Blade Runner 2049 e Dunkirk: pregi e difetti del blockbuster d'autore

Nolan, Villeneuve e la confusione di Hollywood tra grandi incassi e sguardo autoriale

Molti addetti ai lavori e critici cinematografici si sono avventurati in un’analisi del panorama hollywoodiano, tentando di spiegare idee e tendenze delle grandi produzioni americane, in altalena perenne tra grandi regie d’autore e grandi incassi. Schematicamente, possiamo dividere il mondo del cinema americano in due blocchi ben separati che ci aiutino ad analizzare la questione.
Il primo blocco è costuito dai blockbuster. Cinema di intrattenimento puro, fondato su elementi mainstream, con ampi budget e con un obiettivo specifico: garantire un vasto pubblico in sala e massimizzare i profitti. In questi ultimi anni ci siamo trovati di fronte a blockbuster 2.0, flessibili, in costante aggiornamento e in grado di creare dei franchise, come nel caso dell’universo Marvel, o di riesumare vecchie opere cult e riproporle al pubblico: il caso principe è Star Wars, ma si può anche pensare a Blade Runner o al recentissimo It, insomma ce n’è per tutti i gusti.
Dall’altra parte c’è un immenso calderone di pellicole che, in maniera semplice e brutale, chiameremo film d’autore. In questo blocco troviamo pellicole con buget minori, ma con sostanziale libertà creativa, essendo meno vincolate agli obiettivi commerciali. Sono la tipologia di film che va da pellicole comunque di cartello, dati i nomi di autori importanti, garanzia di visibilità, fino ad un vero e proprio cinema di nicchia, che si muove sotto i riflettori.
 

Nelle produzioni degli ultimi anni il cinema hollywoodiano ha scelto di convogliare i suoi più grandi sforzi economici proprio in una “zona buia” a cavallo tra blockbuster e film d’autore


La linea che divide questi due grandi blocchi è labile, lo è sempre stata, ma ultimamente il cinema hollywoodiano vede convogliare i suoi più grandi sforzi economici proprio in questa “zona buia”, a cavallo tra blockbuster e film d’autore. Pensiamo Christopher Nolan. L’autore inglese arriva sul grande schermo con film come Following (1998), Memento (2000) e Insomnia (2002), decisamente delle pellicole autoriali e con budget minori rispetto al resto della sua filmografia. Dopodiché propose alla Warner Bros di girare una trilogia legata a Batman, e qui il suo approccio cominciò a mutare. Con Batman Begins (2005) Nolan mantiene un’impronta simile a quella dei suoi primi lavori, ma dopo Il cavaliere oscuro (2008), forse il suo ibrido meglio riuscito per qualità autoriale, e Inception (2010), il suo film che più si avvicina ai canoni del blockbuster vero e proprio, comincia a cambiare il suo modo di pensare il film. La trasformazione definitiva arriva con Il cavaliere oscuro - Il ritorno (2012), una pellicola ibrida “alla Nolan”. Dalla trilogia di Batman in poi si apre la seconda fase della carriera del regista britannico, con un’altra opera mastodontica come Interstellar (2014) e con il suo ultimo film Dunkirk (2017).

Nolan passa da film a costo contenuto, con personaggi particolari, dialoghi più approfonditi e soluzioni di trama più stimolanti a dei film altamente spettacolari, con un’incredibile potenza visiva, ma trovandosi costretto a modificare tutto il resto al servizio dell’obiettivo della casa di produzione. Il merito di Nolan è stato quello di riuscire a mantere un suo personale modo di pensare il film, al contrario di altri autori, che hanno prodotto un lavoro onesto, ma impersonale. Questo approccio però lo ha portato a sacrificare gran parte delle sue qualità creative e autoriali. Per fare un esempio importante, nella sua idea originale Dunkirk doveva essere privo di script, ma la moglie Emma Thomas e lo scenografo Nathan Crowley lo hanno fatto desistere. Il risultato è un film in cui si percepisce la volontà di creare qualcosa di nuovo, ma che resta a metà. Si passa da riprese entusiasmanti che testimoniano la scelta dell’autore di raccontare un episodio storico con un occhio che esalti le immagini, in contrasto con battute inutili e intrecci drammaturgici al limite del ridicolo, che riconfermano tra l’altro tutti i difetti di scrittura palesati già in Interstellar. Eppure dal punto di vista produttivo “il film alla Nolan” funziona. Il grande nome dell’autore e la sua credibilità permette al film di raggiungere gli obiettivi commerciali previsti, riuscendo a riempire le sale al di là dell’involuzione delle sue pellicole. Poco importa se lo spettatore si dimentica il film già la mattina dopo averlo visto.
 

