L’incredibile storia dell’Isola delle Rose di Sydney Sibilia

con Elio Germano, Matilda De Angelis, Leonardo Lidi, François Cluzet, Andrea Pennacchi, Fabrizio Bentivoglio

In un bar di Piazza Santa Maria Novella a Firenze, davanti a due pinte di birra e a Edoardo De Angelis, Sydney Sibilia mi parlava per la prima volta del film che stava scrivendo, la storia incredibile dell’unica micronazione del Novecento italiano. Era il 2017, poco prima di un’intervista al festival Firenze RiVista, e quest’anno, a dicembre 2020, esce L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, pensato per la sala e poi virato direttamente su Netflix in seguito allo scoppio della pandemia. Tre anni fa era un annuncio privato di cui non si poteva parlare, oggi siamo qui a recensirlo.
Dopo la laurea, il giovane e bizzarro ingegnere emiliano Giorgio Rosa (E. Germano), di originale brillantezza e di vocazione anarchica, decide con l’amico Maurizio (L. Lidi) di costruire, nelle acque internazionali al largo di Rimini, un’isola indipendente dallo Stato Italiano. Con le sembianze di una piattaforma di cemento e mattoni di 400 metri quadrati e con il nome esperanto di Insulo de la Rozoj, il progetto di Rosa diventa famoso in tutta Italia e in tutto il mondo nel pieno delle contestazioni sessantottine, oltre che in tutta l’Emilia-Romagna che si riversa lì a festeggiare un luogo di vera libertà, anche se corre voce che Giorgio abbia fatto tutto per amore della ex ragazza Gabriella (M. De Angelis). Mentre lo Stato Italiano, messo in ridicolo dalla situazione, fa di tutto per liberarsi dell’Isola delle Rose, Giorgio prova a farla riconoscere a livello internazionale facendo ricorso al Consiglio d’Europa di Strasburgo, nel tentativo di conservare il progetto utopico di uno stato indipendente – con tanto di valuta e lingua, cittadinanza e francobolli – senza regole e senza restrizioni.

L’opera quarta di Sydney Sibilia, regista della trilogia di Smetto quando voglio, si cala nell’Italia (e nell’Emilia-Romagna) degli anni Sessanta usando il contesto del ’68 per raccontare la storia particolare dell’ingegner Giorgio Rosa. Se del film si apprezzano il ritmo e la costruzione narrativa (che parte dal ricorso al Consiglio d’Europa e torna indietro, a ricostruire la storia dell’isola), la sua vera forza sono il volto e il corpo del suo protagonista. Nel ruolo di Rosa, Elio Germano aggiunge un altro personaggio alla galleria di outsider italiani che continua ormai regolarmente ad incarnare – dal Leopardi de Il giovane favoloso al Ligabue di Volevo nascondermi – con la capacità di dare ad ognuno di loro lo stesso candore pur mantenendo in ognuno dei caratteri di unicità. Il suo Giorgio Rosa è testardo e ostinato, visionario e idealista, anarchico e ingenuo di quell’ingenuità che è in grado di muovere le montagne, e che forse contribuì al fallimento della sua impresa (l’isola fu «un peccato di ingenuità», disse una volta lo stesso Rosa).
Ci sono tante cose buone, ne L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, su tutte il merito di riportare alla luce una storia davvero incredibile (per una volta un titolo che non esagera) e la capacità di raccontare di Sibilia, autore anche della sceneggiatura insieme a Francesca Manieri. 
 

L’incredibile storia dell’Isola delle Rose ha soprattutto il merito di riportare alla luce una storia davvero incredibile (per una volta un titolo che non esagera)


E poi la rappresentazione di Bologna con le sue strade notturne, le trattorie e le aule universitarie (a differenza di una Rimini a malapena abbozzata), la scelta musicale tra classici internazionali come Hey Joe di Jimi Hendrix e Louie, Louie dei Kinks e successi italiani come Sognando la California dei Dick Dick (famosissima cover di California Dreamin’ dei The Mamas & The Papas) e Sole spento di Caterina Caselli. E ancora, nel cast, c’è l’interpretazione di Elio Germano, c’è un buon Leonardo Lidi nella parte dell’amico Maurizio, c’è un fantastico François Cluzet – protagonista di Quasi amici qui mascherato dalla capigliatura e dagli occhiali spessi – nei panni del funzionario di Strasburgo la cui evoluzione racconta, da sola, la portata dell’impresa di Rosa. Ci sono però anche tante cose che non convincono.

Non convince l’utilizzo degli effetti visivi (le barche e la piattaforma chiaramente posizionate sull’acqua in fase di post-produzione, la corsa all’autodromo di Imola che sembra la cinematica di un videogioco). Non convince la rappresentazione degli ambienti politici come un luogo farsesco e sopra le righe, per quanto siano innegabilmente divertenti i siparietti tra il presidente Giovanni Leone di Luca Zingaretti e il ministro Franco Restivo di Fabrizio Bentivoglio, alle prese con «una cosa da poco, una sciocchezza», e per quanto sia efficace la sequenza della minacciosa telefonata di Restivo a Rosa. Non convince soprattutto il tono del film, che non si capisce che cosa vorrebbe essere: la commedia dal protagonista singolare e sgangherato, il dramma del conflitto con lo Stato e con i genitori, la farsa del potere e della politica italiana, la storia d’amore tra una realista e un sognatore.
 

