Il cinema senza i cinema

Se il Covid-19 sta relegando il cinema allo streaming e rischia di dare il colpo di grazia alle sale cinematografiche

È venerdì sera e non si può uscire, c’è il coprifuoco. Non si può andare a cena fuori, i ristoranti sono chiusi. Non si può andare al cinema, anche le sale sono chiuse. Non mi ricordo più da quant’è che non vedo un film al cinema, l’ultima immagine che mi torna in mente è Toni Ligabue disteso sul letto nel finale di Volevo nascondermi di Giorgio Diritti. Il film era uscito il 27 febbraio, dopo poco più di una settimana l’esplosione della pandemia ne aveva fermato il buon esordio ed ero riuscito a vederlo soltanto mesi dopo, a inizio settembre. È venerdì sera, sono appena tornato dal lavoro, mi siedo sul divano e accendo la smart tv su Netflix. Scorro i titoli delle ultime serie tv uscite, di qualche film scadente che Netflix ha appena prodotto, di qualche buon film di vent’anni fa, e alla fine seleziono Smetto quando voglio – Masterclass, il secondo capitolo della saga, e clicco “Play”. Mi ricordo quando andai a vederlo con una coppia di amici, a Roma, e le risate si sentivano dal corridoio del cinema di Piazza della Repubblica. Il film uscì nell’inverno del 2017 e a settembre dello stesso anno ero seduto con il regista Sydney Sibilia davanti a una birra media in Santa Maria Novella. Eravamo insieme a Edoardo De Angelis, prima di un’intervista a Firenze RiVista 2017, e mi parlava in gran segreto di un film a cui stava lavorando, sulla storia di Giorgio Rosa e della costruzione della sua micronazione marittima al largo di Rimini. L’incredibile storia dell’Isola delle Rose uscirà il 9 dicembre 2020, su Netflix.

Sono anni che la crescita esponenziale dello streaming si mangia i numeri delle sale cinematografiche italiane. Se un tempo era lo streaming illegale di Megavideo a togliere spettatori ai cinema, adesso lo streaming legale di Netflix e Amazon Prime – che pure ha il grande merito di aver riportato centinaia di migliaia di spettatori nel margine della legalità, e quindi a pagare per vedere film – ha legittimato l’idea che vedere un film sul grande schermo con l’impianto audio di una sala cinematografica o vederlo a casa sulla propria smart tv o peggio nel letto di camera propria sullo schermo minuscolo di un portatile sia, in fondo, la stessa cosa. Sembra scontato dire che non lo è. Per la qualità del suono, per la profondità e la grandezza dell’immagine in cui lo sguardo dello spettatore può perdersi, senza le distrazioni del messaggio, della chiamata, del coinquilino che cucina o del campanello che suona. Il cinema, come un libro o un concerto e in generale come ogni opera d’arte, è una sospensione della vita, e non è fatto per condividerlo con le altre attività quotidiane. Quando lo inseriamo tra uno scambio di messaggi e un lavoro ai fornelli perde il suo valore, perde tutta la qualità dell’esperienza. Quando lo inseriamo tra uno scambio di messaggi e un lavoro ai fornelli diventa televisione.
 

Teatri e cinema sono luoghi sicuri e rispettosi dei protocolli dove, dalla fine della quarantena, sono stati registrati zero contagi


Certo le difficoltà del settore e i numeri bassissimi di affluenza alle sale degli ultimi mesi sono dovuti anche e soprattutto all’emergenza della pandemia, e non sono solo pubblico e settore distributivo ad avere delle responsabilità in questa trasformazione. In Italia, l’ennesimo governo miope fa di tutto per svilire il lavoro di centinaia di migliaia di persone partendo, con il proprio intervento per evitare un secondo lockdown, proprio dalla chiusura dei teatri e delle sale cinematografiche. Teatri e cinema sono luoghi sicuri e rispettosi dei protocolli dove, dalla fine della quarantena, sono stati registrati zero contagi, e appellarsi alla questione della riduzione della mobilità, come ha fatto in modo piuttosto imbarazzante il Ministro Franceschini, suona poco più che un alibi per una scelta insensata: qual è il criterio per cui la mobilità per il lavoro mattutino, quella che ammassa le persone negli autobus e nelle metro, è permessa, mentre quella serale no? Il lavoro è lavoro soltanto dalle 8 alle 18? È un punto che riguarda tanti altri settori, ma colpire cinema e teatri è apparso soltanto stupido e ingiustificato.

La scelta del governo segue una concezione di cultura viziata e tristemente diffusa in Italia, che la vede unicamente come orpello e non come carne viva della realtà del nostro paese. Siamo talmente schiavi di un’idea capitalistica di produttività – quella che vede la produzione soltanto nelle attività delle fabbriche e delle aziende – da non vedere come la cultura stessa sia un’enorme filiera produttiva che, per il cinema, va dai produttori ai lavoratori dello spettacolo, dagli autori agli esercenti fino agli spettatori che pagano il biglietto per entrare in sala. E non è soltanto la sala cinematografica a risentire di questa visione parziale, è il cinema stesso che rischia di pagarne il prezzo.
 

Siamo talmente schiavi di un’idea capitalistica di produttività – quella delle fabbriche e delle aziende – da non vedere come la cultura stessa sia un’enorme filiera produttiva


Per fare un esempio semplice, un film italiano costa una cifra compresa, mediamente, tra i 2 e i 10 milioni di euro: questi soldi non vanno soltanto a registi e attori, ma alla troupe, ai service che affittano i materiali, ai teatri dove vengono allestite le scenografie, alle location dove viene girato il film, agli studi di post-produzione che lavorano al montato, agli alberghi che ospitano i lavoratori in trasferta, ai ristoranti dove mangiano e così via. Questa macchina produttiva di quanto potrà contrarsi, nei prossimi mesi di chiusura e in futuro, senza sale dove proiettare film? Persino ignorando il valore immenso che cinema, teatro, letteratura, musica hanno per l’Italia e guardando alla cultura con la prospettiva economica che la nostra società ha reso egemone, questi provvedimenti sembrano fallimentari. Se il capitalismo vede un paese vivo e in salute soltanto quando è produttivo, con questa visione sterile e assistenzialista i governi degli ultimi vent’anni hanno contribuito unicamente a ridurre e limitare la produzione culturale. Non solo non siamo dei buoni uomini di cultura, non siamo nemmeno dei bravi capitalisti.

Viene da chiedersi, quando prenderanno definitivamente piede anche in Italia Apple TV, Disney+, StarzPlay e tutte le altre piattaforme streaming che la società celebra con l’entusiasmo boomer che applica a tutto ciò che è nuovo e digitale, se a questa contrazione della produzione culturale corrisponderà anche una contrazione dell’esperienza. Meno sale, un numero sempre più alto di produzioni pensate direttamente per lo streaming, film più economici, schermi più contenuti, visioni contrappuntate da messaggi, chiamate e pasti. Forse la stagione d’oro della serialità televisiva, nobilitata dalla contaminazione con il cinema, ha portato tanti spettatori al piccolo schermo ma sta finendo per trasformare anche il cinema in televisione. È ancora presto per dirlo, l’unica cosa sicura nel presente incerto che stiamo vivendo è che le sale sono di nuovo chiuse e che si può solo aspettare l’uscita di qualche buon film in streaming. Nell’attesa, clicco “Play” e comincio a vedere il terzo capitolo di Smetto quando voglio.


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