Il caso Macerata e la morte della politica

Luca Traini e le responsabilità politiche che spianano la strada al neofascismo

31 gennaio: a Pollenza, vicino Macerata, vengono rivenute due valigie abbandonate in un fosso. All’interno ci sono pezzi di cadavere: è quello che resta di Pamela Mastropietro, diciottenne romana, fuggita due giorni prima da una comunità di recupero (la ‘Pars’ a Corridonia) dov’era arrivata per problemi di tossicodipendenza. Da subito le indagini si orientano verso uno spacciatore nigeriano, Innocent Oseghale, nella cui casa vengono rinvenuti gli abiti insanguinati di Pamela. Non è chiaro se Oseghale l’abbia uccisa o abbia ‘solo’ fatto a pezzi il cadavere (si parla di morte per overdose), tanto più che nei giorni successivi verranno fermati altri nigeriani, ma poco importa: la notizia è talmente mostruosa da far scattare qualcosa nella mente di un ventottenne di Corridonia. Che il 3 febbraio esce di casa, sale in macchina e porta con sé una pistola: il suo obiettivo sono tutti gli immigrati di pelle nera che gli capitano a tiro. Nella sua corsa ne ferisce sei: si chiamano Festus Omagbon, Wilson Kofis Lui, Jennifer Otioto, Mahmadou Toure, Omar Fadera, Gideon Azeke (quante volte avete letto o sentito i loro nomi?). Quella stessa mattina le forze dell’ordine riescono a fermare l’attentatore: si chiama Luca Traini, è avvolto nel tricolore, ha una runa celtica tatuata sul lato destro della fronte e al momento dell’arresto urla «Viva l’Italia» alzando il braccio destro.
 

Liberi e uguali è il primo a definire il gesto di Luca Traini come «attentato fascista». Il Pd renziano preferisce parlare di «razzismo» e «xenofobia», mentre man mano che ci si sposta a destra viene meno anche il vocabolo «razzismo»


Le reazioni della politica arrivano immediatamente. Liberi e uguali è il primo – e rimarrà uno dei pochissimi – a definire il gesto di Luca Traini come «attentato fascista». Dal Pd renziano, in omaggio alla vocazione maggioritaria, si preferisce parlare di «razzismo» e «xenofobia», rimanendo su una linea più distesa utile per la campagna elettorale, mentre il millennial Di Maio si scopre primorepubblicano e invita a non sfruttare la vicenda per fini elettorali. Nessuna dichiarazione di rilievo nelle varie aree centriste (né ci si può aspettare qualcosa di rilevante da formazioni politiche che esistono solo sulla carta), mentre man mano che ci si sposta a destra, oltre all’ovvia sparizione del termine «fascismo», viene meno anche il vocabolo «razzismo»; per Giorgia Meloni quello di Macerata è «un gesto folle da criminali squilibrati, senza alcuna possibile giustificazione», ma è figlio della esasperazione di un Paese precipitato nel baratro a causa della sinistra; secondo Matteo Salvini, invece, «la violenza non è mai la soluzione, la violenza è sempre da condannare. E chi sbaglia, deve pagare. L’immigrazione fuori controllo porta al caos, alla rabbia, allo scontro sociale. L’immigrazione fuori controllo porta spaccio di droga, furti, rapide e violenza».

Luca Traini ha sbagliato, insomma: ha trovato una soluzione errata al problema degli immigrati. È una questione di efficienza, mica di razzismo. Congelate, per un momento, le vostre idee politiche, qualunque esse siano, e rispondete a questa domanda: che differenza c’è fra questa dichiarazione e la litania dei «compagni che sbagliano» sostenuta, negli anni Settanta, da varie anime della sinistra a proposito delle Brigate Rosse? La mia risposta è: nessuna. E infatti Traini è stato candidato alle comunali del 2017, a Corridonia, proprio con la Lega di matrice salviniana, circostanza che ha indotto l’avversario di sempre, alias Roberto Maroni, a marcare la propria distanza: «Che orrore! Questo è un criminale fascistoide, non c’entra nulla con la gloriosa storia della nostra grande Lega Nord». A fare la differenza sono tre termini: «fascistoide», «storia» e «Nord», ora che il partito ha assunto posizioni nazional-sovraniste (mentre Maroni è da sempre un europeista), ha voltato le spalle alle proprie origini ed è diventata, semplicemente, Lega.
 