Qual è il tono del film? Commedia dal protagonista singolare e sgangherato o dramma del conflitto con Stato e famiglia? Farsa del potere e della politica italiana o storia d’amore tra una realista e un sognatore?


Quest’ultimo punto, in particolare, è una grande debolezza, perché l’amore per Gabriella, così raccontato, svilisce la forza del sogno del suo protagonista, che il finale vorrebbe enfatizzare e che invece diventa ridicolo. Sibilia vorrebbe ricostruire l’affetto del pubblico per il gruppo sgangherato di protagonisti, come gli era riuscito (bene) per la banda di Smetto quando voglio, ma quando il gruppo si stringe le mani in slow-motion sulle note Eve of Destruction di Barry McGuire l’effetto è soltanto quello di un’ironia involontaria, perché quei personaggi che si lanciano sguardi eroici, che si fanno coraggio l’un l’altro, noi non li conosciamo. Chi è davvero il tedesco Neumann, organizzatore di feste dall’italiano impostato al limite della macchietta? Chi è la barista Franca che abbiamo visto soltanto una mattina nella camera da letto di uno sconosciuto e poi a servire alcolici al bar? Chi è il naufrago Pietro, primo abitante dell’isola che si vedrà, a dire tanto, otto minuti in tutto il film? Persino Maurizio, l’amico di Giorgio che ha carattere e identità nella prima parte del film, nella seconda la perde scivolando nel ruolo del semplice comprimario. E in più, soprattutto, che ruolo ha un atto di questa portata – la fondazione di una nazione, la dichiarazione di indipendenza – se poi l’isola viene distrutta e Giorgio, pochi secondi dopo la sconfitta e la distruzione del suo sogno, è comunque felice perché tanto con lui c’è l’amata che gli dice che “l’importante è provarci”, umiliando di fatto quell’afflato libertario?

«Per evitare che accadesse di nuovo l’Onu spostò il confine delle acque nazionali da 6 a 12 miglia. In tutto il mondo», si legge nei cartelli finali prima dei titoli di coda, a porre l’accento sull’aspetto rivoluzionario dell’impresa di Rosa – nonostante rimanga poco verificabile l’impatto dell’Isola sulla decisione di estendere i confini delle acque da 6 a 12 miglia (avvenuta per lo Stato Italiano nel 1974) che fu parte di una lunga negoziazione sui confini delle acque nazionali cominciata nei primi anni Settanta e conclusasi nell’82 con la Convenzione di Montego Bay. La dimensione rivoluzionaria, che rimane senz’altro presente, resta però sempre sullo sfondo, tanto che se il pubblico si affeziona (un po’) al destino amoroso di Giorgio e Gabriella, non si affeziona di certo all’Insulo de la Rozoj, rappresentata soltanto come un posto dove la gente beve e balla. Nei momenti di festa e di partecipazione, Sibilia la filma sempre a distanza, con totali e riprese aeree, senza mai entrare a fondo nelle dinamiche intime tra i personaggi che la abitano né tra quelli che la visitano per un giorno (lo fa solo una volta, nel finale, quando Giorgio e Gabriella si risvegliano abbracciati sulla branda, ma è troppo tardi). Il risultato è che non c’è una sola sequenza, sull’isola, che faccia percepire quella piattaforma di 400 metri quadrati come una qualcosa di più che una colata di cemento con un bar.
 

Il fim sembra un’occasione persa di raccontare una storia dal respiro veramente rivoluzionario, una storia in cui crede anche il regista per l’affetto con cui l’epopea di Giorgio Rosa


L’incredibile storia dell’Isola delle Rose poteva essere una bella commedia, una bella storia d’amore, un bel racconto anarchico, purtroppo non è nessuna delle tre cose. È invece un’occasione persa, per la possibilità che c’era di raccontare una storia dal respiro veramente rivoluzionario, una storia in cui crede anche il regista – lo si vede nell’affetto e nello stupore con cui racconta l’epopea di Rosa, nelle parole della telefonata con Restivo e nella stoica attesa al gelo sulla panchina del Consiglio d’Europa, nelle discussioni col padre e nei viaggi a bordo della sua auto sgangherata. Da spettatori, quello che resta è l’amaro in bocca per un’isola che vorremmo veramente scoprire, in cui vorremmo immergerci partecipando alle storie che la abitano e alle idee anarchiche che la animano, prima che la violenza dello status quo la faccia colare a picco – a differenza del film, non bombardata ma minata due volte con esplosivi fino all’inabissamento per una burrasca. E invece l’impressione è di essere lì in gita domenicale, di visitare l’isola da turisti, come gli italiani che la raggiungono in barca dalla costa, ballano per un po’ e poi tornano, come sempre, alla vita di prima.

 

«L’importante è cambiare il mondo, no? O almeno provarci»
ITA 2020 – Comm. 117’ ★★★★★


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