Tra le strade ipnotiche di una città-bioma

Intervista a Elena Giorgiana Mirabelli, scrittrice esordiente di Configurazione Tundra

Configurazione Tundra (Tunué), esordio di Elena Giorgiana Mirabelli, è a prima vista la narrazione di un’utopia. In realtà basta passeggiare per pochi secondi in Tundra, città-bioma dove tutto ha una sua precisa funzione e collocazione e dove vige l’armonia, per rendersi conto che non è così.

Prima di tutto l’ambientazione di Configurazione Tundra non corrisponde né a un futuro più o meno prossimo né alle conseguenze di un’improvvisa svolta causata da un drastico avvenimento. Si tratta piuttosto di una realtà che sembra poter correre parallelamente alla nostra, dove è stato ideato, con calma, un nuovo modello di esistenza. Inoltre questo scenario non presenta, almeno all’inizio, tratti ben definiti: il lettore non sperimenta direttamente gli effetti di questa nuova società, ma osserva Tundra con gli occhi di un sonnambulo. Tutto sembra essere preciso, funzionante, ma allo stesso tempo sfasato. La protagonista Diana deve passare tre mesi nell’Altrove, un tempo necessario per riabilitarsi e riarmonizzarsi con se stessi. Si trasferisce in una delle città-bioma ideate dalla filosofa e architetta Marta Fiani e le tocca in sorte proprio l’appartamento di Lea, la figlia. Diana ricostruirà il passato di entrambe, interrompendo l’incanto ipnotico che Tundra esercita su di lei.

Ciò che l’uomo vive nelle città-bioma non è uno stato ideale, un obbligo continuo nei confronti di qualcosa, ordini e regole chiare espresse con un linguaggio distopico come quello di Orwell; qui gli abitanti vengono plasmati attraverso i fattori emotivi, le loro coscienze vengono ammorbidite, se così si può dire. I mezzi per farlo, e che alla fine li incasellano davvero in un’unica traiettoria ben precisa per ciascuno di loro, sono un linguaggio quasi ipnotico, che passa anche attraverso la meditazione e i concetti religiosi. Marta è ossessionata dal libero arbitrio. È un vero e proprio perfezionamento alla fine, ma un modello utopico del tutto lontano dai canoni. Cosa ti ha spinto verso questa scelta?
Anzitutto grazie mille perché la domanda mi permette di buttare giù qualche riflessione retrospettiva.
La prima questione che mi sono posta per CT aveva a che vedere con il genere. Avevo molto chiaro quali fossero gli elementi da evitare, gli elementi per così dire facilmente riconoscibili come distopici ma che potevano risultare solo arredamento, elementi di sfondo, elementi di colore. Avendo chiaro questo limite (utilissima in questo senso fu una chiacchierata sulla distopia con Nicola H. Cosentino che ne è esperto) ho messo a fuoco il tema: a me interessava indagare e rendere il rapporto io/mondo e il rapporto che l’io intrattiene con sé stesso.
Quella è stata la chiave: come le persone possono accettare di mettere da parte la propria libertà e sentirsi bene? Come un sistema di potere riesce a renderlo possibile? Uno dei dispositivi più adatti è il linguaggio, ma un linguaggio che avesse sui personaggi un effetto simile a quello sortito dalle preghiere. Tundra così si configura come una città in cui chi la vive ha la sensazione che vada tutto bene, che tutto vada come deve andare, senza rendersi conto di essere incastrati.

Quando Diana comincia a ricostruire i ricordi di Lea usa sempre il verbo vedere. Una visione è proprio una di quelle cose che può mandare all’aria la placida vita in Tundra. Vedremo che altri personaggi invece vivono benissimo il metodo di esistenza della Fiani (come Ettore, uno dei partner di Lea, che ha solo desideri precisi). Quindi il risveglio di Diana inizia fino dalle prime pagine? Basta approcciarsi al ricordo, o semplicemente alle scelte fatte da un’altra persona, per appiccare una piccola rivoluzione umana interna a Tundra?
Oltre che ricordare Diana compie un altro tipo azione: immagina. Il risveglio di Diana avviene attraverso l’immaginazione prodotta dal percorso e dai segni narrativi lasciati da Lea. Diana vede i ricordi come se fosse lì, presente, e li racconta. È attraverso l’immaginazione e il racconto che Diana inizia ad attuare una piccola rivoluzione interiore.

