Sicilia terra di mischini e cornadure

Un viaggio tra Sicilia e Calabria a bordo di una vecchia Ritmo in "Malùra" di Carlo Loforti

«È il centoventottesimo giorno consecutivo che nessuno prova ad abusare sessualmente di me, ed è con questo record che mi appresto a lasciare il carcere». Ci sono pochi scrittori che comincerebbero il proprio romanzo con queste parole, uno di questi è Carlo Loforti, palermitano di razza. Lo fa con quel misto di coraggio e incoscienza che contraddistingue il suo protagonista: Mimmo Calò. Mimmo l'avevamo incontrato per la prima volta in Appalermo, appalermo!, il romanzo d’esordio di Loforti in cui una serie di pessime scelte lo avevano messo sulla cattiva strada, e lo ritroviamo 13 mesi di carcere dopo nel seguito Malùra, uscito il 2 novembre per Baldini&Castoldi. Calò, ex star di una trasmissione sportiva locale, in questi 13 mesi ha perso tutto: il lavoro, la moglie, il suo migliore amico Pier Francesco, che non lo è mai venuto a trovare. Fuori dal carcere lo aspetta soltanto un criminale che aveva tentato di violentarlo in cella, pronto a trascinarlo di nuovo nel mondo della malavita, suo malgrado.
L’unico appiglio di normalità che rimane a Mimmo è il padre Pietro, separato dalla moglie in tarda età e separato anche dal migliore amico di una volta, Fefè, a causa di una rottura apparentemente insanabile di tanti anni prima. E siccome questa rottura con Fefè non se l’è perdonata mai, Pietro decide di fare un patto con il figlio: quando lui andrà a fare pace con Fefè, Mimmo farà pace con Pier Francesco. Un patto che Mimmo accetta disilluso finché il padre, per parlare faccia a faccia con Fefè, non organizza un viaggio alla volta della Calabria a bordo di una Ritmo dell’88 di proprietà di Pier Francesco, con cui Mimmo si trova a dover a fare i conti.
 

Da Appalermo, appalermo! fin dentro a Malùra, lo scrittore siciliano intride le sue avventure del sangue e del fiato della propria terra


Cos’è la malùra? È «uno stato fisico ed emotivo di crisi profonda, in cui la stessa sopravvivenza dell’individuo è messa in discussione». La crisi in cui si trova Mimmo Calò, un personaggio drammatico quanto forte, assolutista e ingombrante fino al punto che un libro solo non bastava, a Loforti, per esaurire la sua storia. Da Appalermo, appalermo! fin dentro a Malùra, lo scrittore siciliano intride le sue avventure del sangue e del fiato della propria terra, tanto che alla fine del libro ritroviamo il glossario di dialetto palermitano che caratterizzava anche il primo romanzo – un glossario che ci spiega con irresistibile ironia sicula termini come cornadure, fermo, mischino, sciddicare. E questa ironia, sardonica e senza speranza, se la porta dietro Mimmo nel raccontarci le sue (dis)avventure e la sua visione del mondo dogmatica e politicamente scorretta. Come quando, per insultare una bambina sola, prende a insultare i bambini tutti.
 

I bambini non sono quello che ci hanno fatto credere. Perché gli under dieci hanno pure loro lati oscuri, altro che voce della verità. Sono subdoli. Egoisti – provate a negarlo. Lamentosi, cinici, senza peli sulla lingua – in modo definitivamente poco elegante – riluttanti all’igiene, scrocconi, egocentrici e tutta una serie di altre cose che attribuite a un adulto concorrerebbero nel definirlo come una merda totale. Ma i bambini no. Ai bambini gli facciamo passare lisce tutte cose.
E poi c’è una cosa che nessuno, nessuno proprio, si decide a confessare sui bambini; pure che in molti se ne sono accorti, c’è una specie di segreto che impedisce di rivelarlo, perché le conseguenze sarebbero potenzialmente disastrose: la sessualità dei bambini è molto è più spiccata di quello che crediamo.
In definitiva, senza girarci intorno, i bambini sono seduttivi. I maschietti sono dei marpioni e le femminucce delle oche o, come nel caso di mia figlia Carla, delle pullazze di primissima categoria.



Nelle parole di Mimmo che dà allegramente di puttana alla figlia, colpevole di trattarlo in modo distaccato mentre fa l’oca con il nuovo compagno della madre, c’è tutta l’onestà di una narrazione intima che non si trattiene, che libera i pensieri del proprio protagonista. E spara a zero su Pier Francesco che lo ha abbandonato, sull’ex moglie Barbara che se lo scopa in macchina facendo cornuto il suo futuro nuovo marito, sulla figlia Carla, appunto, che lo ignora. In tutto questo ci si mette Geatano, il criminale che lo era venuto a prendere all’uscita dal carcere, ad incasinargli ancora di più la vita e a metterlo in affari con dei mafiosi, a sua insaputa. Il risultato? Mimmo si ritrova con un borsone pieno di soldi che deve scommettere su delle partite di calcio, e non farlo per lui vorrebbe dire la fine.
Nei giorni che precedono la puntata, il viaggio che il padre organizza per riconciliarsi con Fefè lo porta in giro per la Sicilia – da San Nicola l’Arena a Pollina fino a Catania – a comporre con il padre e Pier Francesco un trio di sventurati. L’unica che sembra farlo stare meglio, che forse può trascinare Mimmo fuori dal gorgo, è Roberta, capelli ricci ricci, carni pallide, minne piccole. Un difetto grave a cui Mimmo riesce a passare sopra perché con lei si trova bene, forse la ama o la amerà. Non lo sappiamo, abbiamo appena superato le cento pagine e sentiamo che il romanzo non ha ancora preso una direzione, Malùra sembra non riuscire a partire. Neanche a strappo.
 

