio pensiero, una fiducia che Sepúlveda accordava ogni volta e dimostrata dal fatto che i suoi libri venivano prima pubblicati in italiano poi in spagnolo.
 

Per il gatto Diderot, Lucho era un «umano grande e grosso, con barba, baffi e capelli neri», che pur sembrando «tanto severo, era tutto tenerezza, tutto amore»


Da quel primo incontro è nata una collaborazione felice, una lunga amicizia, fatta di scambi e visite reciproche. Carmignani ricorda come spesso, quando veniva in Italia, Lucho soggiornasse a casa sua nella provincia di Lucca e sedesse alla sua tavola come uno di famiglia. E della sedia lasciata vuota a quella tavola si sente la presenza un po’ in tutto il racconto. Una presenza che è una mancanza, che ritroviamo anche nella Poesia ingenua di Carmen Yáñez, che fa da prologo al libro. Questo dolore ha il suo climax nel finale, quando Diderot racconta la scomparsa dello scrittore, portato via dal virus che ha cambiato le nostre vite:
 

Il 16 aprile, al mattino, una notizia è rimbalzata su tutti i giornali e le radio e le televisioni del mondo, e fra i gabbiani e i gatti dei porti di tutti i mari. Ho provato a tapparmi le orecchie per non sentire, ma quel silenzio, da fuori, mi è entrato dentro, si è trasformato in un vuoto sempre più grande, il vuoto lasciato da un amico che non c’era più.
Non ricordo quella giornata, è come una macchia di peste nera sul mare. La sera, in cima al campanile di San Michele, la zampa chiusa a pugno sul cuore, ho miagolato nel vento salmastro il mio saluto: “È stato un onore conoscerti, Lucho. Un regalo che mi ha fatto la vita. Non ti dimenticheremo mai, né io né le tante creature a cui hai dato la dignità di una voce”.


Tuttavia, questo non è un racconto triste, ma è una celebrazione della vita. E non solo di quella di Lucho, ma di tutte le vite che ha incrociato e che ha raccontato. È la storia dei suoi nonni, dei suoi genitori e dei loro insegnamenti. È la storia di Carmen (che lui chiamava Pelusa, batuffolo), amore della sua vita. Una donna dalla vita altrettanto travagliata, alla quale si è riunito dopo tanti anni. È la storia dei suoi figli e dei suoi nipoti. È la storia dei suoi racconti, di ciò che li ha ispirati, e quella della sua traduttrice che riporta la sua voce con dedizione.

Sepúlveda non ha mai scritto di sé, ma attraverso le sue azioni e le sue parole ha raccontato «di sé anche raccontando di altri». Il suo obiettivo era quello di «dar voce a chi non ha voce, come Kengah, la mamma della gabbianella, o il capodoglio del colore della luna ucciso dalle baleniere nel Pacifico, o certi umani, abitanti dimenticati dei miei mondi emarginati, in modo che possano raccontare la realtà così com’è». Con le sue storie ci ricordava quanto il mondo fosse vasto, ci mostrava che era possibile vederlo con occhi diversi e quindi pensarlo in modo diverso. Ora qualcun altro si è assunto il compito di provare a raccontare il mondo attraverso i suoi di occhi, e chi se non colei che ha camminato nelle sue orme per anni, avrebbe potuto farlo rivivere sulla carta.
 

Con le sue storie, Luis Sepúlveda ci ricordava quanto il mondo fosse vasto, ci mostrava che era possibile vederlo con occhi diversi e quindi pensarlo in modo diverso


Un altro dei significati della parola tradurre è «condurre da un luogo a un altro», e di fatti il processo traduttivo è un viaggio. Può sembrare un viaggio solitario, e in parte lo è, ma è anche un viaggio a due, nel quale si accompagna e si è accompagnati. In questo viaggio, come ci rivela Carmignani, il traduttore deve cercare di calibrare il proprio passo su quello dell’autore, e «a volte manca il terreno sotto i piedi», ci si sente persi e l’impresa può farsi difficile. Sembra quasi che il traduttore debba rincorrere lo scrittore per poter ritrovare la strada. Altre volte, invece, è un cammino che si intraprende insieme, mano nella mano, come Carmignani e Sepúlveda, come Ilide e Lucho.

 

In copertina: Luis Sepúlveda in una fotografia di Paolo Benegiamo
Nel pezzo: Luis Sepúlveda con Ilide Carmignani in una polaroid del gennaio 2004, per cortesia di Ilide Carmignani


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