Se è vero che bisogna chiamare le cose con il loro nome, quello di Luca Traini non è il gesto di un folle, incapace di intendere e di volere, bensì di un criminale fascista


Se è vero che bisogna chiamare le cose con il loro nome, quello di Luca Traini non è il gesto di un folle, incapace di intendere e di volere, bensì di un criminale fascista. O, se preferite, di un fascista criminale. Se ancora non va bene, posso anche optare per criminale e fascista, oppure fascista e criminale, ma da qualunque parte la si veda la sostanza rimane identica: questa è una storia di violenza fascista. Con questo sto dicendo che tutti i fascisti sono criminali? No. Sergio Ramelli, negli anni Settanta, simpatizzava per il Movimento Sociale, erede della Repubblica di Salò, ma non era un criminale: criminali furono i comunisti – sempre per chiamare le cose con il loro nome – che lo uccisero in quanto ‘fascio’. Mentre sono deficienti, ma non criminali, quei poveretti che al «corteo antifascista» del 10 febbraio hanno inneggiato alle foibe, rovinando una giusta manifestazione. Tuttavia a Macerata non c’è stata violenza comunista, bensì, ripeto, fascista, quindi sarebbe il caso di piantarla con il «sì, ma»: le coordinate avversative lasciamole alle versioni di latino.

A questo punto riavvolgiamo il nastro e torniamo a Pamela Mastropietro. La diciottenne ha cominciato a morire il 29 gennaio, quando si è allontanata – per quale motivo? – dalla comunità di recupero di Corridonia. Ha cominciato a morire quando un quarantacinquenne di Mogliano, italianissimo, l’ha vista in giro con il suo trolley, l’ha fatta salire in auto per darle un passaggio e le ha dato 50 euro per continuare il suo viaggio, non prima di aver ottenuto un rapporto orale, su un materasso all’interno di un garage in campagna: una vicenda agghiacciante che è passata quasi sotto silenzio. Ne parla il Corriere della sera online, il 7 febbraio, ma il tono del pezzo è sconcertante:
 

«C’è un uomo che sta guardando in cucina Mattino Cinque, il programma di Federica Panicucci. Sono le 9 e mezza, lui fa colazione, mentre in studio, proprio in quel momento, si sta parlando del dramma di Pamela Mastropietro. Lui la conosce bene, quella ragazza. E adesso chissà che peso grande ha sul cuore, questo 45enne con la tuta rossa da meccanico e i sandali da francescano. Malgrado il freddo intenso non porta i calzini. Il giorno si scalda lavorando nel campo attiguo alla casa, dove la mimosa è già in fiore. Lo assilla il pensiero che se solo avesse potuto immaginare la fine orribile che attendeva Pamela, di certo lui le avrebbe cambiato il destino. «È atroce, atroce», riesce solo a dire. «Credete forse che non ci pensi? Non bestemmiate, per favore…». […] Per farsi d’eroina ci vogliono i soldi e Pamela non ne ha. Ha con sé soltanto la sua bellezza e decide di venderla a lui. Allora l’uomo punta verso la casa della sorella, che ha un garage sul retro, seminascosto. Lei quel giorno non c’è, nessuno potrà vederli. C’è un materasso in garage, fanno sesso su una coperta».


La mimosa è in fiore, Pamela ha con sé soltanto la sua bellezza, il quarantacinquenne ha i sandali da francescano: non si era mai letta tanta poesia bucolica per raccontare l’estorsione di un atto sessuale. L’articolo sparirà il giorno successivo dal sito del Corriere, dopo una ondata di sdegno sul web; resta, assordante, il silenzio della politica su questa storia tutta italiana.

