Fotografare l'impossibile

Su Fotogrammi di un film horror perduto di Helen McClory, raccolta di racconti nel mistero della brevità

Una raccolta che con effetti immediati è capace di trasportare in mondi assurdi il lettore, con racconti di una brevità a tratti stupefacente che riescono a evocare in quel piccolo spazio scenari strambi, territori unici già abitati da creature mitologiche o allucinati attimi di vita quotidiana che acquistano la stessa consistenza di un sogno che ricorderemo per mesi. In Fotogrammi di un film horror perduto di Helen McClory, flash fiction e fantastico si fondono dando vita a una creazione multiforme e imprevedibile. Racconti brevi con meno di mille parole, ma che riescono a costruire un immaginario perfettamente funzionante. Pubblicata da Il Saggiatore, l’opera è l’esordio dell’autrice scozzese, grazie alla quale nel 2015 ha vinto il Saltire Prize.

Il talento di McClory sembra essere proprio l’imprevedibilità, un coltello affilato con cui trancia una dimensione impossibile dopo l’altra. Fotogrammi è una carrellata di esplosioni improbabili e di scenari inaspettati. Nessuno di questi racconti è mai davvero privo di quella carica radioattiva che non esiterei a definire parente strettissima del new weird. Il titolo originale della raccolta, On the Edges of Vision, è forse la chiave, la mappa, per comprendere come attraversare i territori più o meno conosciuti in cui Helen McClory trascina il lettore. Si tratta della capacità di infiltrarsi in fessure, spazi minuscoli dove qualcosa di incredibile sta avvenendo, anche se per la durata di un battito di ciglia. Barcollare sulla soglia, intravedere l’assurdo dal buco della serratura.
 

«Sei il diavolo?» chiede Bernina. Lui sembra sorpreso. Poi s’acciglia. «Assaggia un po’ di torta» gli dice, afferrando il cucchiaino dal suo lato, «ti aiuto io, così finiremo entrambi il nostro lavoro». 
«Nessuno l’ha mai capito tanto in fretta, Bernina».
 

La fantasia di McClory è distruttiva perché disorienta il lettore in scenari completamente diversi tra loro, trascinandolo in diner, motel, picnic o zone desertiche. In Fotogrammi ogni spazio, ogni luogo, racchiude in sé dei segreti, delle manifestazioni, stregonerie o creature nascoste, spesso palesemente alla luce del sole. Due racconti che ben raffigurano questa sensazione di minuscola ma efficiente claustrofobia letteraria sono Divinità domestica e Sirene sessualmente frustrate, due scenari ai margini del sogno, diversi tra di loro. Nel primo una madre prepara una ricetta mentre fuori dalla sua abitazione, o dentro la sua mente soltanto, una città circondata da dune offre al mondo delle vittime sacrificali:
 

Alcuni sopportano di essere un’opera di fantasia, dato che le cose accadono comunque.


Il secondo invece, meno onirico e tormentato, è una cinica riflessione sulla vita delle sirene, i loro crucci e i loro appetiti sessuali che non riescono a trovare sfogo proprio perché sono sirene:

 

Ma sono anni che le sirene non annegano nessuno. Vedi, manca un passaggio, fra il momento in cui trascini un ragazzo sott’acqua e quello in cui fai sesso con lui. Quindi che cos’è un omicidio di per sé? Un modo per eccitarsi? Non sono così perverse.

 

Helen McClory crea uno scenario, lo riempie di assurdo e lascia che questo cresca. Come lanciare un seme nella terra e scoprire cosa ne verrà fuori. La brevità acuisce questa sensazione, il lettore barcolla e non si è ancora rimesso in piedi che viene spinto di nuovo nell’ennesima situazione ai limiti dell’ordinario. Come nelle storie di Angela Carter in cui l’ordinario è già strano e corrotto di natura, così anche per McClory sembra che raccontare significhi dimostrare che non c’è alcun riparo, neanche nelle situazioni apparentemente più normali. Per questo, nella maggior parte dei casi, entrambe riescono ad abbandonare il lettore in narrazioni fantasmatiche che sì, possono essere immaginate, ma che nessuno vorrebbe vivere davvero. Andare a scavare nello strano e nell’impossibile significa sollevare mondi difficili da raccontare. I territori del sogno e dell’incubo non sono certo zone capaci di offrire svago e spensieratezza; come minimo sorpresa, ma più probabilmente orrore.

Difficilmente però, per quanto strani, gli episodi impossibili di McClory potranno generare davvero inquietudine. Uno dei primi racconti, Di quella volta che mi hai tagliato la mano e poi l’hai servita come se fosse prosciutto, chiarisce fin dall’inizio in che acque stiamo navigando. Trovarsi una mano, la propria mano per giunta, in tavola, pronta per essere affettata e gustata, non provoca alcun tipo di brivido. Forse fa un po’ male liberarsene, inutile negarlo, ma il risultato è soltanto strano. C’è qualcosa di particolare, di suggestivo nell’avere una mano. Ma non si crea inquietudine, non c’è una frattura tra il prima e il dopo. Soltanto, c’è qualcosa di nuovo da mangiare.
 

Andare a scavare nello strano e nell’impossibile significa sollevare mondi difficili da raccontare


In qualche racconto si ha l’impressione di essere finiti in un film horror di serie B, in una produzione apparentemente sgangherata ma magnetica, capace di trattenere, volente o nolente, uno spettatore magari capitato lì per puro caso. Conflagrazione, un racconto brevissimo ma inarrestabile, potrebbe benissimo essere un fotogramma di un assurdo film in cui potremmo imbatterci dopo mezzanotte: una ragazza dà fuoco a un uomo, fugge in mezzo al grano, l’uomo si alza in piedi di nuovo, illeso e senza memoria. Ne Il museo dei dolori invece, ci si ritrova dritti dentro una scenografia, o dietro le quinte del film stesso, seguendo i gesti di un individuo, il diavolo, che con gesti laconici passeggia nel suo museo:
 

Doveva restare lì ancora un altro po’. Per distrarsi accarezzava le chiavi, chiedendosi: che differenza c’è tra un supercattivo e un mostro? Be’, un certo margine di scelta.


La fauna che abita il mondo di Helen McClory si nutre di qualsiasi suggestione, sogno e mitologia. Per questo andare in esplorazione è ancora più divertente e caleidoscopico. Saltare da un racconto all’altro, correre e attraversare i confini assurdi è liberatorio. Fotogrammi di un film horror perduto è un manuale su cosa è possibile immaginare e quanto per un lettore sia possibile lasciarsi trascinare nell’altrove. Sbirciare negli altri mondi è un toccasana per lettori assuefatti ai soliti e, benché funzionanti, ovvi meccanismi del fantastico. Per Helen McClory il viaggio verso l’altrove è semplice e repentino, per questo offre ai suoi lettori un metodo per goderne appieno. Senza dover scomodare topografie, leggende o profezie, bastano pochissime frasi per creare un portale, o soltanto il buco della serratura per osservarlo. Neanche trovare il diavolo in un diner è un’esperienza negativa, ma solo la dimostrazione che bisogna essere pronti ad affrontare qualsiasi tipo di stranezza le possibilità siano pronte a offrirci.


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