Una cosa non divertente che farò ancora

Esperienza sentimentale e scientifica del tifoso delle squadre sfavorite

George Lakoff è un professore universitario di Berkeley, considerato uno dei padri della linguistica cognitiva. Ha sviluppato il concetto di mente incorporata e fondato l'intero settore di studi sulle metafore concettuali, ma ha anche saputo applicare le sue conoscenze scientifiche per criticare con successo (tanto da essere pubblicato in Italia) e da progressista le scelte comunicative dei democratici progressisti nell'era pre-Obama. Uno dei saggi in cui coniuga linguistica cognitiva e analisi politica è The political mind, pubblicato nel 2008. È proprio nel primo capitolo di The political mind che Lakoff illustra la forte influenza a livello neurale e comportamentale di alcune linee narrative dominanti della cultura americana, prendendo a esempio il controverso rapporto tra l'opinione pubblica e Anna Nicole Smith, prima povera cameriera, poi ancor più povera spogliarellista, poi modella, attrice, moglie di un miliardario 53 anni più vecchio di lei, madre di un figlio morto a vent'anni per overdose e infine suicida. Secondo Lakoff l'incredibile eco che ebbe nel 2007 la morte di Smith fu l'effetto di una combinazione straordinaria di tutte le linee narrative della cultura americana, che innescarono un irreversibile processo di empatia nei suoi confronti presso l'opinione pubblica. La più forte di queste linee narrative, quella che più di tutte contribuì alla mitologia sia da viva che da morta di Anna Nicole Smith, fu quella che Lakoff chiama “Rags-to-Riches narrative”, letteralmente “dagli stracci alle ricchezze”, traducibile con l'espressione italiana “dalle stalle alle stelle”. L'istinto irrefrenabile che ha l'uomo per il rimanere affascinato da chi, partendo in una situazione sfavorevole, contro circostanze avverse, alla fine riesce a sovvertire il suo destino.

La “Rags-to-riches narrative”, oltre ad aver fatto la fortuna di romanzieri e politici di ogni epoca, è dominante, applicata per estensione, in un ben preciso ambito della cultura popolare contemporanea: il calcio. Più precisamente l'applicazione ideale della “Rags-to-riches narrative” nell'Occidente del 2014 è la situazione in cui lo spettatore siede a guardare una partita tra due squadre per le quali solitamente non fa il tifo, in quanto il tifo nella maggior parte dei casi sfugge alla forza della narrativa a causa di una serie di fattori sociali, e familiari, invalicabili.
In questo contesto, specialmente durante una competizione come un Mondiale in cui è più semplice distinguere il calcisticamente ricco dal calcisticamente povero, anche maschi adulti col culto della vittoria possono trovarsi a sostenere con convinzione la squadra che sembra non avere alcuna speranza contro quella con i favori del pronostico.
In questo contesto, facendo affidamento sul fatto che il calcio è uno degli sport in cui un punteggio di natura limitata rende più facile il successo di un outsider e contestualmente accarezzando il ricordo di alcuni, pochi, casi storici (il Calais finalista di Coppa di Francia nel 2000, la Grecia campione d'Europa nel 2004, il Porto di Mourinho) anche persone dotate di senso critico possono perdere di vista il fatto che fattualmente questo successo ha comunque un coefficiente di difficoltà tale da rasentare l'impossibilità.
In questo contesto la “Rags-to-Riches narrative” spesso si snatura, ignorando l'effettiva possibilità di un raggiungimento del “riches”, e fermandosi all'immanenza del “rags”. In questo contesto ci siamo trovati in questi ultimi giorni a prendere a cuore le sorti della nazionale cilena prima e di quella messicana poi, ed è in questo contesto che alla fine, immancabilmente, abbiamo perso. 

A rendere più traumatico il quasi inevitabile mancato completamento della “Rags-to-Riches narrative” è che in entrambi i casi il successo sembrava vicino,  e in entrambi i casi, puntualmente, il successo è scivolato via dalle mani sì dei cileni e dei messicani, ma soprattutto dalle nostre, di noi che vittime di un sogno tanto affascinante quanto impossibile abbiamo dovuto osservare per l'ennesima volta l'esultanza degli altri, dei “ricchi”, dei pentacampeones brasiliani e dei tre volte finalisti mondiali olandesi, di chi abbiamo già visto vincere, di chi non ha da arrampicarsi su nessuna scala che porta dalle stalle alle stelle, e senza arrampicata non c'è narrativa, non c'è dinamismo, non c'è bellezza. La colonna sonora dell'esistenza dell'amante del calcio che trasla il suo sentimento in amore per l'outsider è una triste melodia composta dal suono di palloni che impattano contro la traversa, come quello scagliato da Pinilla all'ultimo minuto del secondo tempo supplementare di Brasile-Cile, e fischi dell'arbitro che squarciano l'aria e il cuore, come quello con cui il portoghese Pedro Proença ha assegnato il rigore poi trasformato da Huntelaar che ha regalato la qualificazione all'Olanda a scapito del Messico. A far ancor più male al nostro animo già violentato, la sorte dei due uomini-simbolo di Cile e Messico, due che sarebbe stato bello veder esultare, e che invece abbiamo visto soffrire più degli altri: Gary Medel e Rafael Màrquez. Stesso ruolo di difensore centrale in una difesa a tre, stesso Mondiale giocato ad alti livelli, stesso finale tragico.

Gary Medel, nonostante sia nato come centrocampista difensivo, si è dovuto adattare in nazionale ad arretrare sulla linea dei difensori, riuscendoci benissimo: 90% di media di passaggi riusciti, 3.5 duelli aerei vinti a partita, l'annullamento dell'attacco spagnolo prima e di quello brasiliano poi, la palma di miglior difensore ad oggi nel contenere un Neymar arrivato ai Mondiali in forma straordinaria. Dopo aver giocato impeccabilmente per un'eternità lunga 108 minuti gravato da uno stiramento alla coscia, alla fine ha dovuto cedere e uscire dal campo in barella, piangendo, già vinto per non essere riuscito a portare a termine la sua partita prima di essere vinto dai legni su cui si sono infranti il tiro di Pinilla prima e il rigore di Jara poi. Rafael Màrquez, che inversamente a Medel inizia come difensore centrale per poi diventare centrocampista difensivo e infine chiudere la carriera di nuovo da difensore centrale, detiene il record di Mondiali giocati da capitano della propria nazionale, quattro. Un numero così alto che tutti i giocatori della storia del calcio tranne 28 hanno giocato in meno edizioni dei Mondiali di quante vi abbia partecipato Màrquez da capitano. Ed è stato proprio Màrquez, con un intervento in area la cui irruenza è stata trasformata dall'abilità nel tuffo del reo confesso Robben in fallo da rigore, a mettere la parola fine all'esperienza mondiale di un Messico che per buona parte della partita aveva schiacciato l'Olanda reduce dallo storico 5-1 alla Spagna, oltre a essere uscito indenne dallo scontro con il Brasile nei gironi. Il meccanismo perverso della “Rags-to-Riches narrative” applicata al calcio è che c'è sempre, tra due squadre, una meno fortunata, meno bella, meno blasonata, da tifare. E nonostante non sia divertente perdere quasi sempre, saremo ancora lì, a farlo ancora.
Venerdì sera c'è Brasile-Colombia.

 

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