Ustica, 34 anni dopo

Presunti misteri e sicure verità

Alle 20:08 del 27 giugno 1980, con due ore di ritardo rispetto all’orario previsto, il DC 9 I-TIGI della compagnia Itavia decolla da Bologna, diretto a Palermo. Il volo, seguito dal radar di Ciampino, percorre regolarmente la rotta assegnata, la cosiddetta Aerovia Ambra 13, ma c’è subito qualcosa di strano: tutti i radiofari da Firenze in giù sono spenti, tanto che il pilota del DC 9 dice al controllore di Ciampino la sinistra frase «Abbiamo trovato un cimitero». Alle 20:57, il DC 9 si mette in contatto con Palermo Punta Raisi per preparare l’atterraggio: i piloti stanno scherzando fra loro, in cabina l’atmosfera è rilassata. D’improvviso, qualcuno esclama: «Gua’», che sta per «guarda!». Ma la parola si tronca, la registrazione si ferma e il volo scompare dai radar. Da Ciampino parte un messaggio diretto all’aereo: nessuna risposta. Iniziano quindi telefonate incrociate da e verso vari radar del Sud Italia, ma le risposte sono sempre negative: il DC 9 non si trova. L’aereo, così recitano le primissime comunicazioni ufficiali, è «dato per disperso»: prendono quindi il via le ricerche, coordinate dal comando di Martina Franca. Appena alle 5:05 della mattina seguente un elicottero partito da Catania avvista al largo dell’isola di Ustica alcuni detriti in affioramento. All’alba, un altro aereo avvista sul mare una chiazza di kerosene. Poi, alle 7:30, iniziano ad affiorare oggetti, parti dell’aereo. Verso le 9:00 è la volta dei cadaveri: ne emergeranno 38 su 81, di altri si troveranno solo pezzi sparsi qua e là.

 

Fin qui i fatti. Ma cosa è successo al DC 9 dell’Itavia?
L’indagine è da subito difficilissima: i registri delle torri di controllo lungo la rotta dell’aereo, richiesti dai magistrati, non si trovano, sono tutti misteriosamente scomparsi, altri distrutti, altri ancora privi proprio della pagina relativa al 27 giugno 1980; alcuni radar, a proposito di quella sera, vengono dichiarati malfunzionanti, altri risultano spenti, altri ancora temporaneamente disattivati per ‘esercitazioni’. Persino il comando della portaerei americana Saratoga, ancorata a Napoli, afferma che i radar della nave quella sera erano spenti. Tutti gli altri ufficiali dell’Aeronautica interrogati dai giudici dichiarano la solita litania: non ricordo, quella sera non c’ero, non so. Eppure, i registri del radar di Marsala, ad esempio, parlano chiaro: i suddetti erano presenti eccome. Risposta: «Ma non nella stanza di controllo!». Proprio su queste palesi menzogne indagherà addirittura Paolo Borsellino, a cui l’inchiesta verrà però sottratta e spostata altrove.

Da subito si inizia a parlare di un missile quale causa del disastro, ma per l’Aeronautica militare italiana e il suo Servizio Segreto la risposta è più semplice: si è trattato di cedimento strutturale, dato che – a loro dire – l’aereo era vecchio e privo di manutenzione. Ma la tesi è talmente insostenibile che lo stesso Stato Maggiore dell’Aeronautica, poco tempo dopo, è costretto a correggere il tiro: nessun cedimento strutturale, ma nemmeno un missile. E allora cosa? Non si sa: forse un’esplosione interna per motivi tecnici, ma per ricostruire gli eventi ci vorrebbe la scatola nera dell’aereo, che però giace a 3.700 metri sott’acqua; riportarlo a galla costerebbe 10 miliardi e quei soldi non ci sono. Le indagini quindi rallentano, la copertura dei mass media si riduce, la politica ha ben altri grattacapi e l’opinione pubblica viene piano piano sviata dalla tragedia, nonostante la Commissione parlamentare d’inchiesta chiuda il suo rapporto nel maggio 1982 dichiarando che la causa del disastro è imputabile a un’esplosione in volo. Dunque, a una bomba piazzata da un terrorista o a un missile sparato da un caccia militare. Eppure, la notizia cade nel vuoto: nessuno risponde, nulla si muove. È quello che Andrea Purgatori, l’unico giornalista che ha seguito in tutto il suo svolgimento la vicenda di Ustica (e che segue tuttora), ha definito «muro di gomma»: le notizie pubblicate rimbalzano in faccia a chi le pubblica, dunque non arrivano a destinazione. Un meccanismo che si mette in moto da subito, anche perché in quella stessa estate dell’80 l’Italia intera sarà sconvolta da un’altra strage: quella alla stazione di Bologna, il 2 agosto.
Intanto gli anni trascorrono senza risposte certe, mentre l’inchiesta passa di magistrato in magistrato, finché finisce nelle mani del giudice Rosario Priore, che termina la sua straordinaria istruttoria nel 1999: un documento imponente, dove per la prima volta vengono messi dei punti fermi. La tesi del missile è ormai un dato incontrovertibile: chi lo nega non può più essere in buona fede. Rimangono aperti, invece, altri quesiti: chi ha sparato il missile, perché e contro chi?

