Apologia delle anticaglie

Il valore perduto del liceo classico e degli antichi sotto l’impero dell’immediato

Spesso si sente dire che il liceo classico è morto e che quel che vi si impara – il latino e il greco – non ha più ragion d’essere al giorno d’oggi. Letterati e umanisti a che posto possono aspirare in un mondo globalizzato e multiculturale, che vuole casomai biochimici e ingegneri? Non solo la società non è più adatta ad accogliere la prole classica; sono proprio i giovani che da quest’istituto, e dai suoi vetusti abitanti, non possono più trarre nulla per se stessi. Al classico, quindi, è inutile mandare i propri figli – si ripete –  perché non è neppure più capace di fornire quella formazione universale che un tempo ne faceva la prodigiosa fucina delle classi dirigenti. Molti che vi sono passati direbbero che, potendo tornare indietro, sceglierebbero altrimenti; altrettanti probabilmente non hanno mai compreso né apprezzato quel che là dentro si faceva. Si dimentica alla svelta quel che è rimasto un transito banale, e non è diventato un possesso perenne. Si guarda con sufficienza o con disprezzo a quegli antichi che i professori ci propinano con ottusa insistenza ogni giorno, senza capire perché si ritenga così essenziale conoscere a fondo  gente morta da millenni e così distante dal nostro vissuto. Troppo staccato dal nostro presente, troppo estraneo alle necessità correnti, il liceo classico, quasi quasi, andrebbe abolito; e insieme a lui tutti le anticaglie che si porta dietro.

A chi la pensa così sfuggono alcuni dati fondamentali. Per cominciare, gli studi umanistici non hanno nulla a che vedere con il concetto di utilità; sono la quintessenza dell’inutile e devono restarlo. La cultura umanistica non dà nulla di utilizzabile nell’immediato, non porta a nulla di concreto, perché non ha senso che in se stessa. Non la si può capire, se non calandosi profondamente dentro di essa. Se resta quello che è, non ha sbocchi materiali; può produrre qualcosa solo se dà forma al nostro comportamento e al nostro pensiero. Non si può certo riprodurla così com’è (in tal caso è squallida imitazione), ma  bisogna farne un qualcosa di nuovo, adatto al nostro tempo. Allora sì ha un’utilità, ma non è più se stessa, e non ha più senso parlare di cultura umanistica, casomai di umanisti. Quindi è sciocco pensare che si uscirà dal classico con in mano qualcosa da usare, da consumare, da investire subito. Uno dei pregi maggiori della cultura umanistica (e della cultura in generale) è che non ha prezzo; se ne paga il supporto o il veicolo, ma essa è essenzialmente gratuita, non si compra e non si vende. Il disprezzo per la sua inutilità è una metastasi della nostra epoca, che è fondata  su di una commercializzazione totalitaria e su di un fruibile integrale e immediato. Di una lirica di Catullo non si può fare commercio (di una sua edizione kitsch sì). Non si presta allo sfruttamento diretto, ovvero non serve a nulla; il che la rende libera. Trovarsi tra le mani cose libere può dare spunti, a chi le maneggia, su cos’è la libertà. L’assolutezza del pensiero nella sua accezione recondita, ovvero il suo poter essere sciolto e slegato da ogni altra cosa, è il primo grande insegnamento degli antichi.

Si ripete poi con una malsana voluttà che gli antichi sono appunto roba morta (come se ripeterlo potesse renderli ancora più morti). Eppure cento anni fa Seneca non era meno morto di ora, ma aveva qualcosa in più da dire, aveva modo di farsi meglio ascoltare. Nel Rinascimento Platone non era meno polvere e ossa di quanto non lo sia oggi; la sua tomba era perduta come oggi; come oggi non si ricordava nulla del suo volto e della sua voce. Eppure è sulle sue pagine che la nostra civiltà è risorta dal tenebroso sciocchezzaio medievale. Così per mille altri; e chi negherebbe un progresso a quegli umanisti che dissotterrarono dai monasteri i manoscritti fitti della sapienza degli antichi, e li ripulirono dalle scorie del tempo, restituendo all’Europa un patrimonio di conoscenze perdute o mistificate e la possibilità di plasmare di nuovo, viva e attiva, il proprio tempo? Anche le scienze, che oggi ci sembrano così distanti dalle lettere, non avrebbero avuto futuro se gli umanisti – noiosi grammatici e filologi – non avessero reso luce e decoro ai trattati di fisica, di geometria, di medicina, di architettura che gli antichi avevano scritto. Quelle generazioni di scavatombe non cercavano morti tra i libri, ma le tracce delle loro anime, per forgiare le proprie; e si lanciavano nell’esperienza del mondo reale, spinti dai libri stessi nel «gran libro della natura» a cercarvi conferma di quel che avevano letto. Ecco che gli antichi non vogliono semplicemente essere letti e mandati a memoria; ci mandano lontano da sé, a scoprire in mezzo a noi le tracce del loro transito, ma anche ciò che di loro si è rinnovato sotto nuove specie. Guardando a loro, grado a grado si impara come stanno realmente le cose: è il senso della ricerca, della complementarità tra conoscenza ed esperienza.

