Ritratti paradossali
Il collage familiare grottesco e alieno di Sara Mesa, tra le crepe personali e sociali del suo romanzo La famiglia
Inizia con un paradosso La famiglia, il romanzo di Sara Mesa uscito per La Nuova Frontiera e tradotto da Elisa Tramontin. L’autrice madrilena, la cui penultima opera Un amore è stata pubblicata dalla medesima casa editrice, ci conduce avanti e indietro nel tempo, all’interno delle vicende dolorose e assurde di questa famiglia. Ma tutto inizia così: con una bambina che ha un diario segreto e il padre che la intima di disfarsi del lucchetto.
«Ti assicuro che nessuno lo leggerà».
Fece una pausa, si accarezzò il mento, pensoso.
«Dovresti comunque tenere a mente una cosa. Un conto è il desiderio di preservare l’intimità, più che comprensibile, un altro è covare dei segreti. I segreti non sono mai una buona cosa. Al contrario, sono nocivi, si usano per coprire brutte faccende. Altrimenti perché sarebbero segreti? È meglio non aver nulla da occultare, andare a testa alta e non nascondersi».
Martina, la figlia adottiva, prova sulla pelle quanto il concetto di affetto, di relazione, sia distante dalla realtà, dalla definizione che ne legge sui libri. Una delle domande che sembra percorrere questo romanzo, una pseudo-raccolta di racconti ma soprattutto un insieme di ritratti grotteschi e sbavati dall’irreale, è questa: com’è possibile che questa sia la mia famiglia, se neanche mi sembra di appartenere al loro stesso mondo?
Martina dovrà chiederselo, ma come lei la sorella maggiore Rosa, il primogenito Damián (chiamato come il padre) e il piccolo Aquilino. Tutti quanti, compresa la madre, vivono in un mondo distorto, una dimensione plasmata dalle meschinità, dalle debolezze e dai soprusi del padre. L’uomo immagina il concetto di famiglia come un Progetto in continuo miglioramento, un atto performante, qualcosa che deve prendere una forma solida, un modello da seguire e da eseguire.
Com’è possibile che questa sia la mia famiglia, se neanche mi sembra di appartenere al loro stesso mondo?
Ma l’esemplarità tanto bramata dal patriarca soccombe di fronte ai fatti, a partire dai nomi. Damián, con lo stesso nome padre, farà subire alla futura moglie le stesse pene e tristezze che incombevano nella sua vecchia casa. Aquilino finirà per ribattezzarsi Aqui fin da bambino. Rosa da adulta avrà una bambina che non riuscirà a mantenere. La Madre, scontando il ruolo che le viene affibbiato, sembra persino non possederlo un nome. Solo Martina tende continuamente alla fuga, anche in modo letterale. È lei che ci lascia intravedere per prima, grazie anche al ricordo del diario segreto, che questa potrà sembrare una storia corale, ma nessuna coralità può esistere in un edificio simile, in uno spazio angusto dove l’intimità non è affetto, dove non ci sono carezze ma solo regole.
Già in Un amore l’autrice aveva indagato il controllo esercitato da un insieme compatto di individui nei confronti di un singolo. Là era una comunità a stringersi intorno a una protagonista, qui invece è una casa, uno spazio già chiuso a rivelarsi una trappola ben congeniata. Peccato che una casa, una famiglia, non dovrebbe rivelarsi una trappola. Mesa tuttavia ci racconta molto bene, con limpidezza e con frasi puntuali, quello che già sappiamo: di famiglie che non funzionano ce ne sono a centinaia, forse a migliaia. Questa è soltanto una tra tante, l’unica differenza è che la stiamo osservando con metodo, in maniera quasi chirurgica e disinteressata.
Per ripescare dalla memoria tutti quei dettagli, Rosa si era dovuta sforzare, cavandoli dal passato uno a uno. Ma dubitò dell’esattezza di quei ricordi, persino della loro veridicità. Forse nel tentativo di rievocare l’atmosfera di quella casa più eccentrica che allegra, più inquietante che accogliente se la stava inventando. È possibile che Rosa avesse invidiato l’attività chiassosa, l’apparente assenza di responsabilità, il caos come un rovescio appetibile della sua stessa famiglia, in cui le regole, ‘ordine, la pulizia e la disciplina erano tanto indiscutibili quanto asfissianti.
