Il fiore degli Svevi

Banchieri di Dio

Un giorno, mentre cavalca nelle sue amate Puglie, Federico II ha un malore. I suoi famigli lo portano nel vicino Castel Fiorentino, dove lo svevo si ricorda della profezia di Michele Scoto, il suo astrologo di corte: tu, stupor mundi, morirai sub flore. Così il grande intende che la sua fine è prossima, e si lascia andare; avrebbe finalmente chiesto a Dio se in vita aveva avuto più ragione lui, o i papi che l’avevano odiato. È il 13 Dicembre 1250. Ora il trono di Palermo spetta a Corrado, figlio dell'imperatore; ma egli è impegnato in Germania. C’è poi, tra gli innumerevoli figli illegittimi di Federico, il giovane e spregiudicato Manfredi. Ha appena diciott’anni, ma si vocifera che in realtà suo padre l’abbia ammazzato lui, soffocandolo con un cuscino; non esita ad assumere la reggenza in Sicilia, in attesa che il fratellastro Corrado venga a prendersi la corona. Ma Corrado, per così dire, non fa in tempo ad arrivare che si ammala di malaria e passa a miglior vita. Adesso il trono appartiene di diritto al figlioletto di Corrado, Corrado anche lui. Ma il piccolo ha solo due anni: Corradino, come viene chiamato, deve aspettare in Germania, dove resta sotto la tutela del papa. È suo padre che l’ha affidato al Santo Padre, e questo tenta di approfittarsene. Secondo la Donazione di Costantino, è il pontefice il legittimo proprietario delle terre dell’Italia meridionale. Fin dai tempi dei re normanni di Sicilia, infatti, è stato il papa a investirli di quella carica.

Finalmente si presenta l’occasione di strappare agli odiosi svevi il dominio sul Mezzogiorno, ma Manfredi non è d’accordo. Con le armi dei cavalieri siciliani, dei baroni pugliesi, dei suoi tedeschi e dei fedelissimi musulmani di Lucera, con l’influenza del nome Hohenstaufen e degli alleati italiani – con l’abilità della volpe e del leone – Manfredi tiene banco alle ambizioni pontificie. Il papa, Innocenzo IV, lo scomunica: Manfredi è un usurpatore! Ma un usurpatore intraprendente e testardo: in poco tempo mette alle strette tutti i nemici e per ferocia e sagacia fa rimpiangere la saggia durezza del padre. I ghibellini imperversano in tutta Italia, addirittura Roma passa dalla parte dell’Impero. Il papa vive tra Viterbo e Orvieto; nel 1258 Manfredi è incoronato re di Sicilia. Infatti, non appena si sparge la voce che Corradino è morto – una bufala creata ad arte da Manfredi stesso – i suoi baroni non esitano a offrirgli il trono. Nel giro di un paio d’anni l’ultimo baluardo guelfo rimasto in Italia è Firenze con la sua lega di città. Le truppe del giglio muovono incontro ai ghibellini di Siena, forti dei battaglioni tedeschi dello svevo. Nel settembre del 1260 Montaperti vede lo scontro definitivo e la partita è dei ghibellini. Per i guelfi è una catastrofe;  solo Farinata degli Uberti, il fuoriuscito ghibellino, salva Firenze dalla distruzione. Quando, pochi mesi più tardi, muore quel papa Alessandro IV che aveva animato l’ultima resistenza al potente Manfredi, l’Italia intera sembra pronta a farsi gran pasto della potenza ghibellina. Una sindrome dell’accerchiamento soffoca i guelfi: chi si sarebbe opposto, adesso, quando Manfredi avrebbe attaccato direttamente le terre del papa? Sarebbe stato possibile un nuovo equilibrio diplomatico, in un’Italia forse di nuovo unificata sotto un unico scettro? E cosa ne sarebbe stato di quegli imprenditori, professionisti, mercanti e banchieri - lo zoccolo duro della parte guelfa -  ora che non c’erano più eserciti a difenderli dalla rapacità degli svevi e dei loro scherani?

Ma il nuovo papa, Urbano IV, conosce le risposte possibili. In qualche modo bisogna aiutare le profezie che il cardinal Bianco, «grande astrolago e maestro di nigromanzia» secondo la Cronica del Villani, aveva proferito all’indomani di Montaperti: «I vinti vittoriosamente vinceranno». Ci vuole uno stratagemma ardito, temerario, ma potenzialmente vincente, e il regno di Sicilia verrebbe liberato una volta per tutte dalla mala pianta tedesca, sveva e ghibellina; un beneficio per l’Italia intera. L’investitura al trono a Manfredi è stata negata, e bisogna che qualcuno la riceva dalle mani del Santo Padre. Per molti lo svevo è ancora un impostore in barba alle sue vittorie, e lui ben sa che l’Europa è piena di personaggi senza scrupoli, pronti a mettere le mani sulle ricche e belle terre che egli si è preso. Tra gli altri candidati al trono palermitano, l’ideale è Carlo d’Angiò. È un uomo che ascolta la Chiesa, e suo fratello, il potente Luigi IX di Francia, pure in odore di santità, è molto legato alla Santa Sede: fu grazie all’appoggio pontificio che, nei primi anni del suo lunghissimo regno, era riuscito a consolidare i suoi domini, nel grande massacro dei catari del Mezzogiorno francese. È il 1265 quando il successore di Urbano, Clemente IV, stringe l’accordo definitivo: Carlo d’Angiò è investito come legittimo sovrano del regno di Sicilia. In cambio, dovrà al papato un astronomico censo annuo di 8000 once d’oro, una grossa somma sull’unghia e trecento cavalieri per tre mesi all’anno; in più, promette di non legare in alcun modo all’Impero il regno di Sicilia. Che adesso deve andare a prendersi sulla punta della spada.

