L’epica di Robert Eggers

Intervista al regista di The Northman su vendetta, vichinghi e paesaggi nel suo primo film ad alto budget

Nel suo primo film, il successo del Sundance da 4 milioni di dollari, The Witch, Robert Eggers ha ritratto uno scontro fra Puritanesimo e occulto nel New England del diciassettesimo secolo e l’ha fatto interamente in primo inglese moderno. La seconda opera, The Lighthouse, è un incubo surrealista di sopravvivenza, impregnato di acqua di mare e gergo marinaresco, frenetica mascolinità tossica, battute sulle scorregge e lotte con i polpi. È il tipo di film che ti rende un autore di culto; difficilmente, però, invoglia gli studi di Hollywood a staccare degli assegni corposi per un blockbuster. Eppure. The Northman, l’immenso, entusiasmante e scriteriato terzo film di Eggers, è costato ben più delle streghe e dei fari dei suoi primi due film, ma non ha influito granché sulla sensibilità bizzarra e distintiva del regista trentottenne. Una storia di vendetta vichinga, martellante, temporalesca e brutale che affonda le radici nella leggenda popolare scandinava di Amleth, alza decisamente l’asticella per un regista che aveva raggiunto l’apice dell’azione in una scena di lotta omoerotica fra due folli guardiani del faro interpretati da Robert Pattinson e Willem Dafoe.
 

Il ricco dialetto storico, la spiritualità furiosa e l’eroismo ambiguo rimandano ai tratti tipici di Eggers


Guidata da un mastodontico Alexander Skarsgård nei panni di un principe islandese esiliato che vuole vendicare l’assassinio del padre e reclamare il suo regno, la pellicola esibisce il sangue e i muscoli associati al genere, insieme a un cast patinato che comprende Nicole Kidman nei panni della madre di Amleth, Ethan Hawke in quelli di suo padre e Anya Taylor-Joy (sette anni dopo il suo clamoroso debutto in The Witch) nei panni della sua amante. C’è persino un cameo della divinità pop islandese Björk, nella sua prima apparizione in un film dopo diciassette anni di assenza. Tuttavia, il ricco dialetto storico, la spiritualità furiosa e l’eroismo ambiguo rimandano ai tratti tipici di Eggers più di quanto il budget da blockbuster (70 milioni, ci dice Eggers) potrebbe far pensare.

«Speriamo solo che smuova un po’ le acque», dice ridendo nervosamente mentre si sistema sul divano del Soho Hotel di Londra: ha fatto da poco colazione, il sole splende e lui non vede l’ora di passare una domenica in città con la moglie, Alexandra Shaker, psicologa clinica, e il loro piccolo figlio, Houston. L’hotel di lusso non sembra il suo ambiente, ma d’altronde Eggers è stato un pesce fuor d’acqua durante tutto il progetto. Se i suoi primi due film erano a basso budget e completamente sotto il suo controllo creativo, allontanarsi dalla scena indipendente non ha significato solo gestire un set più grande, un cast d’eccezione e sfide pratiche complesse, ma anche cedere il controllo del girato finale alla casa di produzione. Un recente profilo di Eggers pubblicato sul New Yorker ha descritto una post produzione complicata, coi produttori e il pubblico di prova che restituivano feedback negativi. Adesso ammette di aver provato “frustrazione” per come è stata descritta la situazione nell’intervista; in realtà, dice, c’è stato uno scambio reciproco.

La casa di produzione ha in gran parte assecondato le idiosincrasie di Eggers, permettendogli di lavorare con i suoi collaboratori più fidati, incluso il direttore della fotografia, Jarin Blaschke. La predilezione di Eggers e Blaschke per delle riprese lunghe e pianificate nel dettaglio, senza bisogno di una seconda unità, ha portato a un’estetica stratificata e un punto di vista frenetico e immersivo che si vedono raramente nei film d’azione di oggi, tutti patinati e fatti su commissione – un anatema scagliato verso le case di produzione con un occhio all’orologio e uno al portafoglio. Sono state delle riprese faticose. Skarsgård ha parlato della spossatezza provata e si è definito “uno straccio” dopo aver girato alcune scene. «A un certo punto Alex mi ha detto “Lo fai di proposito per farmi impazzire”», dice Eggers. «Ma non scelgo questi ambienti perché sono sadico. Lo faccio perché è qui che si svolgono i miei film».
 

