Sydney Sibilia e Edoardo De Angelis - Cinema Talks

Intervista a due dei registi più interessanti del cinema italiano, autori di Smetto quando voglio e Indivisibili

Il cinema italiano è da sempre in costante equilibrio tra dramma e commedia, tra il racconto tragico e comico della vita. Una tendenza che a partire dagli anni Cinquanta è arrivata fino ad oggi, nel variopinto panorama di autori che popolano le nostre sale con i loro film. L’ultima edizione del festival Firenze RiVista ha portato, al Museo Novecento a Firenze, due dei migliori autori contemporanei – registi e sceneggiatori delle proprie storie – che hanno contribuito a porre l’attenzione del pubblico italiano sulla generazione di registi nata tra le fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta: Sydney Sibilia, regista della trilogia di Smetto quando voglio – in sala con il terzo capitolo Smetto quando voglio – Ad honorem – e Edoardo De Angelis, regista di Mozzarella Stories, Perez. e di Indivisibili, il suo ultimo film premiato con 6 David di Donatello e 5 Nastri d’argento. Abbiamo parlato degli orizzonti del cinema italiano, del loro rapporto con la regia e con la scrittura, di come è iniziato e dove è diretto il loro percorso autoriale.


Sydney, come sei arrivato al cinema e al mondo di Smetto quando voglio, che è il film con cui poi hai esordito?

Sydney Sibilia
Come ci sono arrivato? Bè, facendolo. Io non ho fatto scuole particolari, anche perché sono di Salerno. Là non esistono scuole di cinema, esiste il liceo scientifico che è quello che ho fatto io, che è una scuola di vita più che altro. E non è semplice anche capire quello che vuoi fare, nel senso che lì dire “voglio fare il regista” è sempre strano, perché non è un posto cinematograficamente attivo: sembra sempre “voglio fare l’astronauta”. Ti chiedono “Che c’ha mio figlio che vuole fare questa cosa così strana, non si può drogare come fanno tutti gli altri?”.
 

Ho iniziato facendolo perché mi piace comunicare e pensavo che il linguaggio cinematografico fosse una strada – anche se all’epoca non sapevo si chiamasse così


Ho iniziato facendolo perché mi piace comunicare, mi piace parlare un sacco, e pensavo che il linguaggio cinematografico fosse una strada – anche se all’epoca non sapevo si chiamasse così. Vedevo delle cose al cinema e in tv e cercavo di emularle: vedevo i film e dicevo “Mò faccio pure io dei film”. E quindi ho comprato una telecamera con i risparmi di una vita che servivano a comprarmi il motorino, che a Salerno è fondamentale per avere una vita sentimentale – e quindi non ho scopato per tantissimo. Giravo i film perché li vedevo e cercavo di emularli, poi mi hanno spiegato che c’erano anche i cortometraggi, ma se non me le dite le cose… Cercavo di raccontare quello che mi piaceva, sempre con uno spirito un po’ giocoso. I corti all’inizio sono una cosa bruttissima, poi piano piano cominci a capire gli errori che hai fatto e in qualche modo studi, sbagliando. Alla fine i corti si perfezionavano e quindi ho pensato che potevo tornare a fare i film, e dato che cerco sempre di captare quello che c’è in giro, di rielaborare le cose che vedo, e all’epoca c’erano i tagli alla ricerca ho detto “Ma quanto fa’ ride’ sta cosa, che questi sono intelligentissimi e non c’hanno ’na lira, poracci”. E abbiamo fatto Smetto quando voglio, che ha avuto una certa fortuna, tanto da giustificare un sequel e poi da giustificarne due. Una trilogia, sempre perché tra le cose che vedevo c’erano queste trilogie americane degli anni Ottanta e dicevo “Ah, mò la posso fare pure io, quando mi ricapita!”. E insomma l’ho fatta.

A proposito di quello che hai detto, che sei partito a Salerno senza scuole, senza formazione…

Aspè, aspè, senza scuole… sono alfabetizzato io! C’ho il diploma! Perché quando lo dico sembra sempre ninos de rua, noi di Salerno scalzi che sniffiamo colla. No, è un posto civilizzato!

Senza scuole… di cinema! Precisiamo. Tu Edoardo invece sei partito dal Centro Sperimentale di Roma, una delle migliori scuole di cinema d’Italia, da cui poi sei arrivato al tuo film d’esordio: Mozzarella Stories. Che cosa ha voluto dire per te?

