Un pulp tarantiniano e il nuovo Rashomon

Su Il sacco senza fondo e Il viaggio di Vitja, al Festival del cinema russo contemporaneo

Il Festival del cinema russo contemporaneo lascia Firenze con Il sacco senza fondo, l’ultima fatica cinematografica dell’affermato regista russo nato in Uzbekistan Rustam Khamdamov, e con Il viaggio di Vitja detto “Aglio” per accompagnare Lecha detto “Ganghero” all’ospizio, debutto di Aleksandr Chant.

IL SACCO SENZA FONDO di Rustam Khamdamov ФФФ
Nella Russia di fine Ottocento una dama di corte (Svetlana Nemoljaeva) racconta al granduca Aleksandr una fiaba ambientata nel XIII secolo che vede protagonisti il figlio dello Zar, sua moglie e un bandito, ognuno portavoce di una versione diversa sulla morte dello Zarevič.
Khamdamov, anche autore della sceneggiatura, rielabora in chiave russa il racconto dello scrittore giapponese Ryūnosuke Akutagawa Nel bosco, già ispirazione del capolavoro di Akira Kurosawa Rashomon, con cui Il sacco senza fondo condivide l’idea della trama per cui la messa in scena cambia in base al punto di vista del personaggio che riferisce la sua versione dei fatti. Il samurai del regista giapponese si trasforma nel figlio dello Zar, il tempio di Rasho diventa un sontuoso palazzo pietroburghese e la narrazione passa dal monaco alla dama da compagnia. Il misterioso personaggio della Nemoljaeva, indovina e interprete di sogni, fa da tramite tra il piano della realtà e quello del racconto: la maga «dalle dieci teste» squarcia letteralmente le pareti delle stanze, sbirciando dentro la fiaba con un cono di carta. L’intreccio a scatole cinesi, in cui lo spettatore rischia di perdersi, assembla tre livelli narrativi: il racconto della dama al granduca, i tre protagonisti della fiaba che espongono a terzi la loro versione, i flashback sulle varie ricostruzioni della morte dello Zarevič.
 

In Il sacco senza fondo Khamdamov rielabora in chiave russa il racconto dello scrittore giapponese Ryūnosuke Akutagawa Nel bosco, già ispirazione del capolavoro di Akira Kurosawa Rashomon


Il complesso mosaico strutturale, in cui spesso si perde il confine tra finzione e realtà, è impreziosito da un elegante fotografia in bianco e nero e da un sapiente uso della luce, potentissima, quasi accecante, nelle splendide esterne nella foresta. Le infinite sfumature di grigio generate da questo caleidoscopio bicromatico sembrano fare eco ai mille volti della verità rappresentati dai personaggi.
Khamdamov alterna inquadrature statiche, che vogliono dare allo spettatore il tempo di assorbire tutta la profondità della singola immagine, a un uso quasi espressionista della macchina da presa, coinvolta direttamente nell’azione, ad esempio nelle sequenze di combattimento. Disomogeneo è anche l’aspetto interpretativo: alla recitazione sognante e distaccata della linea pietroburghese si contrappone quella enfatica da film muto dei personaggi della fiaba.
Il sacco senza fondo è un’esperienza visiva ricchissima, che include elementi comici (gli uomini-fungo della fiaba), l’aspetto sovrannaturale (le misteriose sfere fluttuanti nella foresta), momenti assurdi (i domestici che risolvono problemi algebrici alla lavagna), citazioni (la lettura della fiaba delle Mille e una Notte che dà il titolo al film) e discussione di motivi filosofici come la reincarnazione, la precarietà dell’esistenza umana e il valore salvifico delle storie.
Con la battuta che suggella il film la dama-maga sembra arrendersi di fronte all’impossibilità di conoscere la verità sulla morte dello Zarevič, in fondo non importa chi lo ha ucciso, da qualsiasi parte arrivi l’unica certezza è la morte: «Il paradiso è esistito per ognuno di noi, era l’infanzia. In quel tempo tutti siamo stati immortali».