Ammutta! – mi urla, mentre prende posto al volante.
Prova ad accendere la macchina, ma il tentativo va a vuoto. L’interferenza ci regala qualche nota di chitarra di Uomini soli dei Pooh, non esattamente un pezzo che ti può dare la carica in un momento come questo, anche se resta una canzone definitivamente sottovalutata. Non parte.
Ammutta!
Lo piglio alla lettera e comincio a spingere. Mio padre è indietro di qualche metro, inseguito dalle sei teste di minchia. Si unisce a me appena la macchina ha iniziato a prendere un minimo di velocità.
Spingi papà, spingi!
[…] Sento la seconda entrare, un sussulto del motore; mezza strofa dei Pooh ci ricorda che un uomo che perde il filo è soltanto un uomo solo. La macchina fa un balzo in avanti, si allontana di un metro e mezzo: si mette in moto.
Pier Francesco caccia un urlo di approvazione che si risolve in un suca grande quanto una casa rivolto ai sei paesani che ci inseguono, ma pure ai problemi che abbiamo avuto noi due, noi tre, tutti quanti.


Il romanzo sembra invece non mettersi mai in moto, vaga come i suoi tre protagonisti, tra pause incerte e scatti improvvisi. Latita. Sembra indeciso se fermarsi o carburare. Come la vecchia auto di Pierfrancesco accelera, s’ingolfa, riparte e poi si ferma ancora. Lo dice anche Mimmo, il suo protagonista, siamo quasi al capitolo trenta e «già stiamo facendo una seconda deviazione assolutamente inutile. Mi sembra la metafora perfetta di tutto quanto ‘stu periodo, la deviazione. […] Chissà che si è messo in testa, chissà dove minchia vuole andare. E non sembra avere nessuna intenzione di dircelo». Dove minchia vuole andare Loforti, palermitano di razza? A Catania, Loforti vuole andare a Catania. Lì, a metà libro e tra le strade della città tanto odiata, la narrazione trova la propria armonia, ogni tassello s’incastra e prende ritmo, quello giusto. «Dentro di noi, fossile, c’è una radiolina abbandonata e accesa da sempre sulla stessa canzone che ci scandisce il tempo e ci fa vivere a una determinata velocità. Non puoi arrivare alle frequenze della radiolina che ognuno c’ha nascosto dentro, ma quel ritmo è la cosa che ti riesce ad avvicinare di più al capire una persona. Basta tenere il tempo battendo col piede».
 

Dentro di noi, fossile, c’è una radiolina abbandonata e accesa da sempre sulla stessa canzone che ci scandisce il tempo e ci fa vivere a una determinata velocità


Un’auto che non parte è la metafora di un tempo perduto, di un battito col piede che non è più in armonia con nessuno. La chiave gira e non produce nient’altro che un singhiozzo: la macchina non si muove, è arrugginita, ma per una volta non ci vuole l’olio per rimettere in moto gli ingranaggi, ma l’acqua. L’acqua del tuffo e della prima volta con Roberta, l’acqua gelida del bagno notturno con Pierfrancesco che segna la riappacificazione, l’acqua del mare di Settecannoli dove padre e figlia ritrovano il proprio ritmo. Ritmo per scappare. Ritmo per tornare. Ritmo che finalmente si mette in moto sotto la spinta di Pietro e di Pier Francesco, di Roberta e di Mimmo, senza sportelli ma con una direzione ben precisa: fuori da quella crisi profonda, fuori dalla malùra. E la chiave di quel ritmo sta nella prima parola del glossario. La parola è AMMUTTARE:
 

Si può ammuttare qualcuno, si può ammuttunare del cibo, si può ammuttare durante una situazione. Insomma: si può ammuttare qualsiasi cosa. Sinonimo di spingere, il verbo ammuttare racchiude però in sé il concetto di determinazione: che si tratti di qualcuno che ti sta antipatico e che vuoi spingere per terra, di cipolla da fare entrare dentro alla melanzana o di una situazione che richieda una spinta per essere risolta, è fuori discussione che il gesto o l’atteggiamento possa sfociare nel fallimento. Chi spinge, può fallire. Chi ammutta, chi ammutta veramente, è destinato a trionfare. 



Carlo Loforti scrive per L'Eco del Nulla
Presenterà il suo nuovo romanzo con Lorenzo Masetti a Firenze
venerdì 17 novembre, ore 19.00 alla Libreria Caffè La Cité


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