Pornoecologia

Ridurre l'inquinamento e usare le borracce può bastare a salvare il pianeta?

Cosa succede quando l’immagine prende il sopravvento sul contenuto? E cosa possiamo fare dal momento che sempre, in un modo o nell’altro, il medium, mai neutrale, deforma ciò che vogliamo veicolare? Nel febbraio del 1990 un gruppo di filosofi, antropologi e sociologi coordinati da Franco La Cecla si riuniva a Milano per discutere di questi temi in relazione all’ondata ecologista che proprio in quegli anni stava attirando i riflettori, forse per la prima volta in maniera così importante, sui problemi che attanagliano il sistema-mondo che ci ospita. È così che venne coniato il termine “pornoecologia”, a segnalare come «l’ecologia sia stata inghiottita dalla macchina dei media e della politica che l’ha assimilata e trasformata da paradigma di cambiamento in un sottosettore del sistema delle informazioni e di propaganda». L’intento era quello di svelare, sotto la pretesa del paladinaggio ecologista di molte imprese mediatiche, un modello che tutto sommato era assimilabile a quello della pubblicità e volto a ridurre una non meglio precisata “natura” a tema al di sopra delle parti.
 

L’ecologia è stata inghiottita dalla macchina dei media e della politica che l’ha assimilata e trasformata da paradigma di cambiamento in un sottosettore del sistema delle informazioni e di propaganda, diceva La Cecla nel 1990


Tema, tuttavia, a tal punto edulcorato e mai problematicizzato, che proprio per questo risultava inerme, posticcio, e in definitiva incapace di rendere conto del complesso rapporto tra uomo e natura. Da vettore di cambiamento rivoluzionario, nella misura in cui minava le stesse basi della riproduzione socio-economica di stampo capitalistico-liberista, l’ecologia veniva così ridotta a nicchia settaria, piccolo culto estetizzato nel quale beatamente riconoscersi con malcelata compiacenza ma che, proprio per questo, veniva sfrondata di tutte le sue domande e istanze fondamentali. A tal proposito si parlava quindi di “waltdisneyzzazione” della natura, a segnalare la sua irreggimentazione all’interno delle maglie della rappresentazione, una rappresentazione che ovviamente ne faceva oggetto mansueto, umanizzato, per il quale dover provare pietà (si pensi solamente alle immagini che ci vengono fornite ora degli indios ora degli animali a rischio di estinzione ora dei bambini del cosiddetto terzo mondo che muoiono di malattie e di indigenza) e nel quale potersi lavare dalle proprie colpe di soggetti imperialisti, colonizzatori, intimamente soggetti, nell’accezione metafisica che vuole il soggetto contrapposto ad un oggetto docile, controllabile, ridotto a ben definito ambito sul quale esercitare il proprio potere plasmante e normativizzante. L’alterità veniva così ridotta all’identità, all’alveo del medesimo che poteva così disporne come più preferiva e rispecchiarcisi in base alle proprie necessità e bisogni grazie al dispositivo dominatorio dell’immagine. La parabola del partito dei Verdi veniva presentata come testimonianza di questo fallimentare tentativo di sussumere l’ecologia all’interno di quel più vasto orizzonte mediatico che è la politica.

A distanza di quasi trent’anni viene da chiedersi cosa resta oggi della pornoecologia. Il dibattito sui temi ecologici si è affermato a livello planetario, le agende politiche sono piene di riferimenti all’esigenza di modificare il nostro impatto sulla natura e più in generale di rivedere la sostenibilità ambientale della specie umana. Eppure, nonostante tutta l’urgenza con la quale si è sollevata questa nuova ondata ecologista, che vede in Greta Thunberg la propria paladina, il rischio che rimanga ancora una volta vittima dell’immagine è palese. Se l’immagine di natura edulcorata e umanizzata che criticava La Cecla negli anni ’90 era rappresentata dalla foto del cucciolo di panda del WWF, vero e proprio prodotto studiato e ritoccato per muovere alla duplice emozione della pietosa tenerezza e del velato senso di colpa (insomma quel cocktail stordente che ti portava a fare una donazione), oggi la questione sembrerebbe più complessa. Nonostante viviamo nell’era più massmediatica di sempre, il giustificato allarmismo climatico ha spazzato via la dolcezza delle immagini da cartolina per prediligere i toni foschi e cupi del cataclisma: la foresta in fiamme, i ghiacciai sciolti, l’orso polare denutrito, il bambino africano emaciato e così via. D’altronde la compassione potrà forse mettere radici più profonde e durature, ma di certo la paura agisce molto più velocemente nell’influenzare i comportamenti umani.
 

Limitarsi ad auspicare una semplice riduzione delle emissioni inquinanti può bastare a salvare il pianeta?