Edoardo De Angelis
Bè, Mozzarella Stories è tutto il mondo dove io ho vissuto, quindi bufale, canzoni neomelodiche… tutto quello che mi ha emozionato, preoccupato, spaventato, fatto divertire fino a quell’età l’ho buttato dentro un film, in un calderone assolutamente non ben organizzato, come la vita. Ho deciso di fare il cinema perché in un certo senso volevo organizzare, mettere insieme tutte le cose che invece vedevo disordinate: mi sembrava una possibilità di metterle in ordine. Non credo di esserci ancora riuscito.
La scuola, il Centro Sperimentale, è stato anche quella una volontà di mettere in ordine una serie di conoscenze che vedevo sparse. E quindi siamo arrivati a Mozzarella Stories, che è un po’ il film che ho fatto per primo ma dovrebbe essere il film che rifarò per ultimo, se saprò quale sarà il mio ultimo film, perché lì c’è dentro tutto il mondo da cui vengo.


Come vedevate il cinema italiano al momento del vostro esordio e come lo vedete cambiato, anche alla luce di certi cambiamenti produttivi e dell’avvento di tanto nuovi modi di fruizione che non c’erano sei anni fa, quando tu Edoardo hai esordito?

Edoardo De Angelis
In breve: prima c’era un cinema che facevano gli altri, adesso c’è un cinema che facciamo noi. Poi, battute a parte, sta a chi lo guarda stabilire se sia preferibile o no, però è figlio di questi tempi, è figlio di un processo di appropriazione degli spazi nostri – sia io che Sydney produciamo i nostri film, quindi cerchiamo di controllarli – e nella battuta c’è un po’ questo: il desiderio non solo di essere registi di qualcosa, ma di essere autori di una parola, di un racconto, di una storia. E di poterla controllare dall’inizio alla fine.

Sydney Sibilia Il cinema è sempre in evoluzione, e si evolvono sostanzialmente due cose: i linguaggi e l’industria. Ed è vero che è bello farne parte, anche di questa parola: “l’industria”, come cinema italiano. Noi abbiamo una gran fortuna, proprio come autori e come appartenenti al cinema italiano, che è proprio il cinema italiano, che è una cosa che esiste. Non tutti i paesi hanno una cinematografia, una tradizione e un’industria. Se fossimo in Danimarca… “Voglio fare il cinema danese!”. E che cazzo è? Cioè, a parte delle cose estemporanee, come tradizione e come numero di film prodotti non c’è confronto. Quindi intanto è bello esserci.
La difficoltà è che quando fai dei film sei chiamato un po’ a predire il futuro. La domanda è “Che tipo di cinema c’era”, ma in realtà la domanda è sempre “Che tipo di cinema ci sarà”, perché tu fai un film che esce dopo tre anni. Quindi la domanda che ti fai è opposta. Bisogna cercare non tanto di “stare al passo coi tempi”, ma di rimanere connessi con quello che poi è il pubblico.

E quanto rimane contemporaneo il tema che affronti, adesso che esce il terzo capitolo di Smetto quando voglio?

Non lo so, io credo che ci sia una componente molto attuale che si perderà e una componente un po’ eterna che rimarrà. Se tu vedi film come Amici miei o La banda degli onesti sono film molto attuali, per certe componenti. Credo che tutti i film dovrebbero essere una fotografia di quella che era la realtà di quei tempi, ma d’altra parte quelli che non hanno una lira ci saranno sempre, quindi ci sarà sempre qualcuno con cui empatizzare, un tuo eroe che cerca una rivincita, come nel caso dei tre film che ho fatto.
Non è che poi i tempi siano cambiati tantissimo, anche se io poi ci sono invecchiato dentro questa trilogia. Voglio fare un elenco delle cose che non c’erano quando ho cominciato a scrivere Smetto quando voglio: non c’era Instagram, non esisteva l’Isis… È incredibile. Eppure nonostante i tempi cambino rimane tutto un po’ attuale.


Mi sembra che il vostro cinema abbia un punto in comune: la volontà di andare ad analizzare, ad approfondire le realtà che vengono dal basso. Quelle situazioni di difficoltà in cui emergono i conflitti e in cui probabilmente si riescono meglio a raccontare certe situazioni e certi sentimenti

Edoardo De Angelis
Dal basso dipende pure da quanto sei alto tu. Gli esseri umani che mi attraggono sono esseri umani che vivono in circostanze di grande necessità, il cui primo pensiero è la sopravvivenza. Vivono situazioni estreme, perché mi sembra che queste siano le situazione più emblematiche che tutti noi possiamo capire perché o le abbiamo vissute o immaginiamo che potremmo viverle. È come la guerra. Non ho fatto mai racconti di guerra, ma immagino sempre la storia come una storia di guerra, come una storia di conquista. E non importa che si tratti di una nazione, di un metro quadrato o semplicemente della possibilità di vivere in maniera normale: per me ogni storia è una storia di guerra. E quindi vado nei luoghi di guerra, la guerra che conosco che oggi è la guerra per la sopravvivenza.


