Sfidare gli abissi

Profondità dell'uomo e del mare in Dimentica di respirare, il nuovo romanzo di Kareen De Martin Pinter

Giuliano è un apneista, un campione non per talento ma per dedizione. Fin da bambino, nelle sfide con suo fratello Giovanni, non era lui ad avere i polmoni più grandi. Dalla sua aveva la volontà di fare dell’immersione la sua ragione di vita (e in parte di morte). Dimentica di respirare, opera seconda della bolzanina Kareen De Martin Pinter uscita per Tunuè, racconta la sua storia partendo dai giorni precedenti alla registrazione del nuovo record, meno 137 metri, e si muove liberamente nel passato di Giuliano saltando da un ricordo all’altro – creando nel lettore lo stesso spaesamento e assenza di riferimenti che il protagonista prova nelle apnee più sfibranti. È un romanzo che racconta il rapporto dell'uomo con le acque, con un ampio e variegato bestiario marino, e che vive in un tempo solitario e sospeso, senza suoni e senza ossigeno.

 

Guardai il profondimetro, meno due metri e mezzo. Se era un sogno, dovevo comunque uscirne vivo. Sognare di morire, a un giorno dalla prima apnea mondiale a meno 137, sarebbe stato un brutto punto di partenza. Chiusi gli occhi e scesi. Meno quindici. Sentivo la faccia compressa, i capelli sparsi nell’acqua. Meno trenta. I muscoli strizzati, ma non avevo male. Poi, il mare mi aspirò. Dovevo aver superato i trentacinque, quaranta, oltre quel limite dove non si fa più fatica a scendere. Conoscevo bene quella sensazione di farsi risucchiare, all’infinito. Ti dimentichi di respirare con la certezza che gli abissi ti accoglieranno.

 

La storia si tuffa e riemerge dalle profondità della memoria, guidando il lettore in un viaggio che è orizzontale, indietro nel tempo, e verticale, dentro il suo protagonista. La corrente di pensieri in cui Giuliano nuota più o meno volontariamente, a volte lasciandosi trascinare a volte tentando inutilmente di lottare, ci porta dall’Italia al Giappone all’Australia, dal bambino che parla per la prima volta con il suo futuro allenatore Maurizio, al ragazzo che perde il fratello Giovanni tra i flutti, all’adulto che si allena per abbattere il record. E questo viaggio, grazie alla brevità del romanzo e alla compattezza della narrazione, lo viviamo anche noi dimenticandoci di respirare. I salti avanti e indietro nella storia di Giuliano sono senza soluzione di continuità, mai spezzati dalla paragrafazione ma continui, con una coerenza formale che è anche slancio letterario. La prosa di Kareen De Martin Pinter è fluida come le acque in cui ci immerge, e si muove nel mare come se fosse il liquido della coscienza del suo protagonista, il seme in cui tutti i passati convivono in un eterno presente.

 

Nella testa, pensai, abbiamo un giardino pieno di semi antichi. E prima o poi germogliano, si spaccano, e lasciano uscire il loro carico. Mi rividi, ragazzino, correre alla finestra, lottare per scostare la tenda beige tirando ora su un bastoncino, ora sull’altro, ma invano. Allora m’infilavo sotto la tenda come fosse stato sotto le sottane di una madre e guardavo nel cortile l’auto con dentro Suor Celestina che si allontanava. In quei primi momenti di vera solitudine pensavo che se fossi morto lì, in quel preciso istante, probabilmente nessuno avrebbe versato una lacrima.

 

Il seme del ricordo gioca un ruolo fondamentale, nella storia, trascinando il lettore in una dimensione costantemente in bilico tra memoria e sogno. I malori che Giuliano prova a più riprese nel corso del libro sono il collante di queste visioni, che si fanno spazio nel presente del protagonista e germogliano grazie a suoni e tocchi che lo proiettano d’improvviso nei luoghi del suo vissuto, sott’acqua durante i primi allenamenti o a tavola con la famiglia, dove trattiene il respiro per la prima volta. La scrittura dell’autrice rende fisiche queste cadute, piombando il suo protagonista dentro vari livelli di sogno, realtà, ricordo, e ritirandolo fuori di colpo, con uno strattone alla corda del passato che lo riporta a se stesso. Così fanno le ama, pescatrici giapponesi che si immergono senza tute e senza pesi per raccogliere il cibo da mangiare e vendere per la comunità. Giuliano ripensa agli anni Sessanta, in Giappone, quando andò a scoprire la loro tradizione millenaria e ad incontrare queste creature mistiche con cui il vero contatto si può avere soltanto sott’acqua, in un dialogo muto fatto di gesti e sguardi. È lo sguardo a legarlo per sempre, oltre le increspature del tempo, con quella che chiama la sua ama – “donna del mare” in lingua giapponese, imperativo d’amore nella nostra – che sopravvive ai colpi di corda e rimane vivida, sotto forma di visione, nel suo presente. La sua ama è l’unico ricordo che sconfina e lo accompagna, traghettandolo fino alla fine.

