La ruggine consuma la lady di ferro

Non fate più scommesse sulla figlia del droghiere

La bandiera, in Downing street, sventola a mezz’asta. La lady di ferro ha ceduto al peso degli anni e alla malattia. Ad ottantasette anni, ormai lontana dalla vita politica e dalle attenzioni della stampa, si è spenta la donna che ha segnato profondamente la storia della Gran Bretagna con la propria controversa figura, concludendo gli ultimi anni di vita nella discrezione, conscia di aver imposto una svolta senza eguali alla storia del proprio Paese.

“In politica, se vuoi che qualcosa sia detto, chiedi ad un uomo, se vuoi che qualcosa sia fatto, chiedi a una donna”, diceva lei. La figlia del droghiere che divenne primo ministro. La ragazza di provincia, cresciuta nella rigidità del rigore metodista, che nel 1979 fu la prima donna a diventare premier britannico. Prima e ultima, last and least, almeno per adesso. Fu lei, con la sua concretezza borghese, ad inserirsi nell’élite politica come una pròte euretés, prima scopritrice di un mondo fino ad allora esclusivamente di giacche e cravatte e brillantina. Che vide la comparsa di tailleur di colori sgargianti e borsette e capelli cotonati. La sua estrazione sociale contribuì a costruire intorno a lei un’immagine di semplicità e pragmatismo, che si tradusse quasi immediatamente in evidenze. Con la sua azione politica decisa e determinata, infatti, proiettò fin da subito i conservatives verso un neoliberismo pressoché sfrenato. E la nazione verso una vertiginosa crescita economica.

Erano tempi torbidi, quando la Thatcher divenne premier, dopo una breve esperienza maturata come ministro dell’istruzione. L’Inghilterra aveva dovuto richiedere prestiti al Fondo monetario internazionale per fare fronte ad una situazione economica preoccupante, e gli scioperi paralizzavano il Paese.  La disoccupazione aveva condotto all’indigenza una considerevole parte della cittadinanza. Il malcontento era palpabile, mentre il disagio sociale si acuiva. La politica era immobile e incapace di far fronte ad una situazione inaspettata. Laburisti e conservatori temporeggiavano in attesa di trovare un compromesso. Ed era l’occasione, per la Thatcher, di dare prova della propria capacità risolutiva. Come un deus ex machina. Adottando fin dall’inizio del primo mandato politiche economiche di stampo monetaristico e liberista, instradò la nazione verso una maggiore dinamicità. Smentendo al contempo l’immagine di immobilità che i conservatori si erano guadagnati nel corso degli anni. Riabilitandoli, così, agli occhi di un elettorato che soffriva di una grave disaffezione.

Risolutezza, e caparbietà. Il dialogo, in fondo, si riduceva al minimo indispensabile. The lady’s not for turning. Chi mi ama, mi segua. Altrimenti, peggio per lui. I risultati dell’intervento del primo ministro non tardarono. Già nel 1982 si osservarono i primi risultati delle politiche decisioniste della Thatcher: l’inflazione diminuì sensibilmente, così come la disoccupazione. E la sua popolarità crebbe, in maniera inversamente proporzionale, unitamente alle contestazioni delle categorie delle quali andava ad intaccare i privilegi.  Ma fu due anni più tardi che le politiche economiche poste in essere dalla lady trovarono la più alta concretizzazione. La parola chiave, innovativa, fu solo una: privatizzazioni. Un dogma di fede, quasi. Che non sempre condusse a risultati ottimali, ma quelli che ottenne furono sufficienti per renderla un esempio da seguire. Il caso della dismissione delle miniere di stato fu emblematico. In una esacerbante lotta contro i sindacati, fu lei ad uscire vincitrice. E le trade-unions furono sconfitte, nonché screditate agli occhi dell’opinione pubblica, che andava schierandosi dalla parte del governo. Dalla parte della lady di ferro. In nome dell’imperturbabile convinzione liberista che per una maggiore dinamicità economica fosse condicio sine qua non uno stato minimo, scatenò le proteste dei minatori, istigati allo sciopero dai sindacati, che continuavano a determinare le sorti della nazione con il loro miope oltranzismo, volto a garantire con inusitata caparbietà dei diritti acquisiti. La fermezza, però, fece cedere le trade-unions. I sindacati furono costretti a smettere di fare politica. Una sorta di déja-vù: fu un po’ come accadde col movimento cartista negli anni Trenta del secolo precedente. Così il Paese continuò la propria crescita a livello economico. E il modello della Thatcher, che nel frattempo era diventato un sostantivo, il thatcherismo, divenne un modello per l’Europa, e per gli Stati Uniti.