E come mai la scelta, nella rappresentazione dei tuoi personaggi, di restare sempre così in bilico tra positivo e negativo, di trovare sempre qualcosa di umano anche nel personaggio più disprezzabile

Edoardo De Angelis
Non credo che esistano personaggi negativi. Esiste chi sta dall’altra parte della barricata, esiste chi, rispetto a quella persona che noi abbiamo deciso che è la protagonista della storia, si contrappone ai suoi desideri. E non è detto che i desideri di questa persona che si contrappone siano meno nobili o siano miserabili. Nel caso del padre di due ragazze siamesi che vive sul loro canto, e non vuole farle dividere proprio perché rappresentano la sua fonte di sostentamento, noi potremmo pensare che le sue motivazioni siano miserabili; in realtà anche quell’individuo sta cercando di trovare un modo di andare avanti. Per me quel padre a modo suo ama addirittura le sue figlie, e infatti resta vicino a loro fino alla fine.

Amo anche i personaggi più sporchi, forse mi somigliano anche di più. Al tempo stesso invece guardo con amore i personaggi più puliti perché non mi somigliano


C’è un concetto che io non concepisco proprio nel descrivere i personaggi delle storie ed è il giudizio, soprattutto il giudizio morale. Amo anche i personaggi più sporchi, forse mi somigliano anche di più. Al tempo stesso invece guardo con amore i personaggi più puliti perché non mi somigliano, perché rappresentano la parte di me che vorrei che esistesse e che non esiste.


Sul discorso della morale, tu Sydney, nello scrivere un film come Smetto quando voglio, che in quanto commedia punta ovviamente a far ridere dello spettatore, vedi qualche restrizione nella necessità di mantenere una morale o invece proprio il fatto di disinteressartene dà possibilità comiche ancora maggiori?

Sydney Sibilia
Della morale proprio non me n’è mai fregato moltissimo. Io un cattivo nei miei film ce l’ho sempre messo, perché senza cattivi come fai, io i film senza i cattivi non li so molto fare, però la natura sfumata di cui parla Edoardo è alla base della narrazione. C’è del buono in Darth Fener come c’è del buono in tutti i personaggi negativi e c’è del negativo in tutti i personaggi positivi, che è quello che poi li rende affascinanti. Tutto dritto è molto difficile e ad oggi è un po’ datato, no? È un po’ il problema di alcuni supereroi: è molto difficile fare il film su Superman perché Superman è tipo megafico e dici “Vabbè, sei mejo te” e è pure mezzo fascio. Oggi il personaggio è molto più sfumato, e più ha un conflitto più tifi per lui.


Tornando invece al discorso dei luoghi che facevamo con Edoardo. Le vostre storie prendono vita in luoghi molto caratteristici – l’ambientazione campana e quella romana – e con delle immagini particolari. Come vivete il rapporto con i vostri direttori della fotografia, Ferran Paredes Rubio per le atmosfere cupe e malinconiche di Mozzarella Stories, Perez. e Indivisibili e Vladan Radovic per i colori acidi della trilogia di Smetto quando voglio?

Edoardo De Angelis
Il luogo per me non è soltanto location, che è una parola che non amo molto. I luoghi emanano le mie storie, le storie sono nei luoghi che le ospitano, quindi spesso vado proprio ad ascoltarli. Con un certo accanimento negli ultimi anni, perché sto esplorando il litorale domizio in lungo e in largo: lì si annidano storie che ancora non conosciamo. Storie di esseri umani disperati ma che non hanno abbandonato quel vizio che nessun essere umano si potrà mai togliere, che è il vizio della speranza. Questo paradosso dà vita alle loro vicende in luoghi che sembrano morti, e invece brulicano di vitalità. Sembrano distrutti, e invece sono in perenne ricostruzione. Di questi luoghi noi a volte non sappiamo neanche il nome, perché ci muoviamo poco. Allora mi muovo io, per quel me stesso pigro che invece vuole sapere cosa succede lì e vuole scoprire che anche quella è l’Italia oggi.
 