IL VIAGGIO DI VITJA DETTO "AGLIO PER ACCOMPAGNARE LECHA DETTO "GANGHERO" ALL'OSPIZIO di Aleksandr Chant ФФ
Il road-movie debutto del regista Aleksandr Chant racconta la storia di Vitja (Evgenij Tkačuk), “Aglio” per gli amici, orfano ventisettenne che vive in una anonima città della provincia russa. Ad interrompere la sua quotidianità fatta di lavoro in fabbrica, sbronze con gli amici e liti domestiche, arriva il padre Lecha (Aleksej Serebrjakov), ex delinquente scomparso da anni e rimasto invalido. Allettato dall’idea di poter ereditare l’appartamento di Lecha, Vitja decide di portarlo in ospizio, ma durante il rocambolesco viaggio padre e figlio si trovano ad affrontare un’infinita serie di avventure e pericoli.
Lo strabiliante pellegrinaggio di “Aglio” e “Ganghero” è sostenuto da un buon ritmo narrativo e da una brillante scrittura, resa ancora più viva dall’uso dello slang. Curatissima la fotografia, del tutto innaturale, giocata sui toni del rosso e del verde, corredata da una colonna sonora fatta di brani rap e hip-hop russi. Il viaggio di Vitja è una godibile tragicommedia dai risvolti pulp che regala momenti di vero spasso degni del Tarantino più comico: l’inaspettato risveglio del padre durante il trasporto all’ospizio, il goffo scontro tra l’ingenuo Vitja e il malavitoso nel bosco, le improbabili fughe con il furgoncino che non vuole mai mettersi in moto, la “resa dei conti" finale con il superboss e i suoi scagnozzi. Un Tarantino che riecheggia anche nel montaggio e nell'utilizzo delle musiche.
 

Con un buon ritmo e una scrittura brillante, Il viaggio di Vitja è una godibile tragicommedia dai risvolti pulp che regala momenti di vero spasso degni del Tarantino più comico


Dall’esordio di Chant emergono chiarissimi due elementi che caratterizzano il nuovo cinema russo (come si evince anche dalle trame dei film presentati al festival), ovvero il rapporto tra figli e padri assenti e l’emarginazione sia geografica che sociale. Ne Il viaggio di Vitja le colpe commesse dal padre – un bravissimo Aleksej Serebrjakov, conosciuto dal pubblico occidentale per il ruolo di protagonista nel film Leviathan di Andrej Zvjagincev – ricadono sulle scelte del figlio, in procinto anch’egli di abbandonare la moglie e il loro bambino. Il vuoto della figura genitoriale nella primissima fase di vita, unito al trauma della madre morta suicida e all’infanzia trascorsa in orfanotrofio, influenzano profondamente il presente di Vitja, che conduce un’esistenza superficiale priva di affetti autentici. L’ambientazione geografica del film, la remota provincia russa, riflette anche la marginalità sociale dei personaggi, che sono gli ultimi, i dimenticati della società, distanti dal centro della vita economica e culturale del paese. La sfida raccolta da Chant, e da questo nuovo cinema, è di allargare la prospettiva, superando la classica dicotomia Mosca-San Pietroburgo, per dare voce a realtà periferiche.

Due pellicole molto diverse quelle che concludono il Festival del cinema russo a Firenze: l’opera compiuta di un grande autore, una voce fuori dal coro dei giovani cineasti che hanno animato il festival, e un convincente esordio che racchiude in sé suggestioni del cinema americano, incarnando al contempo elementi fondanti della cinematografia russa attuale come il conflitto generazionale e la marginalità. Un festival russo che, per questa prima edizione, ha visto una buona partecipazione del pubblico fiorentino che ha riempito la sala del Cinema Teatro La Compagnia quasi in tutti gli spettacoli coinvolgendo addetti ai lavori, appassionati di cinema e rappresentanti della comunità russa a Firenze. Durante la serata conclusiva di lunedì 18 febbraio Tatjana Shumova, presidente del Centro dei festival cinematografici e dei programmi internazionali, e Viviana del Bianco, direttrice del N.I.C.E., hanno annunciato, forti del successo della manifestazione, che il Festival del cinema russo contemporaneo tornerà di nuovo in città il prossimo anno.

Serena Mannucci


Parte della serie Festival del cinema russo contemporaneo | 1ª edizione

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