Si può certo parlare di una sensazione claustrofobica; la sperimentiamo mentre si legge di Damián che maltratta la moglie affetta da depressione post-partum o dall’angoscia che prova Rosa quando viene aggredita dagli uomini e la cui unica preoccupazione è che il padre la tratterà come una sgualdrina. Ma ciò che forse emerge è la sensazione di vuoto: non tanto l’essere stretti o essere eccessivamente controllati e soggetti a regole assurde, tutte svolte sotto lo sguardo impietoso del manifesto di Gandhi che il padre tanto osanna, ma il fatto che sembra non poter trovare appigli e sicurezze in ciascuna persona.
Non esistono, nella famiglia costruita da Mesa, punti fermi, cuscini su cui atterrare in caso di caduta. La famiglia non è un nido né delle semplici quattro mura che danno certezza, al contrario. È un ecosistema abbastanza grottesco, in cui tutto può accadere. La famiglia di Martina è terribile, ma ben presto si accorgerà che non può farci niente: è un dato di fatto, pura statistica.
«La famiglia è un limite per l’emancipazione umana», scrive M.E. O’Brien in Family Abolition: Capitalism and the Communizing of Care (Pluto Press, 2023). «Gli orrori della famiglia sono immensi, i suoi abusi diffusi, la sua logica coercitiva. La famiglia è una gioia per alcuni, una necessità per molti e un incubo per troppi. Dietro le sue porte chiuse, ogni casa è una scommessa».
La famiglia è una scommessa. Il recinto familiare, quel muro spesso che costringe gli individui in relazioni, causa un blocco immaginativo. Questo è quello che si legge spesso nei volumi non-fiction sul tema: cosa possiamo mettere al posto della famiglia? Con cosa può essere sostituita? La risposta è semplice: qualsiasi cosa. Martina, vittima del paradosso di sentirsi dire che non esistono segreti e problemi di comunicazione in un luogo che fa acqua da tutte le parti, potrebbe confermarlo. La mancanza di immaginazione causata dal male che un ambiente del genere provoca causa difficoltà nel relazionarsi, e tutti i figli lo dimostreranno nei rispettivi racconti, ma anche un difetto nel comunicare, nel linguaggio stesso. È Mesa a dare loro la voce e a farli esprimere come individui che non hanno appigli, che non riescono nemmeno a confermare la loro stessa presenza all’interno del mondo.
Padre piangeva dandoci le spalle e quella era la cosa più incredibile che avessimo mai visto, perché mai prima l’avevamo visto piangere, ed è probabile che mai prima avessimo visto piangere un uomo adulto, neanche in tv, perché non ce l’avevamo la tv.
Di nuovo appare questo spazio chiuso che però lascia tutti quanti esposti, perché non c’è legame: è una nave in balìa di una tempesta che non finirà mai. Di conseguenza ci ritroviamo a osservare Martina, Rosa, Damián adulto, sapendo che a breve accadrà qualcosa di strano, di sbagliato. Seguiamo le loro azioni come potremmo osservare un documentario, delle creature che ci sembra davvero non appartengano al nostro stesso mondo, cresciute in un ecosistema così grottesco ed emotivamente ingarbugliato. Malmesse nell’esprimere i propri sentimenti. E Mesa non nasconde niente, non con il suo stile calmo, che mette in luce tutto quanto. Si ha quindi la sensazione che prima o poi si aprirà la crepa definitiva, la voragine che spalancherà sotto gli occhi di chiunque ciò che questo padre crudele ha provocato ai figli.
Scheletri che si riscaldano (1889) di James Ensor, Kimbell Art Museum di Fort Worth
Ma il terremoto non avviene mai. Si tratta di tante piccole crepe, di un ticchettio costante che causa disagio, malessere ma nessuno shock definitivo. Alla fine viene da pensare che questo padre è sì spregevole, ma è soprattutto strano. I personaggi di Mesa, tutta questa sgangherata famiglia è strana. Alcuni eventi esagerati, alcuni atteggiamenti fuori dalla norma, sembrano quasi costruire una comica scenetta a là Hitchcock. Davvero possono vivere in quel mondo? Questo finiamo per chiederci.
I personaggi di Mesa, tutta questa sgangherata famiglia è strana. Davvero possono vivere in quel mondo?
Mesa costruisce un romanzo che sembra una raccolta di racconti, di eventi diffusi nel tempo, quando in realtà è davvero un immenso ritratto, ben raffigurato sulla copertina dell’edizione italiana. Un ritratto fatto di crepe, un buffo collage privo di alcun senso. I componenti della famiglia ci sembrano strani, sbagliati, esagerati o alieni. Li osserviamo con lo sguardo dell’entomologo perché neanche loro, i personaggi stessi, ci permettono di vederli come persone reali. Tutto questo è davvero troppo per te, sembrano dirci. Meglio fingere che non apparteniamo al tuo mondo.
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