Bellas Mariposas di Salvatore Mereu

con Sara Podda, Maya Mulas, Luciano Curreli

Belle farfalle è il significato del titolo del film di Salvatore Mereu, al suo quarto lungometraggio, tratto dal libro di Sergio Atzeni, quindi adattato per il grande schermo dallo stesso Mereu che adotta lo sguardo in macchina  della protagonista per interpellare lo spettatore in sala. Una voce narrante costante conferma uno stile narrativo didascalico, rendendo esplicita  la provenienza dal testo originale e poco cinematografica la resa dell'adattamento. Più che farfalle, è  un bozzolo quello che si ha davanti, bello o brutto resterà pur sempre al giudizio soggettivo deciderlo. Sui titoli di coda le farfalle nello stomaco di certo sbocciano e cercano anche di trovare una via d'uscita, ma non perché i sensi sono colpiti dalle più intime pulsioni, che un essere umano è in grado di provare e introiettare attraverso il cinema, quanto piuttosto perché Mereu, come un Eolo di provincia, soffia e dispiega un vento di  confusione sulle vele della narrazione.
Caterina (S. Podda) è una ragazza di un quartiere disagiato, vive il suo quotidiano con una famiglia numerosa, un padre disoccupato (L. Curreli) e la sua migliore amica (M. Mulas), fantasticando sul suo amore non dichiarato verso Gigi (D. todde), che odiato dal fratello di lei, rischia di essere ammazzato. In serata una presenza magica (M. Ramazzotti) farà la sua apparizione, a tirare le sorti delle vite messe in scena.

Caterina è una protagonista convincente, così come Luna e altri comprimari, il padre e la sorella più piccola, ma la pressante voce narrante della prima, così come i suoi sguardi in macchina, sortiscono l'effetto contrario al coinvolgimento, estraniando progressivamente lo spettatore dalla storia. Superato l'iniziale montaggio ondivago e tralasciando qualche scena maldiretta – che si poteva forse evitare di inserire in montaggio? – si ormeggia nella anse più tediose della pellicola, gli intenti narrativi. I personaggi messi in scena compongono un microcosmo italiano di bassa estrazione sociale incentrato sul cieco perseguimento della propria individualità, priva di obblighi verso il prossimo. La prostituzione ingenua delle giovani ragazze di periferia è il rovescio del mancato sviluppo morale e sociale dei maschi adulti, assecondato dal totale lassismo caratteriale e critico delle madri. Con un assetto comunitario così delineato, il film aspira al neorealismo, ma espira, piuttosto, in una cronistoria fatalista della contemporaneità di borgata, asciugato della spontaneità comunicativa del genere di riferimento. La costruzione è evidente, l'artificio è mellifluo, e il componimento s'indebolisce definitivamente nel finale dai tratti fiabeschi, il quale risulta peraltro in controtendenza con lo sviluppo narrativo precedente, e crea una notevole dissonanza nella coerenza stilistica. Prendendo spunto dal folklore sardo, l'arrivo della coga che legge le mani a molti, prescrive il destino degli stessi, che immediato si avvererà dopo la sua uscita di scena, come a voler dare un lieto fine alle speranze di Caterina, che sogna di fare la cantante per evadere dalla miseria della sua condizione di partenza.

Una nota positiva è data dal conto alla rovescia sulla presunta morte di Gigi – ideale anima gemella della protagonista – che colora con una punta di inquietudine il videoracconto, altrimenti piatto, della giornata di Caterina. Un elemento di suspense che poteva portare tensione a fine film, ma la cui drammaticità  è stato scelto di non portare a termine. Il fastidio più grande deriva dall'impressione di scollamento tra il regista e la realtà raccontata, dalla pretesa di un Mereu quarantenne, di raccontare attraverso la mente di una ragazzina preadolescente la complessa, e in questo caso perversa, sessualità di un adulto; come se bastasse la spensieratezza di una dodicenne nel trattare il sesso con indifferenza, a nasconderci che dietro la macchina da presa c'è un occhio, la cui ingenuità dovrebbe essere ormai (s)velata  dall'esperienza di vita accumulata. Di certo l'ingenuità persiste nella messa in scena di un mondo non proprio e nel totale disprezzo dell'estetica dei quadri rappresentati. Una scelta infelice di procedere in un'arte visiva quale quella cinematografica, che avrebbe forse potuto trarre beneficio da un sensato impatto visivo teso a mascherare, se non a potenziare una sceneggiatura di scarso peso. Ma con i se e con le critiche non si fa un film. Di contro, il film è già stato fatto. Definirlo tale però, è del tutto soggettivo.

 

«Io ti ho chiesto di farmi nascere?»

ITA 2012 – Dramm. 100' *½


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