Le pressioni della casa di produzione hanno fatto sì che il film fosse come glielo avevo presentato all’inizio, ovvero il connubio perfetto fra un film alla Robert Eggers e uno d’intrattenimento


Anche il processo di montaggio ha presentato molte sfide. «Non avevo mai fatto delle proiezioni di prova», ammette. «I miei primi due film sono stati entrambi testati per il marketing, ma non ho dovuto cambiare nulla. Perciò questa è stata una novità e anche se sul momento non mi è piaciuto mi ha insegnato molto. Questo è il mio director’s cut. Le pressioni della casa di produzione hanno fatto sì che il film fosse come glielo avevo presentato all’inizio, ovvero il connubio perfetto fra un film alla Robert Eggers e uno d’intrattenimento. A dire il vero senza le loro pressioni non ci sarei riuscito. Per me è incredibilmente difficile raccontare una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine».

Mi stupisco di questa affermazione: i suoi film precedenti, con tutte le loro cupe stranezze, sono piuttosto lineari, oltre che avvincenti e incredibilmente divertenti. L’“intrattenimento” non sembra qualcosa di artistico per lui. Tuttavia Eggers è un regista che si preoccupa di come vengono raccontate le storie – compresi i bizzarri e spesso arcaici linguaggi in cui le scrive – tanto quanto della storia in sé. The Northman incolla gli spettatori allo schermo in maniera diversa rispetto alla gran parte dei film mainstream che mostrano il viaggio dell’eroe: la morale cambia di continuo, la gloria e la giustezza della missione vendicativa del principe Amleth sono sempre messe in dubbio. È lo stesso mito ancestrale da cui William Shakespeare si è ispirato per il suo altrettanto conflittuale Amleto: Eggers, figlio di un professore specializzato nell’opera di Shakespeare, era attratto più dalla complessità psicologica dell’opera che dalla retorica del guerriero.

Nonostante Conan il barbaro fosse uno dei suoi film preferiti da bambino, Eggers non avrebbe mai immaginato di girare un film del genere. Cresciuto nella cittadina di Lee, nel New Hampshire – sua madre era un’attrice, suo padre il rettore dell’università locale – Eggers non era un ragazzo come gli altri. La passione giovanile per i fumetti ha ceduto il passo a interessi più esoterici quando un amico di famiglia gli ha fatto scoprire i dipinti del rinascimento nordico di Albrecht Dürer e di altri pittori della stessa scuola. «A quel tempo provavo a disegnare i personaggi dei fumetti. Poi ho capito all’improvviso che il mondo medievale mi interessava molto di più rispetto a quello dei fumetti».

L’interesse del giovane Eggers verso il passato si è poi unito a quello per il teatro. Quando era al liceo ha diretto un’interpretazione molto stilizzata del classico film tedesco espressionista Nosferatu il vampiro; anni dopo, a New York, ha studiato recitazione e si è dilettato nel teatro di strada. La regia è arrivata solo più tardi, quando, da autodidatta, ha cominciato a sperimentare con dei corti: descrive la sua prima opera, una rivisitazione di Hansel e Gretel, come “proprio inguardabile”: «Ha partecipato a un festival», dice, «e mentre tornavo a casa, ho deciso che dovevo fare di meglio».

Oggi, mentre indossa abiti casual neri, ha una barba ben curata, anelli preziosi alle dita e uno sguardo intenso, sembra ancora più propenso a leggerti una poesia piuttosto che prenderti a pugni. «Non mi capacito di aver fatto un film così macho», dice, prima di ammettere che è solo da poco che il suo interesse per la storia lo ha fatto avvicinare ai vichinghi. «È tutto nuovo per me: lo stereotipo del macho di quella storia, così come l’appropriazione indebita che ne ha fatto la destra, mi hanno tenuto lontano a lungo dalla cultura vichinga e non avevo mai voluto approfondirla». Ma qualcosa è cambiato durante una vacanza in Islanda: «Lo dicono tutti, ma i paesaggi, oltre che essere epici e fuori dal tempo, sono stati una fonte di ispirazione incredibile. Ed è la potenza di quei paesaggi che mi ha fatto avvicinare alle saghe islandesi». Durante quel viaggio un amico comune gli ha fatto incontrare Björk; lei, a sua volta, gli ha presentato il poeta, romanziere e talvolta sceneggiatore Sjón, che da poco ha aiutato a scrivere l’eccentrico film folk horror Lamb.
 