Il luogo per me non è soltanto location. I luoghi emanano le mie storie, le storie sono nei luoghi che le ospitano, quindi spesso vado proprio ad ascoltarli


I miei sopralluoghi non sono soltanto sopralluoghi per girare un film, sono sopralluoghi per ascoltare le storie, per capire qual è la favola che chiede a voce più alta di essere raccontata. Non mi muovo da solo, mi muovo con Ferran, che è il direttore della fotografia dei miei film. Tutte queste atmosfere plumbee nascono dalla malinconia di Ferran che guarda il mare di Castelvolturno e realizza questi quadri.

Sydney Sibilia Per me è un po’ diverso. Io cerco sempre di immaginare dei posti, e puntualmente questi posti non esistono e quindi ci rimango un po’ male. In Smetto quando voglio – Masterclass pensavo a una batcaverna per il luogo di ritrovo dei personaggi, che nel film è il cantiere della Metro C. Io immaginavo questo cantiere bellissimo, poi siamo andati a vederlo ed è una merda, atroce. Quindi ci siamo ritrovati a dire “qui non si può fare”. E allora devi andare a cercare non il cantiere vero, ma il cantiere che tu avevi in testa che deve sembrare quello vero. Alla fine cerchi sempre di dare un’immagine che sia congeniale a quello che stai raccontando.
Con Vladan abbiamo fatto un discorso dall’inizio, cercando un’immagine che sia peculiare innanzitutto – la famosa color che tanto ha diviso –, per cui abbiamo creato una specie di tavolozza di colori primari con cui ambientare tutte le psichedeliche vicende. E solo una volta ho fatto quello che fa Edoardo: sono andato in scrittura a vedere le location. C’era una scena in cui stavamo in un porto e io in realtà un porto l’avevo visto solo in GTA 5 – un videogioco dove ci sta un tizio che mena come un fabbro altre persone – e alla fine l’avevo scritta pensando a quello e mi sono chiesto “ma non è che è una cazzata?”. E invece no, se giocate a GTA 5, i porti sono esattamente come ve li fanno vedere nel videogioco. Mi piacerebbe farlo più spesso, ma partendo dalla storia per me i luoghi fanno da cornice e non da personaggio. Non è detto che sarà sempre così.


Si parla di orizzonti e vi vorrei chiedere dove secondo voi sta andando il vostro cinema e, più in generale, il cinema italiano. Domandina facile per chiudere

Edoardo De Angelis
Eh, che ne saccio… In realtà un po’ lo so, un po’ lo desidero. Sicuramente c’è un’attenzione maggiore da parte dell’attuale ministro della cultura, ci sono molti più fondi dedicati a questa forma di intrattenimento e di arte, che comunque dà tanto lavoro. C’è per fortuna un progressivo dislocamento rispetto alla centralità di Roma, non perché Roma non sia interessante ma perché l’Italia è un paese molto vario che è divertente e curioso raccontare anche fuori dal centro romano.
Dove sto andando io… dopo Indivisibili ho trovato una forma di linguaggio in cui mi sento comodo, che è una forma di linguaggio semplice. Credo che ancora per un po’ mi piacerà raccontare storia estremamente semplici, anzi quasi primordiali, perché mi voglio ricordare cosa mi fa paura, cosa accende i miei desideri, cosa mi fa ridere, cosa mi fa emozionare, e quindi vorrei condividere con chi ascolta e guarda le mie storie questi sentimenti primordiali.

Sydney Sibilia È molto difficile dire dove va il cinema italiano. È sicuramente un momento storico strano per tutte le cinematografie mondiali, perché portiamo in scena un paradosso: oggi qua tra di noi ognuno ha almeno uno barra due device su cui si possono vedere dei prodotti audiovisivi gratuitamente e noi facciamo l’unico che si paga. E quindi c’è bisogno di fare dei prodotti che valgano l’evento collettivo, oltre al prezzo del biglietto, oltre allo sbattimento di uscire di casa, prendere la macchina, trovare parcheggio, comprare dei pop corn a mille euro – più o meno – e vedere un film. È difficile quindi per un’industria come quella italiana sostenere la concorrenza sia delle industrie più potenti come quella americana che dei nuovi device e dei vari Netflix. Nonostante il fatto che vedere una cosa al cinema ti emozionerà sempre di più di una cosa vista al computer o di una serie in televisione. Alcune sono bellissime, per carità, ma si abbassa la soglia di attenzione dello spettatore: tu a una serie chiedi molto meno rispetto a un film. Quando vai al cinema ti incazzi se non ti è piaciuto, se non ti piace una serie di Netflix intanto ti scarichi le email, ti vedi un porno… fai tutte quelle cose interessanti che puoi fare col computer.
 