Al di là della sua forma ibrida dal punto di vista produttivo “il film alla Nolan” funziona: il grande nome dell’autore e la sua credibilità permette al film di raggiungere gli obiettivi commerciali previsti,  riuscendo a riempire le sale al di là dell’involuzione delle sue pellicole


Produrre questo tipo di blockbuster ibrido, che strizza l’occhio al film autoriale ma che di fondo rimane una pellicola fruibile con le modalità del film di intrattenimento, costituisce un rischio, ma il grande autore è capace di minimizzarlo. Il rischio diventa grande quando l’autore non è in grado di gestire un tipo pellicola troppo ingombrante con una libertà già limitata. A fine ottobre è uscito nelle sale Blade Runner 2049, il seguito del film cult del 1982. Il film è prodotto da Ridley Scott, regista del primo capitolo, la scrittura è firmata dallo stesso sceneggiatore del primo film, Hampton Fancher, e alla regia c’è uno degli astri nascenti del cinema del ventunesimo secolo, il canadese Denis Villeneuve. A coronare delle premesse che già sembrano stellari, la produzione decide di mettere in piedi una campagna di promozione importantissima, anticipando l’uscita del film con tre cortometraggi gratuiti mirati a legare i fatti narrati nel capitolo primo con questo secondo. I primi due sono incentrati su due personaggi del film – 2036: Nexus dawn e 2048 Nowhere to run, entrambi lunghi più o meno cinque minuti –, il terzo è invece lungo il triplo degli altri due ed è un anime diretto dal leggendario Shinichirȏ Watanabe, creatore di Cowboy Bebop.

Blade Runner 2049 è visivamente impressionante, con una fotografia e una regia di spessore e con una o due scene da brividi, ma questo non basta a raggiungere gli obiettivi commerciali previsti e il pubblico non risponde come ci si attenderebbe. E allora cos’è che non ha funzionato? L’idea del film ibrido deve poggiare su delle basi solide e molte volte gli elementi su cui si basa il blockbuster non valgono anche per il film autoriale. Quando si deve creare un franchise o riprendere in mano del materiale ormai lasciato in cassetto per anni si usa fare leva su degli elementi precisi: c’è la riprosizione di atmosfere, ambienti, personaggi e situazioni che si possono interfacciare con quelle legate ai prodotti precedenti per poi cercare, man mano che il pubblico comincia a riprendere confidenza, di rimodellarli in chiave moderna, proponendo situazioni nuove (diciamo seminuove) e riattualizzando la psicologia dei personaggi. Ci si avvale del volgarmente detto “effetto nostalgia”. Quando lo si fa però si paga un debito con la pellicola precedente e nel caso di Blade Runner già troviamo delle fragilità: il primo film fu un insuccesso incredibile quando uscì e in più si è arrivati al montaggio finale di Scott solo nel 2007, a testimonianza di un percorso artistico complesso e contraddittorio.
Blade Runner 2049, così come la casa di produzione ha pensato di realizzarlo, schiaccia il regista e si impone su di lui, mettendogli a disposizione una storia sterile, piatta, che sembra andare avanti per poi fermarsi bruscamente e ruotare intorno a quelle che sono le idee già viste trent’anni prima. Tutto ciò perchè si è al servizio dell’intenzione di un nuovo franchise, il cui spirito irrompe sullo schermo ricordando a tutti che il profitto è più importante della creatività. Tutto si risolve in una pellicola monca, che vede nella ricomparsa di Rick Deckard la definitiva ghigliottina artistica, un brutto finale e un risultato, nel complesso, mediocre.
 

I fallimenti di Dunkirk e Blade Runner 2049 sono il risultato di una grande confusione nel mondo hollywoodiano


Questo fallimento è il risultato di una grande confusione nel mondo hollywoodiano. Invece di giocare su questa linea sottile, essa sembra più che altro un fosso in cui entrambe le tipologie cinematografiche sprofondano e non riescono più a dare al pubblico un prodotto di qualità. Nel caso di Dunkirk il fallimento è solo artistico, mentre con il caso di Blade Runner 2049 suona un, speriamo beneaugurante, campanello d’allarme. Forse bisogna tornare ad essere onesti quando si pensa un film, senza cercare forme ibride che non permettono sbocchi cinematografici solidi e sfornano pellicole inutili. Specialmente se il risultato è un prodotto altalenante nelle intenzioni: profitto o qualità creativa? In attesa di un giudizio lasciamo spazio a Scorsese, che con Irishman (uscita prevista per il 2018) tornerà a mettere in scena un film a tema mafioso a vent’anni da Casinò, riproponendo Pesci, De Niro e Al Pacino nei ruoli di quei gangster che ebbero tanto successo decenni fa. Magari dopo il settantenne George Miller, che con il suo Mad Max: Fury Road è riuscito brillantemente a creare un reboot dal sapore autoriale, sarà un altro vecchio del cinema ad indicare la via.


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