Sguardi spezzati: Malick e Picasso

Frammentazione di storie e di sguardi tra il cinema di Terrence Malick e la pittura di Picasso

Riuscire a classificare il lavoro di un artista è sempre un compito arduo, quando però si tratta di Terrence Malick l’impresa si fa ancora più difficoltosa. Un regista sfuggente dalla personalità indefinibile, su cui si hanno notizie pressoché inesistenti, come inesistenti sono le interviste e le dichiarazioni rilasciate. Ma la cosa ancora più enigmatica è come la sua carriera sia stata contraddistinta da lunghi periodi di improduttività, non dovuti a sterilità artistica ma a lunghi periodi di gestazione che hanno contribuito ad elevare la sua fama fino a vero e proprio mito – dal film I giorni del cielo (1978) al successivo, La sottile linea rossa (1998), sono trascorsi ben vent’anni. I suoi lavori hanno sempre riscontrato il favore della critica: la Concha de Oro al Festival di San Sebastián per il suo esordio La rabbia giovane (1974), il premio per la regia a Cannes per I giorni del cielo, l’Orso d’Oro a Berlino con La sottile linea rossa. Ma dopo il successo di The Tree of Life (2011) nel cinema di Malick si possono ravvisare dei cambiamenti: il primo è stilistico, mentre il secondo è di tipo creativo e produttivo, dove l’infinita gestazione che accompagnava la realizzazione di ogni suo film sembra aver avuto un’improvvisa accelerazione, dando alla luce quattro film in soli cinque anni. Tutto questo ci suggerisce un paragone con uno dei più grandi pittori del Novecento: Pablo Picasso. Malick e Picasso? La frammentazione cubista e il rigore visivo dei suoi film? Non può esserci una connessione. Il cinema di Malick ha plurimi rimandi pittorici ma – come scrive Arianna Pagliara nel libro Il sogno del minotauro. Il cinema di Terrence Malick parlando soprattutto dei suoi primi film –  i riferimenti sono ben altri, come «Edward Hopper, l’iperrealismo americano, e se vogliamo anche qualche traccia di Millet e De La Tour». Ma se per un secondo lasciamo in disparte il suo estetismo – con immagini curate dai migliori direttori della fotografia di sempre, come Néstor Almendros (direttore della fotografia di Éric Rohmer e Oscar per I giorni del cielo) e Emmanuel Lubezki (vincitore di tre Oscar alla miglior fotografia consecutivi) – ed esaminiamo la sua evoluzione artistica possiamo notare diverse somiglianze.
 

Malick e Picasso? La frammentazione cubista e il rigore visivo dei suoi film? Può esserci una connessione


Picasso è riconosciuto come uno degli indiscussi padri fondatori del Cubismo, ma il suo esordio pittorico non fu fin da subito legato a questa corrente artistica. Infatti nei suoi primi anni il pittore non aveva ancora sviluppato uno stile personale e le sue opere si muovevano tra tematiche post-impressioniste e adorazione per Cézanne. Nel 1901 ebbe inizio il Periodo Blu, così detto per i colori freddi e per il modo di dipingere monocromatico che conferiva ai dipinti un tono malinconico e indagava l’interiorità dei personaggi: pensiamo alle opere Poveri in riva al mare (1903) e Pasto frugale (1904). Tra il 1905 e 1906 il pittore inizia a riscaldare le sue tele utilizzando tonalità più delicate, dando inizio a quello che viene definito Periodo Rosa. A questo nuovo periodo appartiene l’opera Famiglia di acrobati con scimmia (1905), dove ripropone il tema della famiglia e del presepe. Ma ciò che ci interessa evidenziare di questo periodo artistico è la facilità con cui riusciamo a distinguere le figure sul dipinto; i personaggi raffigurati, immersi nel tono cupo del primo periodo o rischiarati dal rosa del secondo, sono identificabili e facilmente riconoscibili. Così come i primi film di Terrence Malick, che pur evidenziando elementi stilistici che caratterizzeranno tutto il suo cinema, mantengono una narrazione lineare.

Ne La rabbia giovane e I giorni del cielo Malick lavora moltissimo sulla fotografia, creando immigini innovative, con immagini che mettono in relazione l’uomo rispetto allo spazio, creando un senso di mistero e svuotamento. Anche nei film successivi, La sottile linea rossa e The New World, la narrazione – per quanto intervallata da frequenti digressioni naturalistiche e dall’utilizzo di voice over – risulta “comprensibile”. Certo, dovremmo addentrarci nell’universo di Malick per avere una spiegazione esaustiva di quello che vediamo sullo schermo, i suoi lavori – prendendo ancora in prestito le parole di Arianna Pagliara – «si mostrano attraverso un interrogarsi ininterrotto sui grandi temi del pensiero di ogni tempo: la vita e il nascere, il senso del male, il rapportarsi all’altro, la natura, la guerra e la morte». Questi primi quattro film, continuando il paragone con Picasso, potrebbero essere visti come le “opere figurative” di Malick, dove ancora si riesce a distinguere una narrazione codificata, una sorta di periodo pre-cubista nel quale vengono gettate le basi per quello che sarà il suo film di svolta: The Tree of Life.
 

