Esumare desideri dalle macerie

Il terremoto di Messina in Trema la notte di Nadia Terranova, tra destini capovolti e miraggi sullo Stretto

Il 28 dicembre 1908 la terra trema e tutti gli elementi sono avversi. Messina e Reggio Calabria cadono come fichi maturi dal ramo e allo stesso modo s’aprono, rivelando il frutto che è ormai appassito. Il mondo liscio e senza faglie, coeso in ogni sua parte, si sfalda. Con lui si sfarinano le felicità e le tristezze, le ricchezze e le povertà, i destini tutti. La vita diventa sostanza duttile e materia da plasmare, i corpi fantasmi senza peso né forma. Eppure c’è una falla nella falla: nella tragedia, uno squarcio di luce. Chi, nel mondo di prima, era schiavo dei metodi e dei ruoli, colonizzato persino nei sogni e nell’immaginario, ha una possibilità: soverchiare le sorti, ricongiungersi ai desideri più insperati.

È così per Barbara – protagonista di Trema la notte (Einaudi Stile Libero, 2022), ultimo romanzo di Nadia Terranova – arrivata in treno dalla provincia a Messina, le guance accese dei vent’anni, il cuore pure. Prima che tutto cadesse sognava una fuga dal padre e dal futuro che le era capitato in dote: un matrimonio combinato con un uomo di cui non è innamorata. È così anche per Nicola, bambino sfortunato, la cui storia si specchia parallela sull’altra sponda dello Stretto, a Reggio Calabria. Il terremoto lo sottrae alla cantina e al catafalco su cui dorme ogni notte legato, mani e piedi, per tenersi al sicuro dalle cattive credenze, «dai diavoli o dalle donnacce» che spaventano la sua famiglia.

 

Un attimo prima di voltare le spalle alla notte, il mare si mosse. Una polifonia mi attraversò le orecchie, il pavimento crollò insieme ai detriti della mia casa e con loro precipitai su una catasta di rovine.
Il mondo come l’avevo conosciuto finí e ogni cosa amata e odiata disparve.


Quando il desiderio di libertà esplode è notte («Alle cinque e ventuno, a Messina, città mio desiderio e meta, mia origine e scelto destino, capitale e antitesi del paese da cui scappavo, i vivi non esistevano più. Solo i morti e i morti viventi»). Non a caso è nell’ora dei sogni in cui tutto si muove e tutto cade. Il mondo disperatamente corrotto e intossicato di regole vacilla e fa macerie. Le città escono agonizzanti: le case incenerite, le travi divelte, gli acquedotti sradicati. Ciò che era adesso è sommerso e faticoso da disseppellire. Uno scenario che ha sembianze di finitezza più dei lasciti della guerra. La piccola Apocalisse dell’Uomo: trovarsi senza vita o senza niente, che è la stessa cosa. Oppure trovarsi soli e non sapere se appartenere alla vita o alla morte. Anche qui, la differenza è scarna. Tra i vivi e i morti, all’indomani della tragedia, non è chiaro a chi dei due si intesti la fortuna.

 

Allora il tempo smise di esistere. Spariti la notte e il giorno, le lancette e gli orologi, i diavoli e le streghe, i falò e i gatti sanguinanti. Nella torbida immobilità del silenzio si alzava di tanto in tanto un mugghiare spezzato, echeggiavano miniature seriali del grande boato trascorso, nuove brevi scosse senza mai una voce, mai un verso. Là fuori dovevano essere morti tutti, persone e animali. Morti gli oggetti, le case, ogni organismo, ogni cosa visibile e invisibile. E Nicola, apparteneva alla vita o alla morte? Dove finisce la linea che le separa, se nessuno può ascoltarti?


Barbara e Nicola camminano adesso sui resti del passato, incolpando le proprie speranze per ciò che è accaduto. Volevano sfuggire alla vita che qualcuno aveva scelto per loro. Lo desideravano follemente. Eppure, ce lo insegnano le favole: la sostanza dei desideri è molle, prende le forme più bizzarre, spesso le più estreme e catastrofiche. Il terremoto arriva come un soffio che spariglia le carte, metafora ricca in questo romanzo che ha i capitoli intitolati ai ventidue Arcani dei tarocchi (L’Appeso, La Luna, La Ruota della Fortuna ecc.), quasi a ricordarci che i desideri sono forme archetipiche, sistemi simbolici, noccioli vivi, germoglianti. 

