Diocleziano

Salona, 22 dicembre 243 – Spalato, 3 dicembre 311

Nell’ultimo macello dell’Anarchia militare (235-284) sarà l’imperatore dei soldati l’ultimo superstite: allora, per regolare  finalmente la successione evoca dai suoi generali un Augusto, Massimiano, e due Cesari, Costanzo e Galerio – è la Tetrarchia; allora, sull’epilettico III secolo s’impone l’opera di rigenerazione e riforma cui Diocleziano, forte d’un senso fatale dello Stato, si consacrerà. Rigenerazione nelle armi: sui barbari del Danubio, sugli usurpatori d’Egitto e Britannia, sui ribelli siriaci e mauretani e fin contro la nemesi persiana Roma adesso prevale; riforma della struttura dell’impero in quattro prefetture, quattro capitali senza più l’Urbe, dodici diocesi, centouno province; della burocrazia autonoma dalle armi, dell’esercito accresciuto d’un terzo, retto da duces tutti militari sul limes e dotato d’un agile comitatus imperiale; del sistema fiscale, universalmente rifondato sull’imponibile dato dal rapporto tra terra coltivabile (iugum) e numero di lavoratori (caput); della moneta, dei prezzi invano calmierati a suon d’editti. Infine, delle forme del potere: svanisce l’ascendente senatorio e dalle ceneri del princeps sorge, in porpora e diadema, l’imperatore dominus et deus. È il Tardo Antico, è il Dominato che Diocleziano Iovius – persecutore dei cristiani –  vorrà, come prescritto, abbandonare (305) né più riassumere, nemmeno quando già scricchiola la Tetrarchia (308), perché – dice – ha da fare nell’orto. 

 

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