La prima parte della filmografia di Malick è una sorta di periodo pre-cubista nel quale vengono gettate le basi per quello che sarà il suo film di svolta: The Tree of Life


Il film vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes spaccando in due la critica in quella che è l’opera più coraggiosa del regista, capace di sperimentare e innovare il linguaggio cinematografico, svincolandosi da qualsiasi dettame. Un film esplicitamente poetico e lontano dai canoni narrativi comuni, che riesce ad amalgamare, senza soluzioni di continuità, l’aspetto narrativo con quello documentaristico – la nascita della vita sulla terra. Un’ibridazione che trova il suo corrispettivo pittorico in quella che viene definita l’opera che ha dato inizio al Cubismo, Les demoiselles d’Avignon (1907). Picasso, partendo dalle volumetrie del ciclo Le grandi bagnati di Cézanne, semplifica le forme dei corpi femminili e dello spazio che occupano, giungendo ad un risultato disomogeneo, dove le figure centrali hanno un aspetto molto diverso rispetto alle figure ai lati. Con questo quadro si ha una nuova percezione della realtà, non più tesa a rappresentare ciò che si vede in un solo istante, ma costituita secondo una visione simultanea dove le leggi anatomiche vengono ignorate e i vari punti di vista si sovrappongono l’uno sull’altro. E come Picasso scompone l’immagine, Malick destruttura la narrazione, ma quello che entrambi creano è un universo senza regole, dove i loro personaggi sono compenetrati nello spazio che abitano e si muovono senza restrizioni e principi.

Certo, l’arte cubista vuole costruire una nuova realtà dove, scomponendo ciò che ci circonda in figure e volumi elementari, si possa creare un cosmo che si muove parallelamente a quello che conosciamo.  Ed è con il “Cubismo analitico” che si raggiungono i risultati migliori, giungendo al massimo splendore artistico. Nel Ritratto di Ambroise Vollard (1909-10) – Vollard fu un collezionista e mercante d’arte già ritratto da Cézanne nel 1899 – Picasso non cerca una verosimiglianza fotografica, ma ci invita a scavare dentro l’immagine e a indagare la sua psicologia. La composizione è disomogenea e sia il personaggio che lo sfondo sono posti sullo stesso piano: c’è una frantumazione della realtà, come se l’immagine fosse stata distrutta per poi essere ricomposta in maniera disordinata e frettolosa. Questo apparente disordine fa pensare agli ultimi film di Malick. Quando guardiamo To the Wonder (2012), Knight of Cups (2015) e Song to Song (2017) sembra di assistere ad avvenimenti e storie frammentate, scomposte e in qualche caso perfino isolate dal corso degli eventi. Il montaggio disordinato rompe la narrazione, muovendosi avanti e indietro nella stessa sequenza, mostrando l’epilogo per poi raccontare l’inizio. È come se Malick avesse srotolato una bobina e, come la moira Atropo che metteva fine alla vita con le proprie cesoie, avesse iniziato a tagliare la pellicola in modo casuale, frantumando lo spazio e il tempo, il principio e la fine, per poi raccordare riprese statiche con inquadrature frenetiche, paesaggi incontaminati con lo smog delle metropolitane, immagini colme di dolcezza con altre sature d’odio.
 

Malick dà vita a un racconto frastagliato, con le tessere del mosaico reinserite in un ordine diverso rispetto allo sviluppo ideale della narrazione


Malick dà vita a un racconto frastagliato, in cui le tessere del mosaico sono state reinserite in un ordine diverso rispetto allo sviluppo ideale della narrazione e la figura che emerge non è neppure somigliante all’originale, ma presenta una forma indefinibile che non può essere descritta a parole ma percepita solo con l’intelletto. Malick, come Picasso nei suoi dipinti, mette in scena delle storie che non si esauriscono nella semplice visione, le riprese dei suoi film sono solo una parvenza, un fugace bagliore di quello che realmente vogliono rappresentare. L’uso del montaggio, che all’apparenza può sembrare astruso, cela una intrinseca attinenza di significati tra le immagini che si concatenano e si sovrappongono l’una all’altra. Accadeva questo anche nei quadri di Picasso – come documenta in maniera straordinaria il film Il mistero Picasso (1956) di Henri-Georges Clouzot – dove le partiture di colore creavano immagini su altre immagini, «quadri gli uni sugli atri» come dichiarava lui stesso, creando continuamente nuove forme che si perdevano nella fase successiva ma che permanevano all’interno del dipinto ad influenzare il capolavoro finale. Picasso è stato uno dei pittori più influenti del suo tempo, dopo di lui nessun artista ha potuto più dipingere senza tener conto della pluralità dei punti di vista e della frantumazione delle forme. Allo stesso modo, con le sue opere straordinarie, Malick ci ha insegnato a considerare il cinema come una forma d’arte senza regole, dove la narrazione può essere disgregata e ricomposta evocando significati sempre diversi.


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