È la potenza di quei paesaggi che mi ha fatto avvicinare alle saghe islandesi


«Abbiamo cominciato a discutere della stregoneria moderna e ci siamo trovati benissimo insieme», dice Eggers. Solo lui può usare un argomento del genere per rompere il ghiaccio. «Ho letto i suoi libri quando sono tornato negli Stati Uniti e ne ho tratto molta ispirazione. Ha un cervello straordinario – per me, è un gigante della letteratura». Il viaggio ha instillato l’idea di un film sui vichinghi girato alla maniera di Eggers; qualche anno dopo, mentre pranzava con Skarsgård, ha scoperto che da anni l’attore ambiva a fare un film sui vichinghi col produttore Lars Knudsen. I puntini si sono uniti; quando il piano ha cominciato a prendere forma Eggers ha deciso che gli serviva un coautore islandese, e Sjón è stato la sua prima scelta. «Anche gli islandesi più allergici ai vichinghi conoscono i personaggi delle saghe a cui sono imparentati, e quella letteratura fa parte della cultura e della personalità di tutti: molti islandesi credono ancora oggi negli spiriti e nelle fate. Era quello di cui avevo bisogno».

In tutte le pellicole di Eggers, finora, il reame fisico e quello spirituale sono legati in maniera indissolubile, al punto che spesso è difficile distinguerli; la vivida prospettiva del Valhalla attira Amleth durante tutto The Northman, un aldilà che non è messo in discussione né idealizzato. Chiedo a Eggers se si ritenga una persona religiosa o spirituale e lui esita. «Non nel senso tradizionale», risponde, «ma è chiaro che in tutti i miei lavori, e non dico che mi riesca, provo a raggiungere il sublime. Forse è per questo che mi interessano questi periodi storici: non esistono vichinghi atei. Ci sono le valchirie, i giganti e i troll, e a volte la gente non ama vederli rappresentati in delle saghe che dovrebbero essere naturalistiche. E quello che dico io, be’, è che loro ci credevano. È naturalistico per loro. A volte è davvero frustrante essere un regista in America, dove anche le produzioni più piccole si preoccupano soprattutto di recuperare gli investimenti, facendo diventare questa ricerca di soldi parte della tua immagine e della tua identità. Ora, so che sembrerò parecchio affettato – siete liberi di vomitare – ma l’idea che gli artigiani medievali lavorassero per Dio mi affascina molto».

In questo modello al posto di Dio ci sono le case di produzione, e Eggers sembra ancora sbalordito che qualcuno abbia investito nella sua idea metafisica (benché violentissima) di un’epica vichinga. «La fortuna esiste e, come viene più o meno detto nel film, le Norne tessono il filo del destino in maniera misteriosa», dice con aria ironica. Tornando alle cose pratiche, la casa di produzione New Regency aveva lavorato con Eggers a The Lightouse ed era felice di investire nuovamente su di lui. «Penso sperassero, almeno in parte, che volessi fare qualcosa di più commerciale», ride. «Sjón e io avevamo una bozza rifinita di The Northman e, grazie a History Channel, qualche serie TV e alcuni videogame, sembrava esserci appetito per le storie di vichinghi. Quindi il team del marketing ha pensato non fosse una cosa del tutto da irresponsabili».
 