Poi, a metà febbraio, iniziano a circolare particolari inquietanti, anche se non confermati, sulla morte della diciottenne romana: atti di cannibalismo, grandi bevute di sangue e asportazione della vagina, riti che porterebbero la firma della mafia nigeriana, fenomeno criminale noto da più di dieci anni ma rimasto sempre ai margini della cronaca. A lanciare questo scoop è Alessandro Meluzzi, noto psichiatra, grande frequentatore dei salotti televisivi; la Procura smentisce queste ricostruzioni, così come Antonio Basilicata, capo reparto preventivo della Direzione Investigativa Antimafia e massimo esperto del fenomeno mafioso nigeriano (intervista qui), ma ormai il tam-tam sui social è avviato: non c’è pace per Pamela, che continua a morire anche dopo essere stata fatta a pezzi, nel nome di una lotta contro un inesistente ‘politicamente corretto’ che vorrebbe mettere sotto silenzio i crimini dei migranti. Come se non esistessero Il Giornale, Libero, Il Tempo e trasmissioni come Quinta colonna o Dalla vostra parte, nonché una miriade di televisioni locali dove ogni giorno, ogni santissimo giorno, si pesta sul tasto della sicurezza e dell’immigrazione: emittenti in cui si lanciano sondaggi del tipo «Immigrato rapinatore scarcerato dopo due giorni. Sei d’accordo?», senza chiedersi come funzionino i nostri codici e, soprattutto, chi siano gli autori di queste leggi assurde, che i giudici sono costretti semplicemente ad applicare. E alla fine resta solo una parola: ‘immigrato’. Con la conseguente idea della ‘invasione’, come ai tempi di Attila, nell’oblio più assoluto di quando – e qui vengo a fatti di casa mia, in Friuli – la mia cittadina di 12mila abitanti accolse con grande solidarietà, dal 1992 al 1997, quasi 1.700 profughi dalla ex Jugoslavia, in fuga da guerre e persecuzioni: altro che i numeri risibili di oggi.

Eppure non si può non fare i conti con questo sentimento dilagante, fatto di insicurezza, odio, paura dell’altro in quanto tale: non è sufficiente limitarsi a dichiarazioni accigliate, solenni prese di posizione, editoriali inamidati su Repubblica, specie se si vive lontano dai quartieri difficili, dalle stazioni ferroviarie sempre più pericolose, dalle industrie annientate a causa della concorrenza cinese. Realtà alle quali la politica ‘rispettabile’ ha smesso di dare risposte da tempo, trincerandosi nel palazzo: ed ecco Pierferdinando Casini prontamente ricandidato in una lista alleata del Pd, assieme a personaggi eterei come Carlo Calenda, che non si sa per quale motivo dovrebbe scaldare i cuori dell’elettorato. Francesco Costa, in un interessante articolo uscito il 19 febbraio su Il Post, afferma che a questa (a tratti inguardabile) classe dirigente non c’è alternativa, poiché, di fatto, è la sola classe dirigente, a differenza dell’Armata Brancaleone di destra e dell’accozzaglia pentastellata. L’articolo finisce così:
 

«Posso permettermi di votare per “dare un segnale” o perché Renzi mi sta sul cazzo, posso votare per contestare una sola questione – che sia il caso Regeni o la gestione dei flussi migratori – infischiandomene del fatto che il ministro degli Interni Matteo Salvini e quello degli Esteri Carlo Sibilia proprio su quelle questioni avrebbero fatto e faranno molto peggio. Io lo posso fare, starò bene comunque, anzi, magari mi tolgo pure una soddisfazione. Se però siete donne, studenti, stranieri, genitori, malati, disoccupati, precari, disabili, omosessuali, non bianchi, se non potete vaccinarvi, o se avete a cuore la serenità di almeno una di queste categorie di persone, io ve lo dico, guardiamoci negli occhi: forse non ve lo potete permettere, di giocare col fuoco».


Opposta la visione di Marco Travaglio, che nell’editoriale Istruzioni per il voto uscito sul Fatto Quotidiano il 20 febbraio scrive:
 

«Ma, anche se è tutto già deciso alle nostre spalle, non è detto che la Banda Larga abbia i numeri per l’ennesimo golpe. Per strano che possa sembrare, dipende proprio da noi elettori. Purché conosciamo le conseguenze del nostro voto, che tutti si sforzano di spacciare per inutile e invece non è mai stato così utile. Chi non vota aiuta l’inciucio. Chi vota una delle liste di centrosinistra (Pd, +Europa, CP e Insieme) sceglie l’inciucio. Così come chi vota FI, NcI e Lega. Chi non vuole le larghissime intese ha quattro opzioni: M5S, LeU (sperando che Grasso non ceda alle sirene mattarelliane), Potere al Popolo (che però difficilmente supererà il 3%, dunque i suoi voti, senza alleati, andranno dispersi) e, a destra, FdI. Tutto il resto è Renzusconi».


