Perché scrivere di storia

Già, perché? Tra tutte le scelte possibili, perché la storia? Una scienza abusata da mass media che la riducono a svago da seconda serata; un’arte bistrattata, degradata dal senso comune a vana perdita di tempo, arido elenco di battaglie e defunti, e infine, in sostanza, accantonata, dimenticata. Ma qui non si vuole prendere la storia e liberarla dal disuso in cui è caduta; non abbiamo quest’intenzione perché, giovani e acerbi come siamo, sappiamo bene di non averne la capacità. Non siamo storici; non siamo nomi grandi; siamo solo studenti immaturi, che si guardano indietro e tentano di lanciare lo sguardo nelle profondità del tempo e dello spazio. Ma puntiamo bene in alto i nostri archi, perché la freccia arrivi più lontano. E dove si trova e come si chiama questo “più lontano” che vogliamo colpire coi nostri dardi spuntati?

È là dove possono arrivare le nostre capacità, che sono il frutto della nostra volontà di imparare e di studiare, quindi di innamorarci, di appassionarci a un’epoca, a un luogo, a un essere umano; della nostra volontà di esplorare, di capire e di spiegare sì, ma dopo aver studiato; nessuno nasce e vola, e la capacità non ci nasce dentro per miracolo, e nessuno può darcela, nemmeno Dio con la grazia, né lo Stato con la laurea. Si costruisce con lo studio e l’esperienza e qui sta questo più lontano: nella decisione di sapere di più, e di essere disposti a spendere tempo e fatica per riuscire nell’impresa

Il nome non è uno, ma due. Il primo è narrazione; questo perché per lunghi progetti di analisi e interpretazione ci mancano gli spazi e il tempo (per non parlare di competenze che oggi non presumiamo di avere). Ci limitiamo a raccontare storie, che della Storia –  quella singolare e con la esse maiuscola, che per Bloch è l’augusta «scienza degli uomini nel tempo» –  possono solo restituire frammenti di superficie; tasselli colorati di un mosaico che è dura vedere e pensare tutto insieme. Ma siccome crediamo sinceramente nelle potenzialità di chi legge, ci diamo con serio impegno a questo raccontare storie, che sono brevi, magre e mute al confronto delle grandi teorie, ma quanto mai utili, se attizzeranno la curiosità e spingeranno a sapere di quelle teorie, e a padroneggiarle bene come qui si prova a maneggiare l’aneddoto e il racconto. Parafrasiamo poi Plutarco, che voleva lo storico pittore attento ai particolari del viso, più che alle montagne di morti che quei volti dovevano aver visto: non ci asterremo dal raccontare di un pacchetto di sigarette o di una partita di calcio, a patto che dalla superficie delle storie si voglia sempre attingere alle loro radici nella Storia.

Il secondo nome del nostro più lontano è legato alla natura della nostra narrazione, che è suggerimento più che argomentazione esauriente, ed è il prodotto di figli ancora minori della conoscenza, ma della conoscenza sempre affamati: domanda. Oggi la nostra generazione subisce l’Informazione sovrana di questo tempo come la Spagna cinque e secentesca subiva l’afflusso dell’oro sudamericano: come «la pioggia sopra i tetti delle case, la quale se ben vi cade sopra, discende poi tutta in basso senza che quelli che primi la ricevono ne abbiano beneficio alcuno». Dall’Informazione siamo più rimbecilliti che istruiti; come troppi libri per Seneca davano dissipazione e non sapienza, l’affastellarsi delle voci nell’angustia delle nostre case è rumore più che notizia; di qui un gran mal di testa, e un non saper dove andare e infine un lasciarsi trascinare da chi la dice più bella, o più forte, o più facile. Sradicati e deboli, illusi dalla possibilità di cogliere il mondo nei nostri browser, siamo in preda a una frenesia che non è dinamismo, ma epilessia; e siamo ogni volta più stanchi e incapaci di costruire qualcosa di profondo e duraturo. Che senso ha, quindi, cercare risposte in questo tempestoso mare magnum, se non si sa quali sono le domande? Se non si sa da dove si parte, si rischia di non sapere dove si arriva o, peggio, di arrivare nel posto sbagliato.

Eppure aprire una porta non richiede certo meno forza che chiuderla. Ma se questo vuol dire spingere alle domande prima che alle risposte, spingere a rivalutare i punti di partenza, prima di pretendere di sapere quali sono i punti d’arrivo, allora val la pena di tentare. Eccoci di ritorno alla domanda iniziale: perché le storie, per ravvivare il fuoco della domanda e del dubbio? Perché una storia, pur avendo un inizio, uno svolgimento e una fine, non è mai una linea retta che tira dritto dalla prima maiuscola fino all’ultimo punto; presa in medias res, osservata da certi punti di vista, può essere capita solo se esplorata e scavata: domanda ricerca. La ricerca è una ridda di domande e la storia, con i suoi personaggi, i suoi quando e i suoi dove, è il luogo in cui esse possono affiorare. Le domande sono i passi di un viaggio tortuoso che comincia quando si intuisce che ciò che vediamo non esiste solo qui e ora, ma è il momento presente di un qualcosa che cambia nel tempo e si sposta nello spazio;  e il viaggio che noi scegliamo di fare è indietro e altrove nelle storie degli esseri umani. Senza voler dire che è il migliore o il solo, è quello che noi proponiamo per farsi un’idea di che cosa domandare a noi stessi, che siamo il qui e l’ora dell’umanità sempre in moto nello spazio e nel tempo. 


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