«Intanto mi feci spingere delicatamente giù, verso il tempio, passo dopo passo, confuso ma di buonumore. Una farfalla gialla mi volò accanto. I muri del tempo scricchiolarono. Iniziavo a riconoscere quella sensazione. Stavo uscendo da dove ero entrato e qualcosa mi scoppiò nel petto. Un dolore». In questo cadere continuo dentro e fuori le sue memorie Giuliano scava dentro di sé, ritrovandosi faccia a faccia con un altro dei temi portarti del romanzo: la morte. La morte di suo fratello, che lo insegue come un fantasma dal passato, e quella che lui affronta in ogni immersione, spingendosi sempre oltre i limiti e scoprendone di nuovi. Una cosa che il libro mette in chiaro fin da subito è che l’apnea è una sfida contro la nostra umanità, una sospensione delle condizioni biologiche che ci rendono umani – l’assenza di ossigeno, il rallentamento dei battiti – e in un certo senso una morte temporanea e cercata. Giuliano stesso la cerca, nelle immersioni più estreme, e la trova nell’incontro in ospedale con un uomo, sdraiato a letto in una sorta di tunnel con le lenzuola che non toccano il corpo, affetto dal sarcoma di Kaposi, un cancro alla pelle che gli rende insostenibile il contatto con l’aria, e quindi impossibile la vita. Sul suo comodino un libro rivelatore che preannuncia, al lettore e a Giuliano, una scelta che si troverà ad affrontare.
 

Gli raccontai l’aneddoto del ragno palombaro, l’Argyroneta aquatica, piccolo, meno di due centimetri, che quando si immerge nelle acque stagnanti si porta con sé qualche bolla d’aria, agganciata ai suoi peli. Restammo qualche istante appesi a quell’immagine, poi un oggetto andato per terra da qualche parte fece scoppiare la bolla. C’era un libro, sul suo comodino, che si chiamava La vita nella morte. Gli chiesi se lo avesse aiutato. Lui disse:
«Prendilo se vuoi. Io l’ho già letto, non mi serve più».

 

D’altronde anche questa è una storia che nasce da un libro, L’uomo delfino di Jacques Mayol – grande apneista francese del secolo scorso, la cui competizione con il siciliano Enzo Maiora ricorda quella di Giuliano con il rivale Ivan – anzi, dalla sua copertina: un uomo che bacia un delfino. Quest’immagine è l’ispirazione di Kareen De Martin Pinter e sfocia nelle pagine del romanzo, nel rapporto del suo protagonista con la delfina Mary con cui Giuliano nuota, scherza, gioca in gara di apnea. Nella prima versione della copertina di Dimentica di respirare il logo – l’immagine centrale che distingue le cover della collana romanzi di Tunuè – era proprio un delfino, ma come ci dice il libro «i delfini devono salire alla superficie ogni qualche minuto. Lo fanno anche mentre dormono, istintivamente», per respirare. Come può il delfino, con le sue necessità di superficie, rappresentare un romanzo che cerca invece le profondità, che (si) toglie il respiro? E allora la scelta definitiva non può che cadere su un solo animale, in grado di illuminare le oscurità e farci strada negli abissi del mare: il Melanocetus johnsonii, il pesce lanterna. Un pesce che negli abissi ci vive, a suo agio, senza bisogno di tornare in cerca di luce o di ossigeno. Sembra quasi che anche a chi prende in mano il libro l’autrice chieda, prima di immergersi nella lettura, di fare la respirazione a carpa, stoccare aria negli alveoli polmonari più alti, rallentare i battiti. «Richiamai alla mente il mio mantra, lento, aspettai che si staccasse dal fondo del mare e si sciogliesse al centro della mia testa: dimentica di respirare, dimentica di respirare, dimentica di respirare».


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