Se fossi un risparmiatore di Banca Etruria starei con Travaglio; se fossi una delle categorie citate da Costa, starei con quest’ultimo. Ma la politica e la società sono molto più complesse rispetto a queste ‘analisi’ e nessuno sta dando risposte a quella larghissima fetta di italiani che non sa a chi rivolgersi per trovare soluzioni a problemi che, piaccia o no, esistono; meglio dedicarsi a promesse irrealistiche (abolizione delle tasse universitarie da Liberi e Uguali e riduzioni mirabolanti del carico fiscale dai berlusconiani) e populistiche (ancora gli 80 euro dal Pd e l’abolizione della Legge Fornero dalla Lega), nel più assoluto silenzio in merito ai problemi reali (debito pubblico alle stelle, disoccupazione, scarsa produttività).

Cartina al tornasole di questo deserto politico-sociale è, come sempre, la scuola, al cui ministero regna (ancora per pochi giorni) Valeria Fedeli, una sindacalista a malapena diplomata, incapace di esprimersi in corretto italiano, aperta sostenitrice di una scuola «inclusiva» in cui bocciare è quasi un reato, una roba da reazionari. Eppure Dio solo sa quanto disperato bisogno di meritocrazia c’è in questo Paese, dove una Paola Taverna qualunque può ragliare idiozie sui vaccini e dove un partito che si chiama Fratelli d’Italia può permettersi di minacciare il direttore del Museo Egizio di Torino, colpevole di essere troppo colto e di buon senso, a tutto svantaggio di Giorgia Meloni. Va però riconosciuta alla Fedeli la giusta condanna rivolta all’autovalutazione del Liceo Visconti di Roma, ben felice di presentarsi al pubblico come l’istituto della medio-alta borghesia romana: «Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alta borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi, richiamati dalla fama del liceo. Tutti, tranne un paio, sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile. Tutto ciò favorisce il processo di apprendimento». Verrebbe da chiamare ‘fascismo’ anche questo, se non fosse che ambienti del genere sono tipicamente radical-chic, «sinceri democratici» fino a quando i brutti, sporchi e cattivi rimangono fuori dal cortile di casa.
 

È proprio a questi brutti, sporchi e cattivi che una sinistra degna di tal nome, una destra autenticamente liberale e un centro realmente ‘cristiano’ dovrebbero parlare


Eppure è proprio a questi brutti, sporchi e cattivi che una sinistra degna di tal nome, una destra autenticamente liberale e un centro realmente ‘cristiano’ dovrebbero parlare, mentre oggi a riempire il vuoto di proposte ci sono solamente gli ultraradicali, con il loro settarismo, le loro parole d’ordine, la loro pericolosa fascinazione. Ed è in questi vuoti che Forza Nuova ha potuto emanare, nella più assoluta tranquillità, il seguente comunicato:
 

Sarà politicamente scorretto, sarà sconveniente, in campagna elettorale nessuno farà un passo avanti, ma oggi noi ci schieriamo con Luca Traini. Il ragazzo marchigiano arrestato poche ore fa con l’accusa di aver ferito degli immigrati. Questo succede quando i cittadini si sentono soli e traditi, quando il popolo vive nel terrore e lo Stato pensa solo a reprimere i patrioti e a difendere gli interessi dell’immigrazione. Mettiamo a disposizione i nostri riferimenti per pagare le spese legali di Luca, a non farlo sentire solo e a non abbandonarlo. Già ci immaginiamo le condanne dell’Anpi, degli antifascisti vari e di chi serve la causa della sostituzione etnica. Già sentiamo lo sdegno dei palazzi e dei salotti tv. Noi invece abbiamo nelle orecchie il pianto straziato della famiglia di Pamela e il grido di rabbia di un’Italia che vuole reagire e non morire d’immigrazione.


La runa celtica tatuata sul volto di Traini era il simbolo di Terza Posizione, movimento neofascista eversivo fondato nel 1978 da Roberto Fiore, attuale leader di Forza Nuova, partito regolarmente candidato alle elezioni del prossimo 4 marzo. Provate ancora, se avete il coraggio, a dire che il pericolo nero non esiste.


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