Per rispondere occorre inquadrare almeno per sommi capi il contesto storico in cui avviene la strage. Nel novembre 1979, a Teheran, gli studenti iraniani assaltano l’ambasciata americana e prendono in ostaggio quasi sessanta funzionari USA; nel dicembre 1979, l’URSS invade l’Afghanistan, dando il via a un conflitto le cui ripercussioni andranno ben oltre la fine del conflitto stesso, arrivando – pur in maniera indiretta - fino all’11 settembre 2001; all’inizio del 1980, la Libia di Gheddafi è in rotta con la Francia per le sue mire espansionistiche in Ciad, storico alleato di Parigi, nonché feroce avversaria di Israele e degli Stati Uniti. In questo scenario di grande tensione, l’Italia si muove con una politica duplice: da una parte rientra pienamente nel Patto Atlantico, dall’altra tende la mano ai paesi arabi e in particolare alla Libia, ai cui aerei concede di passare su rotte proibitissime dagli accordi NATO, nonché di fare scalo e rifornimento in vecchie basi militari dismesse della Sicilia. Eppure Gheddafi, allora, è il nemico numero uno di Washington, Londra, Tel Aviv e soprattutto Parigi.
Nel 2007, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, all’epoca dei fatti Presidente del Consiglio, rompe il muro di silenzio. A suo dire, il missile sarebbe stato scagliato da un caccia francese per abbattere un aereo con a bordo proprio Gheddafi. Il DC 9 si sarebbe trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato: il missile francese, anziché colpire l’aereo libico, avrebbe colpito il velivolo dell’Itavia.
Sul perché Cossiga abbia voluto rilasciare queste dichiarazioni si è discusso molto: le parole, tuttavia, hanno un peso di per se stesse, al di là dei secondi fini. E quelle dell’ex capo dello Stato, stavolta, sembrano le più vicine alla verità. È notizia di questi giorni che la Francia, finalmente, ha dato il suo consenso per collaborare pienamente alla scoperta della verità: questo dopo le grossolane menzogne ripetute per anni dai vertici militari d’Oltralpe, concordi nell’affermare che dalla loro base di Solenzara, in Corsica, la sera del 27 giugno 1980 non si alzò nessun velivolo, mentre è certo che ci fu un traffico aereo enorme. La speranza è che questi non siano solo bei propositi utili per placare l’opinione pubblica.

L’Italia, dal canto suo, deve lavorare ancora molto su Ustica e i suoi strascichi. Bisogna ancora dire la verità sui depistaggi delle indagini e soprattutto sulle morti suicide di alcuni testimoni chiave dell’inchiesta. Suicidi molto strani, perché avvenuti in piedi, con le scarpe ben salde a terra, con una corda appesa al collo senza possibilità di rimanere sospesi. Così come bisogna fare luce sull’incidente di Ramstein, in Germania, dove due piloti delle Frecce Tricolori si scontrarono mortalmente durante una dimostrazione pubblica; due piloti, Ivo Nutarelli e Mario Naldini, che la sera del 27 giugno 1980 volavano su un aereo militare poco distante dal DC 9 e per tre volte lanciarono il segnale di allarme generale, evidentemente perché videro ‘qualcosa’. Poco prima di perdere la vita a Ramstein, i due erano stati convocati da Rosario Priore per deporre la loro verità.

Trentaquattro anni dopo, nonostante l’esito contraddittorio e talvolta incomprensibile dei processi, dire che Ustica rimane un mistero significa mentire spudoratamente. Parlare di cedimenti strutturali ed evocare improbabili bombe di formazioni terroristiche internazionali, come talvolta si legge e si sente, è oltraggioso nei confronti dei familiari delle vittime. La paternità e la destinazione del missile restano ancora non chiare, ma che sui quei cieli ci fosse uno scenario di guerra in tempo di pace è un elemento incontrovertibile.
Tuttavia di Ustica, in questo Paese tormentato, ce n’è più d’una. Ustica è anche la tragedia del Moby Prince, la nave passeggeri che il 10 aprile 1991 si schianta contro una petroliera nella rada di Livorno, in un oscuro scenario di traffico internazionale d'armi; Ustica è il massacro a Mogadiscio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994, subito dopo la realizzazione di un’inchiesta scottante sulla Cooperazione internazionale; Ustica è la morte di Enrico Mattei, l’assassinio di Mauro Rostagno, l’uccisione brutale di Pier Paolo Pasolini: è la ricerca della verità per il progresso civile di questo martoriato Paese.


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