Morti non sono gli antichi; loro resuscitano ogni volta che se ne aprono i libri e, con voce alta e vibrante, se ne legge la parola, immortale ed eternamente giovane. Morti saranno gli studenti che studiano per inerzia, che piangono per un sette e mezzo piuttosto che per un otto, che lavorano per compiacere il professore o il genitore, senza capire che l’unico destinatario del proprio studio sono loro; che studium si traduce amore e passione; che otium non è non fare niente, ma dare fiato all’individuo, trovare spazio per se stessi. Morti sono gli studenti che vedono la libertà solo nel divertimento, ignorando che le dittature mandano al mare volentieri sudditi a cui impediscono di leggere; gli studenti che studiano come muli, senza intuire nulla, tutto imparando a memoria. Per questo ci sono i computer. Si dice allora che gli antichi sono roba vecchia: vecchio sarà chi è attaccato al presente come un moribondo alla macchina che gli dà da respirare; chi non ha memoria per sentire il passato né immaginazione per fare il futuro. Vecchio sarà chi si lascia andare ad una vita priva di profondità, tutta rannicchiata nel proprio angolino, occupata unicamente della propria misera continuazione, senza curiosità, senza sfide.
Eppure si persevera diabolicamente nel sostenere l’assoluta vacuità dell’antico. Ma qui il problema non riguarda solo l’antico; si fa ben più inquietante, perché comprende il tempo più vicino a noi, arrivando a lambire anche lo ieri meno remoto. Oggi la nostra civiltà soffre di una grave amnesia: ubriacata dalla prosperità del progresso infinito sembra dimentica del suo recente passato, convinta che tutto ciò che vale la pena vivere accada oggi. La nostra civiltà è ignara della sterminata grandezza delle epoche passate, che ci sovrastano silenziose dentro e fuori di noi; abituati dalla società dei consumi a sfruttare tutto selvaggiamente e senza posa, in un immediato rimbecillente, ci siamo ritrovati la faccia, anzi, il muso schiacciato sull’oggi, senza occhi per guardare avanti o indietro. Così siamo mercé di ogni predatore, siamo carne facile, pronta al macello o, nel migliore dei casi, alla sodomizzazione. Guardare indietro non vuol dire perdersi in un qualcosa che non ci appartiene; vuol dire acquistare profondità e prospettiva, capacità di progettazione. Si scava a fondo e si cercano le radici per capire come andrà il fusto, e per poter creare noi la chioma. Come per i protagonisti dell’Umanesimo prima e del Rinascimento poi, lo studio degli antichi non dev’essere sciocca e sterile pedanteria grammaticale, ma ricerca delle somiglianze umane tra noi e i nostri progenitori, per riuscire a disegnare sui calchi dei loro ritratti quello che vorremo sarà il nostro profilo. Oggi la civiltà occidentale è tanto sradicata che è stupefacente che continui a stare in piedi.

Certo, ora che voliamo nello spazio e impiantiamo cuori di titanio suona un po’ ridicolo chiedere ai giovani di trovare qualcosa da spartire con gli antichi; il che doveva essere ben più semplice per i rinascimentali, che avevano più cose in comune con i legionari di Roma che con noi figli (degeneri) dell’industria. Ma anche quando non si trovasse nulla in comune con loro, essi non perderebbero comunque il proprio valore. Chi riesce ad astrarsi completamente dalle circostanze del suo vissuto per farsi altro, e poi a tornare sé stesso, rinnovato e arricchito, può imparare a fare qualsiasi cosa; aspira a diventare un microcosmo, un essere che davvero può essere tutto. Inoltre la barriera della lingua e della mentalità è lì solo per essere abbattuta o scavalcata; la ricerca del significato dietro il muto reticolo del testo è un allenamento matematico (ebbene sì) alla razionalità, è una spinta all’inseguimento della verità dietro le apparenze. Qui si costruisce, mattone su mattone,  la capacità di un’interpretazione autonoma della realtà,  che è l’espressione prima della Libertà suprema, quella del pensiero. 
Non ci sono quindi remore, nel dire che studiare gli antichi è ancora un gioco che vale la candela. Oggi più che mai, nell’epoca dello spreco inavvertito del tempo e del dominio della preterintenzionalità, val la pena andare al liceo classico perché ci si può augurare che qualche buon professore metta gli antichi sotto gli occhi degli studenti, che li illustri e li faccia amare e capire (li faccia cioè diventare oggetto di studium). E anche quando questo non accada, cioè anche quando i professori siano svogliati, sciocchi e pallidi, non si sfugga facilmente all’impegno scrollandoci di dosso le nostre responsabilità (poiché i difetti è sempre più facile giustificarli che giustiziarli). Ricordiamoci che le biblioteche sono pubbliche e che gli antichi sono là che ci aspettano nei loro libri; basta aprirli.

 


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