Il concetto di zona è anch’esso stravolto in Configurazione Tundra; credi che sia corretto dire che la zona non è un luogo altro e perturbante ma la casa e quindi la città?
Sì, è corretto.

All’interno del romanzo sono presenti le planimetrie delle abitazioni dei vari personaggi: perché hai scelto di inserirle? E per te completano o sono in opposizione alla copertina (dove è raffigurato un uroboro)?
Ho scelto di inserirle per due ragioni. La prima attiene all’idea di città lineare di Tundra, priva di panchine, di slarghi, di piazze. Questo costringe a vivere in interni. Tutto si svolge nelle case. La seconda attiene all’idea che la casa sia simile a una nicchia ecologica. Le case, l’arredamento, la scelta dei colori, gli elementi descritti nelle planimetrie sono espressione dei caratteri che le abitano.
Ogni personaggio è associato a un animale del bioma tundra, e ogni casa è la sua nicchia. La casa di Ettore ha pochissime indicazioni: c’è una stanza trasformata in palestra, l’arredamento è anni Settanta e ci sono tanti scaffali. La casa di Pao ha più indicazioni, soprattutto sui colori: la sua scatola è grigia e usa delle lampadine nere. Questa indicazione è un indizio su Pao, sul suo essere in conflitto con il biancore di Tundra. Fino ad arrivare a quella di Lea. La casa che è piena di tappeti e tende e tanti scomparti segreti. Completano l’uroboro in copertina che rappresenta sì la ciclicità, ma anche la trasformazione.

Sono anche presenti degli estratti da alcuni romanzi e dai testi teorici scritti dal personaggio di Marta Fiani: oltre a veicolare il messaggio ipnotico di Marta ho avuto l’impressione che fossero un contrappunto alla Marta Fiani di tutti i giorni che vive tutt’altro che bene il suo scontro con il mondo reale.
Marta Fiani è la sua scrittura, i suoi testi. È un personaggio inquieto che ha un obiettivo altissimo – la felicità dell’essere umano – ma è agita da motivazioni interiori che hanno a che vedere con la necessità di essere speciale, di essere vista. Il riconoscimento può mettere a tacere quell’irrequietezza? Il suo nodo e i suoi conflitti sono nei suoi testi.

Sono frequenti i termini traiettorie, cicli («un ciclo che si esaurisce in un numero finito di mosse»). Il linguaggio è importantissimo nelle città-bioma, è il primo mezzo, tramite i testi di Marta, i nomi delle città e delle loro funzioni, con cui i cittadini vengono perfezionati. Mano a mano che si procede, però, il linguaggio dei personaggi si fa sempre meno sognante e ipnotico e si utilizzano termini che ispirano concretezza e azione; questo risveglio, in particolare quello di Diana, si riflette anche sul lettore?
La prima parte è legata ai ricordi e alle immaginazioni di Diana quando si trova in casa, nel momento in cui agisce nel mondo e incontra la realtà di personaggi fino a quel momento immaginati, il suo modo di descrivere muta: diventa più crudo e meno mediato. Mi piace pensare che la lettura sia un’esperienza immersiva, quindi ho cercato di rendere la lettura di CT tale. Mi piace l’idea che un lettore vada a rivedere i livelli e gli indizi e i dettagli.

 

«L’azione cosciente del singolo ha, credo, in sé una potenza straordinaria e pericolosa»



Per assurdo alla fine la società sembra non esistere affatto: tutti sono soli in Tundra. Eppure la morale non è affatto semplicistica; la soluzione non sembra essere ritrovarsi con gli altri, ma rivoltarsi al concetto stesso di società, e quindi di presenza. Si tratta della fine del mondo o della sua rinascita?
La Tundra di Marta Fiani vede nel singolo e nelle sue azioni, l’elemento capace di turbare l’equilibrio e l’armonia. Ma Marta Fiani in realtà non ha pensato agli individui coscienti, ma a quelli che reagiscono al mondo in modo istintivo. E quindi non sento di giudicarla. La rivoluzione interiore di Diana invece si muove verso il mutamento. Preferisco pensare alla trasformazione della società. Credo, per formazione, all’efficacia delle azioni individuali sui sistemi, ma solo quando quelle azioni siano realmente coscienti e non eventi puntuali. L’evento puntuale diventa argine in un dato contesto spaziale e temporale. L’azione cosciente del singolo ha, credo, in sé una potenza straordinaria e pericolosa.


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