Sto preparando un film nuovo, lo sto scrivendo, e scrivere è un lavoro bellissimo. È come fare il palombaro: ti immergi in una storia, ti svegli la mattina e devi lavorare in un mondo che non è questo


Cosa mi piacerebbe fare dopo tre film che hanno lo stesso titolo? Ho parlato per tanto tempo della forza della banda, invece mi piacerebbe raccontare la forza di uno solo. Sto preparando un film nuovo, lo sto scrivendo, e scrivere è un lavoro bellissimo. È come fare il palombaro: ti immergi in una storia, ti svegli la mattina e devi lavorare in un mondo che non è questo, ed è la parte più bella. A me i film mi piace in primis scriverli, poi dirigerli è meno bello perché ti devi svegliare prestissimo.


Ecco, mi piacerebbe che raccontaste i vostri approcci differenti al film. Edoardo che sviluppa la storia anche attraverso i sopralluoghi in fase di scrittura e Sydney che prima la immagina e poi cerca nei luoghi quello che ha immaginato.

Edoardo De Angelis
Anch’io passo la maggior parte del tempo a scrivere, anche progetti che poi non giro, ma mi diverte di più il set. È come se fosse la gara per cui ti sei allenato. È l’unico nostro momento di grande fisicità, il momento in cui le cose succedono: hanno una loro caoticità, una loro potenza, devi cercare di imbrigliare. Poi sai bene che la forma di queste cose verrà data successivamente, è stata inventata prima, eppure quello che accade sul set è, nella migliore delle ipotesi, lo scarto tra quello che hai immaginato e quello che gli altri esseri umani portano interpretando la tua idea. La grande differenza tra il cinema fatto con gli esseri umani e il cinema di animazione è proprio questa: c’è uno scarto tra l’idea e il suo succedere, e questo scarto è rappresentato da tutte le umanità che concorrono alla realizzazione di quell’idea. Il mio augurio più grande quando giro un film è che quello che succederà sia migliore di quello che ho pensato. Confido molto sull’arte e sulla follia delle persone che chiamo a fare tutte quelle cose che io non so fare.
 

Il mio augurio più grande quando giro un film è che quello che succederà sia migliore di quello che ho pensato. Confido molto sull’arte e sulla follia delle persone che chiamo a fare tutte quelle cose che io non so fare


Certo, tutta la fase della scrittura ha dei suoi momenti emozionanti. Possono essere sulla pagina, quando ti metti a piangere come una vecchietta perché hai scritto una scena melodrammatica come nei film di Mario Merola, oppure perché muovendoti come amo fare ti imbatti in storie di esseri umani che ti fanno vedere dei mondi nuovi. Questo è un po’ il viaggio della scrittura: non costa niente però costruisci qualcosa che costerà e diventerà una realtà che prima non esisteva, un mondo che prima non esisteva.
Però devo dirti la verità, Sydney, io scrivo scrivo ma sempre sognando il momento in cui poi finalmente vado sul set e c’è quella adrenalina, forse perché io amo alzarmi presto. Sono anche molesto nei confronti della troupe, perché mando un messaggio alle sei di mattina a tutti con le note di regia, che però sono note filosofiche, un po’ come la preghiera del mattino – sarà che ho fatto la scuola dei preti. Noi ci riunivamo una mezz’oretta prima di cominciare le lezioni a fare delle preghiere. Ecco, per me la nota di regia è una sorta di preghiera: la preghiera che quel giorno di ripresa tutto vada non bene, ma meglio di come ce lo siamo sognati.

Sydney Sibilia È vero che il set è qualche cosa che in qualche modo surfi, perché poi comincia uno tsunami che tu puoi controllare fino a un certo punto. Ed è il motivo per cui i film sono un po’ magici. È il momento in cui la fantasia si scontra con la realtà, a volte è più bello di come te l’eri immaginato a volte è meno bello, è quel giorno rosichi.
La scrittura è quello che mi diverte di più. In generale per tutte le cose che scrivo, in particolare per questa trilogia: ho scritto insieme gli ultimi due film ed è anche il motivo per cui li ho voluti fare. Volevo provare a sviluppare un arco narrativo lungo due film, non più lungo uno. È un po’ una sfida provare a raccontare qualcosa che non hai già raccontato, e ogni volta è come farsi una seduta di analisi, perché anche io che faccio un tipo di cinema lontano da me in qualche modo ci metto tanto me. E quindi poi quando te lo rivedi o quando te lo rileggi dici “Ah, vedi come sono io? Pensa te”.


Parte della serie Cinema Talks

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