Ma i ghibellini non sembrano intenzionati ad abbandonare le posizioni conquistate. Manfredi vuol combattere con le unghie e con i denti, senza paura o pudore di spargere sangue cristiano, se serve al suo dominio; senza timore delle scomuniche o degli eserciti nemici. Contro di lui, lui che fa «vita mondana ed epicurea»,  è bandita una crociata vera e propria, ma mancano i crociati, e Manfredi ride. Al momento, infatti, Carlo manca di denaro. Titoli, terre, parenti re di Francia e pur considerevoli ricchezze non bastano per un’armata capace di reggere l’urto delle formidabili truppe dello svevo. La spada del papa è spuntata, e le lance guelfe si son spezzate sugli scudi senesi a Montaperti. Ma c’è ancora chi, in Italia, è disposto a rischiare tutto per la causa guelfa, per schiodare Manfredi dal suo scranno e restituire il paese alla sua libertà; i banchieri fiorentini. Grandi famiglie, quelle dei cambiatori guelfi, legate al potere pontificio da solidi interessi finanziari, al pari di molti colleghi sparsi per l’Italia; grandi famiglie in grado di investire enormi capitali. Carlo d’Angiò non ha che da chiedere. Michele Scoto ci aveva visto giusto. Il fiore scolpito nel nome di un castello annunciò la morte di Federico II; adesso il giglio di Firenze, stampato sull’oro purissimo dei banchieri guelfi, minaccia anche suo figlio Manfredi.
Nel 1265, Carlo raggiunge Roma via mare. Messe le mani sugli ingenti aiuti finanziari accordati dai fiorentini, allestisce un grande esercito di provenzali e francesi. Sceso l’autunno sui cieli d’Italia, la grande armata cala lungo gli Appennini. Manfredi non si lascia trovare impreparato: non cade nella trappola strategica tesagli dal francese, non passa le montagne, attende in Campania, sceglie con cura le sue postazioni. Il suo esercito è però colpito dalla diserzione; Manfredi sa di giocare contro il tempo. Vicino a Benevento, sull’unico ponte che passa il fiume Calore, si arriva allo scontro: è il 10 febbraio 1266. Siciliani, tedeschi e saraceni combattono e difendono con grande coraggio Manfredi, che non si sottrae al durissimo scontro; ma, spaventati dai primi rovesci delle armi, i baroni pugliesi tradiscono. Lo svevo scompare nella mischia; così la vittoria arride a Carlo, consacrato sul campo re di Sicilia. In breve, il francese riesce a riportare l’Italia sotto i guelfi. La diplomazia pontificia ha vinto: della minaccia ghibellina non c’è più di che temere. Adesso, tuttavia,è il momento di saldare i conti.

Gli Angiò si rivelarono ben presto clienti non solvibili per i banchieri fiorentini che dovevano pur essere ricompensati per i loro servizi. Così a Firenze fu concesso l’inaudito privilegio di libero commercio in tutta l’Italia meridionale: il regno angioino nasceva sotto l’egemonia commerciale e finanziaria della città di San Giovanni, nasceva sub flore. Col tempo i numerosi creditori si arrogarono feudi e diritti, appalti di tasse e dogane, sfruttamento di miniere, cariche amministrative statali. Le maglie del potere statale organizzato dalla dinastia sveva e quelle recenti della feudalità rinnovata dagli angioini si riempirono ben presto di esponenti di quelle famiglie di banchieri che avevano permesso a Carlo l’ascesa al trono; molto di loro presero dimora a Napoli, nuova capitale del regno. Le grandi casate fiorentine dei Bardi, dei Peruzzi e degli Acciaiuoli sfruttarono gli eventi per allargare i confini dei loro imperi economici a livelli internazionali. Questi laici intraprendenti avevano sì servito con devozione la causa pontificia, ma in cambio avevano ricevuto beni terreni straordinari. Gli Acciaiuoli misero le radici nello Stato napoletano; nel 1348, Niccolò Acciaiuoli arrivò alla massima carica amministrativa, Gran Siniscalco del Regno. Sulla fine del secolo, ottennero addirittura il Ducato d’Atene, mentre Bardi e Peruzzi, dall’alto della loro ricchezza, davano priori a Firenze e prestiti a Edoardo III d’Inghilterra. Innumerevoli filiali delle loro compagnie commerciali punteggiavano l’Europa da Londra a Costantinopoli. Per quasi un secolo, le tre famiglie detennero il monopolio delle finanze pontificie. Non sempre, infatti, dare a Cesare ciò che è di Cesare è diverso da dare a Dio ciò che è di Dio.


Parte della serie Banchieri di Dio

Commenta