Una carta, tra le altre, si mostra nella storia a far riflettere. È Madame a pescarla dal mazzo, personaggio indimenticabile, donna d’ingegno e di mistero col vezzo per gli affari magici. Quando prima del disastro parla a Maria, la madre di Nicola, gliela palesa davanti: è la carta del diavolo che subito instrada al sospetto. Forse ha ragione Maria, forse davvero il diavolo vuole prendersi Nicola, strapparglielo via di notte, quando il buio spegne pure la speranza. Non sa, Maria, che nel suo nome greco, diabàllo, significa mettere in mezzo, separare. Ecco allora l’immagine altissima che salta dalle pagine: la dualità, il contrasto che è solo illusorio tra il femminile e il maschile, e in mezzo: lo Stretto, cerniera aperta tra uno e l’altro mondo. Luogo di attraversamento e di reminiscenze mitiche dalla geografia smarginata dove foschia e vapori densi ingannano persino lo sguardo. Come accade nel fenomeno ottico chiamato ‘Fata Morgana’, che appare tra Calabria e Sicilia come uno spettacolo magico facendo risorgere per brevi momenti i miti e tutte le storie antiche. Quando l’aria tersa si fa lente di rifrazione la percezione dello spazio si distorce, e prende vita la leggenda: dalla Sicilia la lingua di mare si apre al miraggio e dal nulla compare sullo Stretto la città irreale, con l’altra sponda di terra insolitamente vicina («Il mio mare è diverso, ti spinge indietro come uno specchio»). È a un margine dello Stretto dove i due, Barbara e Nicola, si incontrano in quello che è il vero cuore del romanzo: è lì dove la storia pulsa sangue all’indomani della tragedia; è lì che i due si guardano e si riconoscono. Categorie narratologiche sublimi: i corpi che desiderano e muovono storie e spostano i venti e fanno crollare case e vite. I corpi che non si rassegnano all’impotenza, ma trovano il modo di esaurire le loro passioni.

 

Nessuno avrebbe più potuto decidere al posto di qualcun altro cosa era giusto fare, il desiderio al quale fino al giorno prima avevo anelato, essere libera, ecco: l’avevo ricevuto.


Ancora una volta, Nadia Terranova si immerge nella tragedia per sublimarla in letteratura. La terra del romanzo si apre soprattutto alla forza della sua scrittura, che è il vero terremoto, la vera scossa. Sisma che mescola e arrimina e riesuma cose che si credevano morte: la grandezza tutta meridionale del rapporto con i luoghi, più letterari che geografici, «l’estinta gloria» delle città, spazi significanti che si deformano come corpi vivi. Nel suo romanzo precedente, Addio fantasmi (Einaudi Stile Libero, 2018), Terranova scriveva: «Non siamo qui per seppellire, ma per esumare», esplicitando il senso del suo lavoro. Dissotterrare: l’audacia titanica della letteratura che scava e scava, intestandosi il compito di svelare le profondità.

 

Nadia Terranova si immerge nella tragedia per sublimarla in letteratura. La terra del romanzo si apre soprattutto alla forza della sua scrittura, che è il vero terremoto, la vera scossa

 

Qui l’operazione è massimamente dichiarata: i fantasmi sono di carne e di ossa e aspettano solo di essere trovati. I superstiti non sono coloro che sopravvivono, ma coloro che tirano fuori il buono dalle macerie. Come quando Barbara trafuga dal sepolcro distrutto la foto di Letteria Montorio, scrittrice messinese e autrice di Maria Landini, il romanzo che per primo le ha ispirato il coraggio quando aveva scelto di opporsi alle scelte del padre. Fatta salva la foto, ne fa salva la memoria: Letteria Montorio non sarà cancellata «come sempre sono cancellate le storie delle donne». Con Trema la notte Terranova fa salva anche un’altra cosa, la capacità prodigiosa che è dei grandi scrittori e delle grandi scrittrici: inventare piccole vite indimenticabili, metterle al centro, ingrandirle fino a trovare i punti di coincidenza con le altre storie, individuali e collettive. E a quel punto, il mondo parallelo dell’invenzione diviene il mondo stesso, e tutti noi i suoi memorabili personaggi.
 



In copertina la distruzione a seguito del terremoto di Messina (dicembre 1908)


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