Don’t Touch My Schengen

La fragilità di Schengen e i nazionalismi minano le sorti dell’Europa

Il Trattato di Schengen è uno dei risultati più importanti conseguiti dall’Unione Europea. La libera circolazione delle persone assume un significato del tutto particolare in una realtà che ha sperimentato la distruzione causata da due guerre devastanti e la vergogna di un muro tirato su in fretta e furia nottetempo, crollato finalmente sotto i colpi del desiderio di libertà. Sono quegli eventi ad avere ispirato l’ideale di un’Europa unita e solidale, democratica e aperta, ma la paura sembra obliarne il ricordo.
Gli attentati di Parigi sono stati un’autentica occasione per i nazionalisti. Senza alcun riguardo, hanno speculato sulla violenza per alimentare la paura e perorare la propria causa di homo homini lupus. Da ogni parte si sono levati in disordine annunci di iniziative unilaterali contro il rischio del terrorismo veicolato dall’immigrazione. In virtù delle frequenti eccezioni che caratterizzano le normative europee e le rendono spesso del tutto inutili, la «minaccia grave per l’ordine pubblico e per la sicurezza interna» ha condotto la Francia ancora dolente per gli attacchi terroristici a ripristinare i controlli alle frontiere. Per non essere da meno, anche la Germania, l’Austria, la Slovacchia, la Repubblica Ceca e i Paesi Bassi hanno ripristinato, ciascuno con il proprio estro e la propria dose di nostalgia, i controlli alle proprie frontiere, siano essi sistematici o a campione. Per questo, oggi Schengen corre seriamente il rischio di dissolversi.

L’obiettivo coraggioso del Trattato di Schengen è di «abolire controlli interni tra gli Stati firmatari e di creare una frontiera esterna unica» lungo la quale porre in atto controlli con le stesse modalità, al fine di garantire la sicurezza ai cittadini europei ma anche consentire loro di sentirsi a casa in ogni angolo d’Europa. Se da una parte l’introduzione della libera circolazione delle persone nell’acquis definito dagli accordi ha portato indubbiamente ad un risultato senza precedenti, non si può certo dire altrettanto del controllo delle frontiere esterne. Tra le tante condizioni che gettano ombre sul futuro dell’Unione Europea e ne pregiudicano la stabilità c’è l’inusitata ondata migratoria che sta interessando la frontiera meridionale ed orientale. Il flusso di migranti si riversa sui confini europei ormai da mesi, senza che ancora si sia trovata una linea di intervento condivisa per affrontare e contenere la pressione, portando avanti al contempo l’impegno umanitario che ha da sempre distinto l’UE. Ma la pressoché completa assenza di coordinamento delle politiche migratorie non è certo imputabile alle istituzioni europee, bensì è il rovinoso risultato della miopia sciovinistica degli Stati membri, che rendono impossibile agire in maniera coordinata ed equa.
I famosi piani di ricollocamento dei richiedenti asilo non sono mai entrati concretamente in vigore. Gli hot spot per l’identificazione nemmeno. La ragione è una sola: non c’è un organismo a livello europeo che abbia potere decisionale che non sia intaccato dalle pretese particolaristiche degli Stati membri. Diffusamente, gli Stati hanno ritenuto opportuno prendere le proprie contromisure per limitare l’afflusso di migranti ed evitare il free riding degli altri membri.

La Germania, dopo una plateale e appassionata dimostrazione della Wilkommenskultur ripristina pro tempore i controlli alle frontiere con l’Austria, e fa i conti con l’imbarazzo politico della notte di Capodanno a Colonia, mentre foraggia con più di due miliardi la Siria. L’Italia, che ormai da anni fronteggia gli sbarchi sulle proprie coste meridionali, riesce ad ottenere nel tempo solo minimi impegni dall’Unione Europea, ma forse anche perché continua a mirare alla cieca contro gli eurocrati. La Danimarca si spaventa, e chiude i propri confini, come tutto il Nord Europa, che dimentica come si fa ad accogliere e si isola e si disinteressa. Il Regno Unito negozia accordi per mantenere i benefici della propria presenza nell’Unione e disfarsi di tutti gli oneri, migranti compresi. A Calais ne sanno qualcosa, e allora i francesi cercano almeno di fermare gli ingressi irregolari alla frontiera di Ventimiglia. L’Austria, stretta tra due fuochi, si trincera sospendendo Schengen anch’essa. E poi c’è Visegrad, gli ultimi che si credono primi. Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e, dulcis in fundo, l’Ungheria del «dittatore» Viktor Orbán, il visionario del filo spinato e della grande muraglia. Accomunati dall’essere tra i maggiori beneficiari rispetto al proprio PIL delle risorse del Fondo sociale europeo, questi Stati orfani dell’URSS si trovano anche d’accordo sull’opporsi ad alcune politiche dell’Unione Europea, come quelle climatiche. E sfruttano il fervore xenofobo e la paura della povertà che hanno vissuto per porre ciascuno in atto qualche puntuale modifica illiberale ad hoc che suscita troppo caute perplessità in Europa. Senza dimenticare che un po’ dappertutto si sono affermati partiti euroscettici e razzisti.

Dinanzi all’evidenza dei rischi a cui l’Unione Europea è esposta, è necessario affermare ancora con più forza che bisogna procedere verso una maggiore integrazione politica. Il Trattato di Schengen deve rimanere in vigore. La risposta al terrorismo e all’immigrazione di massa non è ritornare a deleterie politiche beggar-thy-neighbour questa volta applicate ai flussi di migranti, che sono destinati a essere un fenomeno che perdurerà nel tempo. In virtù della frontiera comune che si è stabilita ai bordi dell’Europa, l’impegno deve essere condiviso. La situazione critica attuale deve convincere ancora di più della necessità di avere un unico corpo di polizia di frontiera, che riesca a cooperare con efficacia per prevenire la criminalità e il terrorismo, proprio perché governato da un unico organismo. Allo stesso modo, gli hot spot non possono essere l’unica soluzione alla gestione dell’immigrazione, ma devono essere integrati da una politica di ricollocamento equa che, naturalmente, venga implementata. L’Europa può contrastare il terrorismo se rimane coesa, e può essere più solidale verso il resto del mondo e garantire il welfare dei propri cittadini solo se gli Stati acconsentono, su materie fondamentali come l’immigrazione, a rinunciare finalmente alla propria sovranità, prima che sia troppo tardi.


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