Eppure, a ben guardare, non finisce anche questa per essere l’ennesima rappresentazione estetizzante? Quando oggi sentiamo dire che l’illimitata espansione umana deve necessariamente fare i conti con la limitatezza delle risorse e delle possibilità naturali cos’altro è se non una conversione su quella via di Damasco che conduce all’apocalisse climatica da parte di un certo romanticismo, da sempre invaghito del sogno dell’infinito, costretto, per sopravvivere, a tornare alla sua versione greca, amante dell’armonia e del limite e sgomenta del vuoto orrorifico che l’idea di infinito porta con sé? L’immagine allora tornerebbe in tutta la sua ambiguità. Limitarsi ad auspicare una semplice riduzione delle emissioni inquinanti può bastare a salvare il pianeta? Incentivare l’uso di borracce o della bicicletta può far parte della soluzione quando sappiamo bene che, ad esempio, l’inquinamento delle navi da crociera nei nostri mari è paragonabile a quello di tutte le macchine in giro per l’Europa? Purtroppo, al netto della genuinità di queste singole proposte – indubbiamente di per sé nocive non sono, e se servono a testimoniare una maggiore presa di coscienza nei confronti dell’ambiente ben venga – il problema centrale rimane e si può grossomodo sintetizzare nel binomio tra crescita (in primis economica) e impatto ambientale. Quel che oggi abbiamo realizzato a livello di coscienza collettiva è che l’illimitata espansione umana deve per forza di cose fare i conti con la limitatezza delle possibilità naturali. Peccato che “fare i conti” abbia significato, come d’altronde ci ricorda un recente rapporto dell’European Enviromental Bureau, ma anche qualsiasi libro che si occupa di green management, limitarsi alla revisione dei margini di profitto: ok, fino ad oggi abbiamo preso troppo, ma da ora ci impegneremo a prendere “abbastanza”. Questo “abbastanza”, tuttavia, rientra sempre all’interno della logica predatoria dell’utile, proprio in quel senso di sfruttamento che finora ha guidato il nostro approccio all’oggettificazione del mondo e delle sue risorse. I politici sembrano infatti più interessati a capitalizzare questa nuova forma di merce elettorale offerta dall’istanza green che a farsi carico delle sue più profonde conseguenze che, inevitabilmente, riguardano sempre le strutture di riproduzione socio-economica della società capitalista. E quindi a preservare, in ultima istanza, il paradigma metafisico soggetto-oggetto di cui parlavamo prima.

La stessa natura globale del problema esige un approccio sistemico, capace di tenere assieme i diversi livelli e velocità degli attori in gioco. Perché se da un lato è indubbiamente vero che maggiori sforzi possono essere fatti dai paesi industrializzati occidentali, dall’altro è parimenti vero che una contrita autocolpevolizzazione della «razza bianca quale cancro della storia dell’umanità», come ebbe a dire la filosofa statunitense Susan Sontag, non è altro che un trito e triste ritornello utile solo ad eludere il nodo centrale della questione: il fatto che, con tutta probabilità, non saranno possibili soluzioni esenti da ripercussioni, da imprevedibili effetti rimbalzo e di costi di riconversione energetica dalle ricadute poco piacevoli. Si pensi, giusto per fare qualche esempio, al problema aperto dalla produzione di energia elettrica ad uso privato per lo sfruttamento dei giacimenti (con popolazioni annesse) di litio, rame e cobalto o ai biocarburanti che sottraggono suolo alla produzione di cibo; al fatto che se per noi occidentali è forse possibile concepire una (quantomeno parziale) riconversione energetica, questo lusso è impensabile per quelle popolazioni più povere che proprio grazie a tali risorse (come d’altronde per secoli abbiamo fatto noi occidentali molto prima che qualcuno venisse a rimproverarci del nostro consumo dissennato) stanno lentamente liberandosi dalle loro storiche ristrettezze; ai vari coltivatori e allevatori che vedono il lago Chad scomparire rapidamente per lasciare il posto ai conflitti armati; ai milioni di abitanti del sud-est asiatico costretti a fronteggiare monsoni sempre più violenti e distruttivi; a tutti quegli individui che, almeno nel breve/medio periodo, difficilmente farebbero in tempo a sperimentare i benefici di modelli di consumo più sostenibili, ma che rischiano di vedere le loro vite spazzate via entro pochi anni da siccità, desertificazione, alluvioni e innalzamento del livello del mare.
 

Se per noi occidentali è forse possibile concepire una riconversione energetica, questo lusso è impensabile per quelle popolazioni più povere che proprio grazie a tali risorse stanno lentamente liberandosi dalle loro storiche ristrettezze


Tirare le somme di questa rapidissima e rapsodica panoramica non è facile dal momento che è la stessa complessità del problema a renderlo difficilmente sintetizzabile e quindi affrontabile. Quel che però è possibile fare in prima battuta è accogliere l’invito di La Cecla e compagni (come peraltro di molti altri studiosi e scienziati) ad adottare un maggiore scetticismo nei confronti di narrazioni frettolose e cataclismatiche che necessitano di essere decostruite della loro ideologia e ad accogliere un modello di buona ecologia che abbia al suo centro la messa in discussione del nostro stesso concetto di abitatori del mondo, concetto che, si intenda, ci ha dato e continua a darci alcuni grandi lussi (in termini di risorse, di diritti, di privilegi e di comode abitudini) che forse non potremo più permetterci, dal momento che è il nostro stesso paradigma antropologico ad essersi rivelato intimamente autodistruttivo. Dobbiamo prendere atto che il problema dell’ecosostenibilità non è altro che l’altra faccia del nostro problema economico, lo stesso che ci induce a essere al contempo fervidi paladini del Friday for Future e placidi iperconsumatori tanto nelle grandi quanto nelle piccole e quotidiane cose superflue a scadenza già programmata che continuamente trituriamo. Ma quale terapia per una cultura dove anche le più apparentemente innocenti pubblicità di automobili ci imboccano il mito del soggettivismo individualistico più sfrenato, invitandoci a vivere senza limiti, ad essere chiunque si voglia, a ricordarci che il mondo è nostro? Se ritroviamo grumi ideologici fin nelle cose più spicciole forse significa che è il momento di iniziare a preoccuparsi seriamente e di rimettere in discussione tanto, se non tutto, di quello a cui siamo stati da sempre abituati.


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