In tutti i miei lavori, e non dico che mi riesca, provo a raggiungere il sublime


Dobbiamo ancora scoprire se The Northman avrà un buon successo al botteghino, ma sembra essere un film costruito per durare nel tempo. E ha fatto capire a Eggers come lavorare a progetti e idee più grandi, nonostante preferisca continuare ad alternare progetti indipendenti e progetti con le major: «Voglio fare sicuramente qualcosa di più piccolo la prossima volta, e non solo per la pressione e la sofferenza, che ci sono state eccome», dice. «Ma anche perché ho imparato molte cose grazie a The Northman, un film che è stato davvero più grande di me. Adesso mi pare proprio di saper girare un film, capisci?». Prima non sapeva farlo? «A essere sincero faccio fatica a guardare The Witch ora». Sospira. «Non che sia brutto, e le performance sono incredibili, ma non ero ancora abbastanza bravo a mettere su schermo quello che avevo nel cervello. In The Lighthouse ne sono stato capace. E anche se sono fiero di The Northman non posso dire che tutto sia come lo volevo. Per questo vorrei fare film della portata e delle dimensioni giuste per proiettare la mia immaginazione sullo schermo».

Non è il tipo di umiltà che ci si aspetta da un regista che sta promuovendo il lavoro più importante della sua carriera fino a questo momento; e non sembra neanche che Eggers stia per firmare un contratto con la Marvel. «Ho fatto diverse riunioni, non con la Marvel, ma con le grandi case di produzione. Però neanche io saprei cosa offrirgli. Quello che mi riesce bene o che mi rende unico non serve a molto in un film Marvel». Non guarda film di supereroi, li ha messi da parte insieme ai fumetti della sua infanzia, anche se ha da poco fatto un’eccezione per The Batman, il film cupissimo di Matt Reeves, che lo ha colpito: «L’ho visto quasi solo perché Robert [Pattinson] è un amico. Però mi è piaciuto e mi ha insegnato molte cose, devo ammetterlo. I miei complimenti a Matt Reeves che è riuscito a mantenere la sua identità in un film del genere. Non so come abbia fatto. Anche se ho appena fatto un blockbuster, non è la stessa cosa».

A parte l’anticipazione su un film “più piccolo”, Eggers fa in modo di non dire nulla del suo prossimo lavoro. «Con rispetto parlando, sarò molto vago», spiega – anche se un remake di cui si vocifera da tempo del suo film preferito da ragazzo, Nosferatu, è ancora un’idea sulla bocca di tutti. Taylor-Joy dovrebbe far parte del cast del film; avrebbe dovuto partecipare anche Harry Styles, che alla fine però ha rinunciato. «Voglio chiarire che Harry sarebbe stato Thomas Hutter e non il vampiro», dice con freddezza – meglio non scherzare col fandom di Styles. «Spero il film si faccia» continua. «Ci ho investito davvero tanto tempo, sia nell’ideazione che nello scouting: sarebbe un peccato se alla fine non se ne facesse nulla. Trovo incredibile che il progetto sia già fallito due volte». Alza le spalle. Film nuovo, sfida nuova.
 

Eggers ha affermato di essere frustrato col modo di fare film in America – è qualcosa che vale per il paese in generale? Fa cenno di sì 


Per adesso, ora che la sua epopea è nel mondo, cerca soltanto un po’ di tempo per scrivere, respirare, e fare il genitore. Dopo diciassette anni a New York, lui e Shaker si sono trasferiti a Belfast per la produzione di The Northman; sta prendendo in considerazione l’idea di spostarsi definitivamente a Londra. Prima ha affermato di essere frustrato col modo di fare film in America – è qualcosa che vale per il paese in generale? Fa cenno di sì con la testa. «Io e mia moglie veniamo entrambi dal New Hampshire. Poco tempo fa ci abbiamo trascorso un breve periodo, e fa male al cuore vedere che per certi versi è un luogo più chiuso rispetto a quando eravamo giovani. È triste. Non che le cose in Europa vadano meglio, va detto». Di solito, come nei suoi film, si immerge in mondi sconosciuti. «Sono un anglofilo e conosco piuttosto bene la storia della Gran Bretagna, però non sono inglese», dice. «Per questo mi sembra che la gente non mi conosca fino in fondo, così come io non conosco loro fino in fondo. È una cosa che fa sentire liberi».

 


Guy Lodge è critico e giornalista inglese. Scrive per The Observer e Variety. Questo articolo è stato pubblicato il 10/04/2022 sul Guardian ► The Northman director Robert Eggers: ‘I’m shocked I made such a macho movie’ | Traduzione di Francesco Cristaudo


Commenta