Scelta Civica e Udc: una separazione

I tempi cambiano: anche Casini apre al divorzio

Conoscendo Monti, nessuno si sarebbe atteso molte sorprese. Nessuno avrebbe immaginato che quell’eloquio forbito, ma al contempo spiccatamente monotòno, cattedratico e discreto potesse rappresentare in nuce anche un manifesto politico. Che quell’austerità tanto gradita all’Europa e ai mercati potesse essere l’incipit per un disegno più ampio. A ben pensarci, da qualche parte, sulla scheda elettorale alle consultazioni del Febbraio scorso, c’era anche il simbolo di Scelta civica. C’era un Mario Monti appena spodestato platealmente dal suo ruolo a causa di un Cavaliere umorale e ancora combattivo. E c’era la convinzione che il grande e altisonante progetto di risanamento del Paese, racchiuso in un’agenda, non fosse concluso. Si credeva che l’esperienza dei tecnici rappresentasse solo un abbrivio verso la gloria eterna. La pervicacia montiana fu dunque un’occasione preziosa per Casini e Fini, convinti di potersi riscattare dal lento declino in cui erano avvolti.

Così, quel professore dall’aria gentile, lo spirito devoto e i capelli bianchi di saggezza parve la guida ideale, quasi naturale, per un nuovo soggetto politico. Riformista e liberalista e europeista. Il progresso reso partito. Ma un partito di cambiamento radical-chic, della gente comune ma di un certo spessore, di una società civile – e non belluina, che invece si sarebbe ampiamente rifugiata tra gli astri nascenti di Grillo – prestata pro tempore alla politica. In sostanza, una élite illuminata di facce nuove, gente perbene, dell’imprenditoria, dei giornali e dell’economia. Parvenu, ma con stile. Insieme a qualche candidato di lunga esperienza politica e di indiscutibile fedeltà democristiana, ovvio.
Più che una comunanza di idee e di ideali, fu piuttosto un tentativo di affermazione dei propri inestirpabili particolarismi, tra Scelta civica, Futuro e libertà e l’Unione di centro. Un disperato slancio verso la restaurazione dell’immagine opaca di ciascuno. Un’alleanza di comodo sancita da un unico simbolo. L’unico vezzo: un tricolore slanciato, alla moda, disperatamente accattivante. Per il resto, sottotono. Austero. Composto. Così come il programma, la ben nota agenda Monti. Pagine e pagine di intenti e propositi che in pochi hanno avuto il coraggio di leggere. Forse perché i precedenti mesi di governo tecnico erano già sembrati abbastanza eloquenti.

Il risultato delle elezioni è deludente. Quantomeno, sotto le aspettative dei sondaggi. La reazione, naturalmente, è quasi immediata, ma anch’essa sotterranea, latente. I risultati di alcune indagini circa i flussi elettorali, commissionate dall’UDC sono eloquenti: Casini avrebbe fatto meglio a presentarsi da solo. Dalla parte montiana, tuttavia, il dissenso sommesso non è da meno: qualcuno denuncia a mezza voce il presunto arrivismo degli uomini fedeli allo scudo crociato. Fin da subito si avvertono le prime lacerazioni. Nel convulso panorama politico del post-elezioni, tuttavia, in pochi badano a quel misero dieci percento. Le maggiori forze politiche hanno già in mano gli equilibri e non paiono interessate a cercare l’appoggio dei centristi, se non quasi per cortesia.
Il fallimento, nonostante i necessari entusiasmi del primo momento, è evidente, perché immediatamente risulta chiaro che con quei numeri irrilevanti in Parlamento la proposta di Monti non avrà seguito. La frustrazione non ci mette poi molto ad assalire i parlamentari. Il sogno di riscatto dell’UDC, dopo mesi di governo trascorsi nell’ombra dando di sé l’immagine di un partito marginale, è svanito. L’aspirazione europeista montiana ad ergersi a riferimento del nuovo ceto medio, stanco della vecchia classe politica, non ha avuto nemmeno il tempo di concretizzarsi. Il tentativo di Futuro e libertà – e di Fini, nello specifico – di ritagliarsi un qualche ruolo attivo all’interno del panorama politico a seguito della débâcle berlusconiana è vano. Le aspettative disattese, alla fine, sono molte.

Mentre in tutte le maggiori forze politiche si consumano guerre intestine dilanianti, quelle interne a Scelta civica si svolgono nell’ombra. Non ci sono i toni accesi di Renzi, che si scaglia contro la nomenklatura del proprio partito. Non ci sono le grida e gli insulti di un Beppe Grillo inebriato da un successo elettorale che nessuno aveva previsto con realismo. Non ci sono le contrapposizioni del Popolo della libertà, in cui tutti rimpiangono il passato, chi il pre-Fiuggi e chi il Novantaquattro. Eppure, le insofferenze interne alla coalizione guidata da Monti non sono da meno. Si acuiscono mano a mano che ci si rende conto che anche nel governo di servizio il peso dell’ensemblement del Professore è minimo. E si esacerbano non appena ci si accorge che Monti, anziché farsi notare, mantiene il silenzio, e si defila dalle evoluzioni politiche. La rarefazione del leader, e il pericolo che questi stia progettando un partito indipendente rispetto alla coalizione, sono il casus belli definitivo per la parte filocasiniana.

Prima dell’extrema ratio, comunque, si tenta la strada dell’incontro riparatore. Ieri, un faccia a faccia tra Monti e Casini, per provare a ricomporre le polemiche interne sempre più accese degli ultimi giorni. Il risultato, come al solito, è inconsistente. Quasi un voler riconfermare la linea politica seguita fino ad adesso. Il progetto in comune continua, ma l’UDC e Scelta civica si risolvono per procedere in autonomia. I gruppi parlamentari restano uniti. Un pochino separati, ma non troppo, né troppo poco. In sostanza, scelgono di temporeggiare, dato che non si scorgono prospettive migliori. Nel frattempo, Monti è determinato a definire una strutturazione solida per il proprio partito. Magari incominciando a comportarsi da leader. Valutando nuove strategie, nuove alleanze più durature. Casini, dall’altra parte, si abbandona ancora alla nostalgia scegliendo di restaurare i vecchi simboli, e la consolidata inconcludente linea politica di indeterminazione, che comunque gli aveva sempre garantito molto più di quanto non abbia guadagnato alle ultime elezioni.
Alla fine, non si tratterà di un divorzio. Piuttosto, di un allontanamento consensuale destinato a seguire i mutamenti del panorama politico per adattarsi all’occasione alla corrente. Come si confà al centro, in un’Italia in cui anche gli estremi sanno convergere, accordarsi e concertare. L’interesse prevalente continuerà ad essere quello politico. Così come la scelta. Non certo civica.


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