Maggie, però, seppe guardare lontano. Così lontano da vedere in quelle isolette a largo della costa argentina un’occasione per affermare ancora il proprio ruolo e la propria immagine. E, nel momento in cui il dittatore Galtieri, in crisi di popolarità, rivendicò la propria sovranità sulle Falkland, la premier non esitò ad organizzare un’operazione militare dispendiosa, ma che avrebbe avuto risvolti rilevanti sul fronte politico interno. Rimarcando ancora una volta la necessità della presenza della lady al governo. In poco più di due mesi, nel 1982, cavalcando un rinato spirito patriottico, l’esercito inglese sconfisse quello argentino. Così da contribuire ad affermare ancora con più vigore che la soluzione per la Gran Bretagna potesse essere solo lei, e nessun’altro. Con gli USA e con Reagan, poi, il sodalizio fu epocale. Una ritrovata unità di intenti contro il comune nemico sovietico che si stendeva minaccioso ad Est. L’ombra rossa che incombeva sull’Europa doveva essere sconfitta ad ogni costo.

“No, no, no”. Con la determinazione cui aveva abituato il proprio Paese, pronunciò anche il no alla moneta unica. Dopo undici anni trascorsi al governo, è con quel no che la carriera politica della Thatcher volse al termine. Il partito si spaccò, e la fazione europeista, cui apparteneva anche l’allora ministro dell’economia, prevalse. Ma il colpo di grazia fu quella misura così poco liberale quanto impopolare: la poll tax, un’imposta uguale per ogni cittadino. Lo sciopero fiscale che ne conseguì ebbe ampia risonanza nel Paese. E il partito si indirizzò su posizioni aderenti alla linea europea. La lady di ferro, in un attimo, in un attimo si trovò isolata. Per la prima volta, fu giudicata inutile. Non impersonificava più il cambiamento. Nel momento delle consultazioni per la carica di leader del partito conservatore, non essendo riuscita a vincere al primo turno, si risolse per le dimissioni.

Così, con qualche lacrima agli occhi e uno dei suoi tailleur pastello, lasciò Downing street nel 1992. E lasciò un’eredità politica indiscutibile per l’Inghilterra, che ancora oggi vive gli effetti delle sue politiche. Nel bene e nel male. Perché le misure draconiane adottate oggi dai governi dell’Eurozona per fronteggiare la crisi non paiono così dissimili, sul fronte sociale, da quelle poste in essere dalla Thatcher trent’anni fa, ma la differenza risiede nel fatto che la lady agì con convinzione, rinunciando ai compromessi, cui noi siamo purtroppo abituati. Così fu in grado di non vanificare le misure di ripresa economica. Lei, il cambiamento, scardinò dall’immobilismo il sistema politico ed economico inglese, con un’ardita visione di libero mercato, lasciandosi alle spalle feroci critiche e fragorosi applausi. Anche quando si scagliò ironicamente contro l’idea di un Europa unita a livello monetario, sempre più coesa. L’anacronistico euroscetticismo che aleggia oggi, in fondo, non è lontano dalla strenua opposizione alla single currency propugnata dalla lady di ferro. Solo che è in ritardo di trent’anni. E il suo mentore di ferro, ormai, è arrugginito.


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